I nuovi interventi in materia di aborto: una “moderna” forma di discriminazione verso la donna?

I nuovi interventi in materia di aborto: una “moderna” forma di discriminazione verso la donna?

Negli anni si è ampiamente dibattuto sulla tematica della discriminazione delle donne. Sono stati adottati provvedimenti ad hoc sia a livello nazionale che internazionale per garantire loro il diritto all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione attiva nella vita politica del paese in condizioni di parità con gli uomini; quanto  alla persona, la tutela è stata garantita attraverso riforme tese a porre un freno al vasto numero di femminicidi e violenza sulle stesse, inasprendo le pene ed introducendo reati di nuova generazione, tra cui lo stalking.

Eppure, malgrado gli apprezzabili interventi, tutto rischia di finire nel dimenticatoio ed essere reso vano da manifestazioni nazionali e provvedimenti stranieri che comprometterebbero i risultati raggiunti dopo secoli di lotta, per poi estendersi ad onda d’urto su diritti fondamentali quali quello alla salute, alla libera autodeterminazione e all’uguaglianza, diritti costituzionalmente ed universalmente garantiti.

Partendo dal fondamentale diritto alla base di ogni democrazia, ossia quello di autodeterminazione, ci si è interrogati sulla possibilità di riconoscere al malato il diritto a disporre del suo futuro e soprattutto il diritto di opporsi a certi trattamenti, anche a discapito della propria salute. In tal senso, prima la giurisprudenza poi il legislatore hanno introdotto il principio del consenso informato, sulla cui base il paziente non solo ha diritto di conoscere esattamente il proprio stato di salute e gli interventi terapeutici cui sarà sottoposto, ma altresì di rifiutare detti trattamenti, la cui nozione include anche quelli nutritivi mediante dispositivi medici. Ne consegue il dovere per il medico di rispettare questa manifestazione di volontà, ancorché antecedente, purché venga resa da soggetto capace di intendere e di volere e cosciente di ogni informazione clinica, andando così esente da ogni responsabilità penale e civile per l’eventuale esito infausto ricollegabile alla scelta di non usufruire delle cure.

Quanto al principio di uguaglianza, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948, si recita “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.” (art. 1) e ancora “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (art. 2).

La stessa Costituzione italiana sancisce il principio in un’ottica formale, ma anche sostanziale, ponendo a carico dello Stato il dovere di adottare le misure necessarie in favore delle minoranze per darvi piena attuazione.

Vediamo dunque perché una legge che ponga ingiustificati limiti all’aborto e al diritto generale di ogni donna, quale persona, di autodeterminarsi, costituisce un’evidente negazione dei principi fondamentali, creando una situazione di palese incostituzionalità e violazione di diritti universalmente riconosciuti.

La stessa Dichiarazione sopra richiamata afferma all’art. 12 “nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni” nonché all’art. 16  “uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento”.

Ancora la Convenzione delle NU firmata nel 1979 e ratificata, tra gli altri paesi, dall’Italia, in vigore dal 3.09.1981 così recita:

-“Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “discriminazione contro le donne” sta ad indicare ogni distinzione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo”.(art. 1);

-“Gli Stati parte condannano la discriminazione contro le donne in ogni sua forma, convengono di perseguire, con ogni mezzo appropriato e senza indugio, una politica tendente ad eliminare la discriminazione contro le donne, e, a questo scopo, si impegnano a:-prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione contro le donne da parte di qualsivoglia persona, organizzazione o impresa; – prendere ogni misura adeguata, comprese le disposizioni di legge, per modificare o abrogare ogni legge, regolamento, consuetudine e pratica che costituisca discriminazione contro le donne; – abrogare dalla normativa nazionale tutte le disposizioni penali che costituiscono discriminazione contro le donne(art. 2).

A prescindere dalle convinzioni religiose, l’aborto rappresenta un trattamento sanitario espressione di una scelta informata della paziente, talvolta frutto della libera autodeterminazione, altre di una scelta imposta da particolari condizioni di salute psico-fisica. Alcune donne scoprono di essere affette da patologie cliniche nel corso della gravidanza o vanno incontro a gravissime complicanze che richiedono un tempestivo intervento medico, la cui assenza potrebbe compromettere la stessa possibilità di sopravvivenza. Se è vero in questi casi che ogni persona ha diritto alla tutela della salute, non è altrettanto vero che il medico (quand’anche obiettore di coscienza) possa rifiutare detta pratica.

Altre volte la scelta è invece imposta per salvaguardare la sanità psichica della donna, la quale non desidera e non vuole assolutamente concepire per problematiche di carattere psicologico; basti pensare al concepimento a seguito di violenza sessuale o alle situazioni in cui la stessa legge penale riconosce un trattamento attenuante in caso di gravi situazioni di abbandono morale  e materiale.

Negare il diritto all’aborto in questi casi significherebbe condurre la madre a sottoporsi a pratiche ben più rischiose o a macchiarsi di un crimine: suicidio, infanticidio, lesioni? Quale legislatore o sacerdote, che non sia anche psicologo o psichiatra, potrebbe mai prevedere le future conseguenze di una gravidanza, nei cui confronti la donna abbia manifestato il desiderio di interruzione?

Quanto ai casi residui, se è vero che ogni donna è padrona del proprio corpo e di autodeterminarsi liberamente in condizioni paritarie con l’uomo, deve essere sempre vero che ella gode della possibilità di scegliere consapevolmente se portare avanti la gravidanza oppure optare per altre possibilità.

Negare il diritto alla pratica medica dell’aborto significherebbe quindi violare la dignità, le libertà, l’uguaglianza e il diritto alla salute di una “Persona”; a giustificazione di una violazione di tale gravità non esiste scusante civile o religiosa che tenga. L’imposizione di portare avanti una gravidanza indesiderata costituisce un illecita intromissione da parte dello Stato o da chi per esso nella vita di una donna; lasciare una decisione di questo genere ad un soggetto diverso dall’interessata la pone in una posizione subordinata e la espone a gravi violazioni  di libertà.

A discriminare la donna, del resto, sono sufficienti i trattamenti di cui spesso si sente discutere nei tg e le tasse applicate a titolo di bene di lusso su quei beni che invece dovrebbero essere riconosciuti  come necessari per soddisfare bisogni naturali e periodici del genere femminile.

Non può tralasciarsi un’ultima considerazione; si inizia con l’imporsi sul gruppo più debole, in virtù di ideali di diversa natura, ma dopo un breve periodo si scopre che ad essere colpita è stata l’intera collettività. Oggi il diritto delle donne all’autodeterminazione, domani la libera manifestazione del pensiero …. in un futuro prossimo la libertà a noi più cara.


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