I patti parasociali ed i confini con i vicini patti sociali. Il caso emblematico dei c.d. patti di gestione

I patti parasociali ed i confini con i vicini patti sociali. Il caso emblematico dei c.d. patti di gestione

I patti parasociali sono contratti stipulati tra più soci di una società di capitali per stabilizzarne l’assetto proprietario. Generalmente sono tesi a regolare in modo predeterminato ed unitario il rapporto ed il comportamento dei soci in relazione all’esercizio dei diritti derivatigli dalle azioni possedute ed al fine di tutelare i loro interessi.

Il discrimen tra patti sociali e patti parasociali, benchè prima facie possa risultare di agevole demarcazione, considerata la palese differenza tra un contratto parasociale e il contratto di società, in realtà è stato a lungo oggetto di approfondimenti da parte della più attenta dottrina, tale che risulta utile indagare sulle correnti di pensiero sviluppatesi prima che, nell’ambito della materia in esame, intervenisse la riforma societaria, attuata per mezzo del D.lgs. n. 5 del 2003.

A partire dagli anni ’40 la dottrina maggioritaria ha utilizzato come criterio distintivo tra i patti sociali e quelli parasociali, il criterio formale, sulla scorta del quale devono considerarsi sociali quei patti inseriti nel contratto societario, e, sul versante opposto, sarebbero da considerare parasociali quelli non contenuti nell’anzidetto contratto. Il criterio formalistico, tuttavia, mostra da subito la sua inadeguatezza ad essere considerato criterio universale, dato che difficilmente potrebbe trovare applicazione nel, seppur diverso, campo delle società di persone o irregolari, per le quali, nella vigenza del principio della libertà delle forme contrattuali, si giungerebbe a qualificare sempre come sociale un accordo tra i soci. Inoltre, se da una parte innegabilmente comodo appare l’uso del criterio formale, d’altro canto non può non rilevarsi l’erronea convinzione che tutto ciò che non sia contenuto nello statuto societario sia da qualificare come parasociale, ben potendo invece coesistere lo statuto societario con eventuali clausole parasociali in esso contenute. Le critiche avanzate dalla più attenta dottrina hanno così condotto verso il superamento, almeno in un primo momento, del criterio formale, di cui si è detto, lasciando spazio ad altri criteri più precipuamente di stampo sostanziale.

Per giungere a qualificare come parasociale quel patto afferente alla posizione del socio uti singuli, e come sociale invece quel patto che inerisce impersonalmente alla partecipazione societaria, la dottrina italiana ha invero preso le mosse da quella tedesca in cui, già da tempo, il problema circa la qualificazione degli accordi societari era stato risolto. Ed infatti nel panorama tedesco venivano distinti i patti corporativi da quelli non corporativi, con una distinzione che ricalca quella nostrana di patti sociali e parasociali, ai quali, però, si aggiungeva un tertium genus di patti che potevano assumere la forma ed esplicare gli effetti degli uni o degli altri, a seconda della volontà delle parti.

Su tale scia, dunque, la dottrina italiana distingueva tra patti sociali, patti parasociali, patti che non potevano essere nè sociali nè parasociali, e patti che potevano essere contemporaneamente sociali e parasociali. È evidente pertanto come la ratio sottesa a simili orientamenti sia da ricercare nella valorizzazione della scelta operata dalle parti circa il modo di esssere dell’accordo che si accingono a stipulare, con l’ulteriore, ed importante, precisazione che l’elemento formale può rilevare al massimo come mero indizio circa la natura sociale o non patto stesso.

Senza volersi eccessivamente prolungare, deve tuttavia evidenziarsi che con l’avvento della riforma societaria, nel 2003, si è registrato un ritorno al criterio formale quale criterio idoneo a segnare la linea di demarcazione tra patti parasociali e sociali, insieme con l’emergere del recente trend applicativo teso a riportare al sociale il parasociale. A ben vedere, però, chi tutt’oggi resta ancorato all’utilizzo di un parametro formalistico non ha, come invece ci si auspicava, fatto alcunché per superare le critiche che già, ante riforma, erano state mosse al criterio in questione.

Siffatte prese di posizione si rilevano oggi quanto mai necessarie se si considera che l’inquadramento di un patto tra più soci entro l’alveo dei patti di natura sociale o entro quelli di natura parasociale non ha una rilevanza meramente teorica ma porta con sé importanti risvolti pratici.

Sul piano degli effetti, infatti, a differenza del patto sociale che ha un’efficacia reale, estesa a tutti i soci presenti e futuri, i patti parasociali hanno un’efficacia obbligatoria, inter partes, e, quindi, non si estendono nè ai soci futuri, nè tanto meno ai soci non paciscenti. Ancora, diverso è il regime della pubblicità richiesta al fine della loro validità: necessità di trascrizione nel registro delle imprese per il patto sociale, immediatamente valido ed efficace, ex art. 1376 c.c., il patto parasociale.

