I punti fermi delle sentenze San Martino sulla responsabilità medica

I punti fermi delle sentenze San Martino sulla responsabilità medica

In materia di responsabilità medica occorre dare atto di un importante intervento nomofilattico della S.C., la quale con una serie di dieci sentenze emanate nel novembre 2019 (denominate decalogo di San Martino) ha cercato di fare chiarezza in merito ai molteplici dubbi insorti in seno alla giurisprudenza in ordine ai contorni di tale responsabilità e ai danni che dalla stessa possono derivare.

In primo luogo la Corte specifica il ruolo del consenso informato, procedendo altresì ad individuare le tipologie di danno che possono essere riconosciute e risarcite in caso di omissione informativa.

Secondo il supremo consesso giudiziario, in particolare, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce espressione di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione della propria persona fisica, il quale, anche se connesso, deve essere mantenuto distinto dal diritto alla salute.

La libertà di autodeterminazione della propria persona fisica viene garantita all’interessato attraverso l’imposizione di uno specifico obbligo informativo in capo al medico, il quale è tenuto a rendere edotto il paziente circa i rischi dell’intervento, i risultati conseguibili, le controindicazioni, gli effetti collaterali e le eventuali alternative terapeutiche, in modo da consentirgli una scelta libera e consapevole.

L’omissione informativa, specifica il Collegio, è suscettibile di assumere portata plurioffensiva, essendo potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali facenti capo al paziente: essa, infatti, oltre ad integrare una lesione alla sua libertà di autodeterminazione, può certamente aver contribuito, congiuntamente all’errata esecuzione del trattamento terapeutico, alla determinazione del pregiudizio alla salute dallo stesso derivante.

Ne deriva la ricostruzione della relazione medico/paziente come un rapporto giuridico unico ma caratterizzato da una pluralità di obbligazioni differenti, le quali sono tra loro poste in connessione strumentale, convergendo verso il perseguimento del medesimo fine, ovvero la cura del paziente.

Tanto premesso, secondo la S.C. due sono le tipologie di danno che possono trovare ristoro in caso di violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente: anzitutto un danno alla salute, qualora sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi al trattamento e scongiurato così le sue conseguenze invalidanti; d’altra parte, può certamente configurarsi in capo al paziente un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, nell’ipotesi in cui, a causa della mancata informazione, il medesimo abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, diverso da quello alla salute.

Ciò presupposto, la Corte procede ad esaminare nello specifico una serie di ipotesi, individuando per ciascuna la tipologia di danno risarcibile.

In primo luogo, con riguardo all’omessa o insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del sanitario, al quale il paziente avrebbe comunque deciso di sottoporsi anche qualora fosse stato correttamente informato, la S.C. ritiene che il risarcimento debba essere limitato al solo danno alla salute, posto che nessuna lesione alla libertà di autodeterminazione del paziente può in questo caso essere affermata, posto che lo stesso si sarebbe in ogni caso sottoposto all’intervento.

Il danno da lesione alla libertà di autodeterminazione, invece, dovrà certamente essere risarcito nell’ipotesi in cui venga accertato che l’interessato avrebbe evitato l’intervento qualora correttamente informato. E’ chiaro, infatti, come in questo caso l’omissione informativa abbia inciso sulla volontà del paziente, avendolo indotto ad accettare un trattamento al quale altrimenti non avrebbe prestato il proprio consenso.

Nel caso in cui, per contro, l’omessa informazione abbia riguardato un intervento il cui esito infausto non dipenda dalla condotta colposa del medico, ma al quale il paziente, se correttamente informato, non si sarebbe sottoposto, allora il risarcimento dovrà essere liquidato con riferimento alla violazione del diritto all’autodeterminazione, mentre la lesione del diritto alla salute andrà valutata, secondo il Collegio, in relazione all’eventuale situazione “differenziale” tra il maggior danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto.

