I rapporti tra omicidio stradale, lesioni personali stradali e guida in stato di ebbrezza

I rapporti tra omicidio stradale, lesioni personali stradali e guida in stato di ebbrezza

Con la sentenza n. 26857 del 29.5.2018, la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, ha chiarito i rapporti tra i reati di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime aggravati dalla guida in stato di ebbrezza (rispettivamente: art. 589-bis, comma 3 c.p. ed art. 590-bis, comma 3, c.p. introdotti dalla L. 23.3.2016, n.41) e l’autonoma contravvenzione della guida sotto l’influenza dell’alcool (prevista dall’art. 186, del D. Lgs. 30 aprile 1992 n. 285: il c.d. codice della strada), delibando in favore della natura giuridica di reato complesso (art. 84 c.p.), anziché applicare la disciplina del concorso di reati.

Giova preliminarmente osservare come, già sotto il vigore della disciplina previgente la novella del 2016, dottrina e giurisprudenza erano divise circa l’ortodosso inquadramento del rapporto tra i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose commessi in violazione delle norme del codice della strada (rispettivamente: art. 589, comma 3 c.p. e 590, comma 3, c.p.) e la contravvenzione della guida in stato di ebbrezza alcolica.

La dottrina maggioritaria era pressoché unanime nel sostenere l’applicazione della disciplina prevista per il reato complesso.
E ciò sulla base, essenzialmente, di un duplice ordine di considerazioni testuali ricavate dell’interpretazione del combinato disposto tra gli artt. 84 e 15 del codice penale, quest’ultimo rubricato “materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale” (c.d. principio di specialità).

A mente dell’art. 84, primo comma, c.p., infatti, <<le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato>>.

Talché, l’autonomia contravvenzione della guida sotto l’influenza dell’alcool veniva espressamente prevista dal legislatore quale circostanza aggravante dei delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose.

D’altro canto, la corretta applicazione del principio di specialità codificato dall’art. 15 c.p. – a tenore del quale <<quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito>> – dimostrava come i delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose contenessero in sé tutti gli elementi strutturali e costitutivi della guida sotto l’influenza dell’alcool, con l’ulteriore “aggiunta” dell’elemento specializzante rappresentato dal verificarsi dall’evento letifero o lesivo.

La giurisprudenza, viceversa, era costantemente orientata nel qualificare il rapporto de quo nel senso della ricorrenza del concorso di reati, anziché del reato complesso.

Semplificando le argomentazioni sostenute dalla nomofilachia, esse si fondavano su di un triplice ordine si considerazioni.

Anzitutto, la c.d. clausola di riserva contenuta espressa in esordio dell’art. 186 co. 2 c.d.s. (<<ove il fatto non costituisca più grave reato…>>), non avrebbe determinato di per sé l’assorbimento della contravvenzione nel reato ex art. 589 c.p. stante la mancanza di un rapporto di specialità (ex pluribus, cfr. Cass. Sez. Vi penale, sent. n.. 3559 del 29.10.2009).

In secondo luogo, le due norme avrebbero tutelato beni giuridici differenti trattandosi di difesa dell’incolumità pubblica per il reato punito dal codice della strada e di difesa della vita e dell’integrità fisica per l’omicidio colposo o le lesioni personali colpose.

In terzo luogo, le due fattispecie criminose sarebbero commesse entro lassi temporali differenti.

Precisamente, il porsi alla guida in stato di ebbrezza rappresentava una condotta illecita necessariamente precedente, da un punto di vista cronologico, rispetto agli eventi di reato rappresentati dalla morte o dalle lesioni.

Con la sentenza n. 26857/2018 si assiste ad un vero e proprio revirement concettuale e dogmatico da parte della Corte di Cassazione, attraverso la preliminare valorizzazione del principio del c.d. ne bis in idem sostanziale, considerato – condivisibilmente – un cardine di civiltà giuridica.

Vale la pena riportare, in parte qua, la motivazione del Supremo Collegio, secondo il quale <<la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell’ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 c.p.p. e ss.) e l’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 c.p.p.) (in tale senso, Sez. 1, n. 27834 del 01/03/2013, Carvelli, Rv. 255701; Sez. 6, n. 1892 del 18/11/2014, dep. 2015, Fontana, Rv. 230760); va precisato che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti (artt. 84 e 15 c.p.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all’imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. “ne bis in idem sostanziale”, che però, come noto (cfr. sul punto la parte motiva di Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni, Rv. 253839), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell’ordinamento. Il momento di sintesi, di cui è espressione l’art. 84 c.p., dell’esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all’imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata “vicenda di vita” si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell’azione penale talora ad elemento costitutivo dell’illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante”.

La Corte di Cassazione, in altri termini, prende atto del mutato quadro normativo voluto dal legislatore del 2016, che ha inteso indubbiamente restringere l’area di rilievo penale, laddove le nuove fattispecie contemplate dagli artt. 589-bis e 590-bis c.p. prevedono quale soggetto attivo del reato unicamente colui che si pone “alla guida”, laddove le previgenti disposizioni qualificano i fatti di omicidio colposo e lesioni personali colpose quale reato comune, potendo essere commessi da “chiunque”.

Tale insegnamento, peraltro, si pone in armonia con le linee-guida già espresse dalla quasi totalità dei Procuratori della Repubblica presso i Tribunali, i quali – all’indomani dell’entrata in vigore della Legge n. 41/2016 – avevano già espresso sensibilità verso l’orientamento più garantista del reato complesso.


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