Utile al fine di qualificare un patto come parasociale è, senz’altro, la tipizzazione di alcune tipologie, di uso frequente nella prassi, di patti parasociali offertaci dal nostro legislatore all’art. 2341 bis c.c. La norma appena citata, infatti, fa riferimento alle diverse ipotesi dei sindacati di voto, ossia quelli che “hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle S.p.a. o nelle società che le controllano“; i sindacati di blocco, a cui fa riferimento la lettera b), comma 1, della norma in esame, e cioè quelli che “pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano“; ed, infine, i sindacati di controllo, che, ex art. 2341 bis c.c., comma 1, lettera c), “hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società […]”. Le tre tipologie di patto, sebbene come detto possono certamente essere considerate le più in voga nella prassi, d’altro canto non esauriscono affatto il novero dei patti parasociali, considerata tra l’altro la natura atipica del patto in oggetto.

Detta natura atipica dei patti parasociali comporta almeno due inevitabili corollari: in primo luogo, l’impossibilità di circoscrivere la disciplina del parasociale ad un numero chiuso di tipologie contrattuali fa sì che rivesta un ruolo centrale l’opera dell’interprete di inquadramento della fattispecie tipica contrattuale entro il parametro delle validità, e, ancora, che l’essere un contratto atipico impone di utilizzare quale canone di giudizio lo stesso in uso per i contratti atipici tout court; in altre parole, i contratti parasociali saranno leciti e validi finché saranno riscontrati interessi giuridici sottesi ad essi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ex art. 1322, comma 2, c.c. Tale controllo di meritevolezza allora dovrà farsi non tanto in astratto, ma bensì in concreto e cioè tale che l’interprete volga la sua attenzione non tanto alla causa ma quanto alle singole clausole, in un ottica sempre più funzionale. Non sfugge, infatti, al rilievo della più attenta dottrina l’osservazione secondo cui la valutazione circa la meritevolezza degli interessi sottesi va fatta caso per caso, e soprattutto come questa ben si distingua dal diverso controllo di liceità del contratto in esame. Il controllo della liceità invero precede quello della meritevolezza che andrà svolto in due momenti, secondo una struttura bifasica: innanzitutto, andranno valutati gli interessi che le parti interessate vorrebbero, per mezzo del contratto da sottoscrivere, tutelare; in secondo luogo, dovrà valutarsi la conformità di tali interessi con quegli altri parimenti protetti dall’ordinamento giuridico, intendendo con questi ultimi non solo gli interessi tipizzati, ma piuttosto la sintesi di tutti gli interessi che l’ordinamento giuridico riconosce quali meritevoli di tutela, al fine vagliare la preponderanza dei primi rispetto ai secondi, e così giustificarne il sacrificio.

Emblematico, sul punto, è il caso dei c.d. patti di gestione, e cioè quei patti, non tipizzati dall’art. 2341 bis c.c. e di natura obbligatoriamente parasociale (dato che la loro inclusione all’interno del contratto di società li renderebbe per ciò solo illeciti), con cui più soci si accordano circa la programmazione e il controllo dell’attività amministrativa. La tesi, invero più diffusa, che sancisce la nullità di tali patti lo fa sul rilievo che tale materia, quella gestoria, sarebbe sottratta alla libera disponibilità delle parti in quanto di dominio dei soli organi cui tale compito è legislativamente affidato. Ma, a ben vedere, si peccherebbe di eccessiva radicalità tanto se si escludesse a priori la loro meritevolezza di tutela, quanto se questa venisse ammessa senza alcuna ulteriore precisazione. La soluzione che appare più in armonia con l’impianto legislativo non può, allora, non essere quella volta a guardare caso per caso agli interessi sottesi che l’eventuale patto di gestione vorrebbe tutelare, considerato che la stipulazione del patto de qua non precluderebbe all’organo gestorio, rectius all’amministratore, di indirizzare le sue scelte e i suoi comportamenti verso soluzioni in linea con gli orientamenti societari, e nel rispetto delle regole di buona gestione della società.

I patti di gestione, e più in generale i patti parasociali, che non superino il vaglio della valutazione in concreto circa la meritevolezza di tutela degli interessi sottesi potrebbero allora semplicemente venire disapplicati, e non per forza giudicati come invalidi o illeciti. In tal modo, i patti in questione non sarebbero causa di domanda di risarcimento del danno a fronte del loro eventuale inadempimento, e, al di fuori della circostanza concreta, resterebbero validi ed efficaci, beninteso sempre che con essi non siano violate norme imperative o che non risultino contrari all’ordinamento giuridico.


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Martina Quacinella

Laureata in Giurisprudenza, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e attualmente studentessa presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università Federico II di Napoli.

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