La Corte, infine, esamina il caso dell’omissione od inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato un danno alla salute del paziente, ma gli abbia impedito più accurati ed attendibili accertamenti, prevedendo in tale eventualità il risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione qualora il paziente alleghi che, dall’omessa o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate delle conseguenze dannose di natura non patrimoniale in termini di sofferenza soggettiva.

Con una successiva pronuncia, poi, la S.C. interviene sulla problematica inerente alla quantificazione del danno alla salute nell’eventualità in cui l’evento lesivo, derivante dall’esito infausto dell’intervento, si aggiunga ad una menomazione preesistente della vittima.

A tal proposito, la Corte ribadisce la distinzione tra nesso di causalità materiale, intercorrente tra la condotta dolosa o colposa del sanitario e l’evento di danno, e nesso di causalità giuridica, il quale individua invece le singole conseguenze pregiudizievoli che, in quanto connesse all’evento lesivo, possono essere risarcite.

Mentre il nesso di causalità materiale deve essere accertato sulla base degli artt. 40 e 41 c.p., l’accertamento del nesso di causalità giuridica deve essere compiuto ai sensi dell’art. 1223 c.c., secondo il quale possono essere risarcite solo le conseguenze pregiudizievoli dirette ed immediate del fatto illecito.

Detto questo, secondo il Collegio la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima del danno medico è suscettibile di incidere su di entrambi i nessi causali, andando a rilevare sul piano della causalità materiale qualora le stesse rappresentino una concausa della lesione, ovvero assumendo rilevanza sotto il profilo della causalità giuridica laddove esse si identifichino in una concausa della menomazione, avendo contribuito ad aggravare le conseguenze dannose dell’intervento.

Posto che l’accertamento del nesso di causalità materiale deve avvenire sulla base del principio di equivalenza di cui all’art. 41 c.p., osserva la Corte, deve escludersi la possibilità che un concorrente fattore naturale, quale una preesistente condizione patologica del paziente, sia suscettibile di determinare un frazionamento del nesso in questione, tale da determinare una riduzione della responsabilità del sanitario in considerazione del minor apporto causale della sua condotta nella causazione del danno.

Nel caso in cui il fattore naturale abbia concorso con la condotta dolosa o colposa del sanitario nella determinazione del danno, infatti, l’equivalenza causale impone di ascrivere la responsabilità interamente in capo all’agente. Diversamente, la responsabilità del sanitario andrebbe negata qualora si accerti che la causa naturale sia tale da escludere il nesso di causalità materiale tra la condotta di quest’ultimo e l’evento dannoso, essendo da sola idonea a cagionarlo.

Quanto invece alla seconda delle ipotesi menzionate, ovvero quella consistente nell’aggravamento dei c.d. “postumi permanenti” preesistenti, la Corte distingue tra accertamento dell’invalidità e successiva liquidazione del danno.

Sotto il primo profilo, si esclude che le preesistenze possano incidere sulla percentuale di invalidità permanente, la quale dovrà essere determinata concretamente e complessivamente; in merito alla quantificazione del danno, invece, si prevede la necessità di sottrarre all’invalidità accertata quella ipotizzabile in assenza della condotta censurata.

Con una terza pronuncia, il Collegio individua il contenuto ed i contorni applicativi dell’azione di rivalsa della struttura sanitaria, la quale, chiamata a risarcire il danno cagionato dal sanitario suo dipendente ex art. 1228 c.c., si rivale poi su quest’ultimo.

Così come riconosciuto da unanime giurisprudenza, la responsabilità della struttura sanitaria per il danno causato dal medico suo dipendente ha natura contrattuale, traendo spunto da un accordo negoziale concluso con il paziente al momento del suo ingresso in ospedale.

Ciò comporta la possibilità per il danneggiato di usufruire, nell’esercizio dell’azione risarcitoria, del regime particolarmente favorevole, in tema di onere probatorio e di prescrizione, previsto dalla legge in materia di responsabilità contrattuale.

Tanto premesso, secondo la Corte in tale ipotesi il danno cagionato al paziente dovrebbe essere ripartito tra struttura e sanitario anche nel caso in cui si dovesse accertare la colpa esclusiva di quest’ultimo, posto che l’ente ospedaliero è tenuto a farsi carico del rischio connaturato all’utilizzazione di terzi nell’effettuazione della prestazione.

Ne deriva, afferma la S.C., che il principio presuntivo di divisione paritaria dell’obbligazione risarcitoria potrà essere superato unicamente mediante la prova da parte dell’ente, non solo della colpa esclusiva dell’operatore sanitario, ma altresì della derivazione causale dell’evento dannoso da una condotta del medico deviante rispetto all’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, da intendersi come grave ed imprevedibile forma di “mal practice”.

Nell’ambito del fondamentale intervento nomofilattico in commento, la Corte interviene  altresì sull’esigenza di personalizzazione del danno non patrimoniale derivante da lesione alla salute, prevedendo che la misura ordinaria del risarcimento, così come determinata facendo riferimento alle tabelle normative, possa essere aumentata esclusivamente in presenza di conseguenze del tutto anomale e peculiari, come tali diverse da quelle che si riscontrano in capo a qualunque altro soggetto che abbia subito una lesione simile. Tali circostanze, in particolare, devono essere allegate e provate dal danneggiato, il quale può a tal fine usufruire anche di massime di esperienza e presunzioni semplici.

Partendo dal presupposto che il danno alla salute si articola nella componente anatomica/funzionale ed in quella dinamico/relazionale, la Corte evidenzia come nel calcolo tabellare possano ritenersi ricomprese solo le compromissioni dinamico/relazionali aventi carattere ordinario, dovendo infatti considerare, nella determinazione del danno, anche la diversa importanza che l’attività compromessa può assumere nella vita della vittima.

D’altronde, osserva la Corte, la personalizzazione si rende necessaria sulla base di un’ulteriore considerazione: nelle tabelle milanesi, infatti, ad ogni valore percentuale del punto corrispondono menomazioni differenti, di conseguenza, a parità di percentuale di invalidità potrebbero certamente sussistere menomazioni in grado di riflettersi in modo differente sull’aspetto dinamico/relazionale della vita della vittima.

Nell’occasione dell’emanazione del c.d. decalogo di San Martino, inoltre, la Corte ha avuto modo  di specificare la natura del c.d. danno da perdita del rapporto parentale.

Tale può considerarsi quel pregiudizio consistente nella perduta possibilità di godere del rapporto con il parente che è venuto meno, con conseguente irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività e sulla solidarietà dei rapporti familiari.

Il danno da perdita del rapporto parentale, precisa la Corte, costituisce una particolare tipologia di danno non patrimoniale, da intendersi quale lesione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati, e nello specifico quale pregiudizio alla libera esplicazione della propria personalità mediante lo sviluppo dei propri legami affettivi e familiari.

Tanto premesso, prosegue il Collegio, tale pregiudizio, quale tipico danno conseguenza, non può coincidere con la lesione dell’interesse tutelato, dovendo al contrario essere allegato e provato quale conseguenza di essa. Ne deriva, pertanto, che la sola esistenza del rapporto familiare non consente di ritenere sussistente il danno, essendo onere dell’interessato dimostrare l’effettività e la consistenza del rapporto familiare.

Quanto alla convivenza, invece, si afferma che essa non costituisce un requisito minimo per l’esistenza del rapporto, assurgendo piuttosto ad elemento utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità.

La liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, quale particolare fattispecie di danno non patrimoniale, deve avvenire in via equitativa sulla base della caratteristiche del rapporto e dei soggetti coinvolti. Devono essere prese in considerazione, in particolare, l’intensità e l’affettività della relazione, l’eventuale convivenza, l’ampiezza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei superstiti, nonché ogni altra circostanza utile a verificare la consistenza del rapporto.

Secondo la Corte, posto che il danno da perdita del rapporto parentale si estrinseca in un pregiudizio di carattere esistenziale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato, il quale è privato della possibilità di godere del rapporto con il familiare defunto, considerato inoltre che lo stesso ha altresì una componente morale soggettiva, la quale si identifica nelle sofferenze psicologiche patite dal familiare in conseguenza della perdita, costituisce duplicazione risarcitoria, affermano gli Ermellini, attribuire tale danno congiuntamente a quello morale o esistenziale.

Al contrario, precisa il Collegio, il pregiudizio da perdita del rapporto parentale non comprende invece il danno c.d. biologico, il quale, consistendo nell’insorgenza di una patologia medicalmente accertabile quale conseguenza dell’illecito, rimane certamente da esso separato e come tale deve essere liquidato in via autonoma.

La Corte, ancora, interviene sul contrasto insorto in ordine all’applicazione retroattiva dei criteri del codice delle assicurazioni private, richiamati per la determinazione del danno biologico dall’art. 3 del d. lgs. n. 158/12 (decreto Balduzzi), con disposizione poi confermata dall’art. 7 della l. n. 24/17 (Gelli/Bianco),

In merito alla suddetta problematica, la S.C. esclude anzitutto che si verta in tema di successioni di leggi nel tempo, evidenziando come il contrasto sussista in realtà tra una legge nuova ed una precedente prassi giurisprudenziale.

Ciò premesso, dice la Corte, occorre inoltre considerare che la norma sopravvenuta del citato decreto non incide sulla fattispecie costitutiva, limitandosi a disciplinare le modalità di esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno, così come riconosciuto al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c.; essa, pertanto, assume carattere processuale, e non sostanziale, rimanendo come tale soggetta al principio del “tempus regit actum”, con conseguente operatività in tutte quelle ipotesi in cui il potere di liquidazione sia ancora esercitabile, non essendo stato definito il processo.

Al fine di predicare l’irretroattività della disciplina in parola, dunque, non può certamente valere la distinzione tra norme di diritto processuale e norme di diritto sostanziale, posto che la nuova normativa, non andando ad incidere su nessuno degli elementi costituivi della fattispecie di responsabilità civile, conserva carattere meramente processuale.

La Corte, nell’occasione, ha inoltre specificato il ruolo del nesso di causalità materiale nell’ambito della responsabilità da inadempimento professionale, evidenziando la funzione ricostruttiva della relazione, tra danno ed evento, che tale rapporto assume nella suddetta fattispecie di responsabilità.

La responsabilità da inadempimento professionale, afferma la Corte, è strutturalmente  diversa da quella conseguente all’inadempimento delle obbligazioni di fare o di dare aventi carattere ordinario, nelle quali il danno evento coincide con l’inadempimento ed è dunque sufficiente per il creditore allegare quest’ultimo affinché possano ritenersi altresì allegati il danno evento ed il nesso di causalità materiale, e di conseguenza soddisfatto l’onere di prova su di esso incombente.

In ambito professionale, al contrario, vengono in considerazione due differenti aspetti: in primo luogo, l’interesse primario del paziente ad ottenere un miglioramento delle proprie condizioni di salute; in secondo luogo, un interesse ad esso certamente strumentale, consistente nell’obbligo per il sanitario di agire con la dovuta diligenza nell’effettuazione della prestazione.

Ne deriva, spiega la Corte, la necessità che in tal caso il creditore non si limiti ad allegare l’inadempimento dell’obbligazione di diligenza gravante sul sanitario, dovendo altresì dimostrare che a tale inadempimento è dovuta la violazione dell’interesse primario, ovvero il peggioramento delle proprie condizioni di salute o comunque l’insorgenza di nuove patologie.

Secondo quanto specificato dalla Corte, in particolare, posto che nelle obbligazioni da “facere” professionale il danno evento coincide con la lesione dell’interesse presupposto e non dell’interesse corrispondente alla prestazione, l’allegazione dell’inadempimento non comprende anche quella del danno evento, il quale concerne un interesse diverso rispetto a quella perseguito dalla prestazione.

Ne consegue, pertanto, la necessità per il creditore di dimostrare la violazione dell’interesse presupposto ed il nesso di causalità materiale tra tale danno e l’inadempimento del sanitario, spettando invece al danneggiante l’onere di provare la corretta esecuzione della prestazione ovvero la sua impossibilità sopravvenuta per causa ad esso non imputabile.

Un altro tema affrontato dalla S.C. nell’occasione dell’intervento nomofilattico in esame è il c.d. danno da perdita di chance.

Come precisato dal supremo consesso giudiziario, in materia di responsabilità medica può venire in considerazione una “chance”, c.d. non pretensiva a carattere non patrimoniale, solo nell’eventualità in cui la condotta colpevole del sanitario abbia determinato un evento di danno incerto.

Al contrario, precisa il Collegio, non può certo discutersi di danno da perdita di chance nel caso in cui l’evento dannoso, consistente nella morte del paziente, in una riduzione della sua vita o in un peggioramento della qualità della stessa, sia invece riconducibile alla negligenza del sanitario sulla base del criterio di accertamento del “più probabile che non”; in tale ipotesi, infatti, stante la perdita del risultato favorevole e non della sola possibilità di conseguirlo (c.d. chance), il danno non può che essere integralmente risarcito.

Da ultimo, la Corte affronta la questione inerente all’applicazione retroattiva delle norme relative alla qualificazione della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria contenute nel citato decreto Balduzzi, nonché nella successiva legge Gelli/Bianco.

Occorre premettere a tal riguardo, che in seno alla giurisprudenza si sono succeduti, nel corso degli anni, diversi orientamenti in merito alla natura di tale responsabilità, la quale, inizialmente considerata come extracontrattuale, fu successivamente definita come una responsabilità contrattuale da contatto sociale.

Con l’entrata in vigore del d. lgs. n. 158/12, poi, il legislatore introduce nell’ambito della professione sanitaria una particolare causa di esclusione della responsabilità penale del medico, avente ad oggetto i danni derivanti dall’esercizio della professione sanitaria che siano stati cagionati per colpa lieve e nel rispetto delle linee guida e delle buone pratiche clinico/assistenziali, mantenendo fermo in ogni caso l’obbligo di risarcimento ex art. 2043 c.c.

Nonostante il richiamo alla norma cardine della responsabilità extracontrattuale, la Corte ritiene che il riferimento all’art. 2043 c.c., contenuto nell’art. 3 del decreto Balduzzi, non abbia in realtà alcuna portata qualificatoria della responsabilità sanitaria, limitandosi a definire in modo indiretto l’oggetto dell’obbligazione di carattere risarcitorio gravante sul medico che abbia agito con colpa lieve.

Ciò a differenza di quanto invece previsto dall’art. 7 della legge Gelli/Bianco, il quale qualifica espressamente come extracontrattuale la responsabilità del sanitario operante all’interno della struttura ospedaliera, prevedendo che lo stesso debba rispondere del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

Con il suddetto intervento normativo, dunque, si supera la precedente qualificazione giurisprudenziale della responsabilità sanitaria in termini di responsabilità contrattuale da contatto sociale, suscitando un dibattito in ordine al suo ambito di applicazione temporale, ovvero imponendo di valutarne la possibile efficacia retroattiva.

Secondo quanto ritenuto dalla S.C., in particolare, l’applicazione retroattiva della qualificazione del rapporto giuridico operata in sede legislativa contrasterebbe con il potere qualificatorio spettante al giudice, venendo a violare le funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.
L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

Latest posts by Avv. Riccardo Cuccatto (see all)

Articoli inerenti

La riforma Cartabia: le principali novità del nuovo processo civile dal tribunale al procedimento semplificato di cognizione (ex 702 bis c.p.c.)

La riforma Cartabia: le principali novità del nuovo processo civile dal tribunale al procedimento semplificato di cognizione (ex 702 bis c.p.c.)

I tempi dell’entrata in vigore Dal 1° gennaio 2023, l’udienza cartolare può essere disposta sempre dal Magistrato, ad esclusione di quella che...