I reati contro la Pubblica amministrazione trent’anni dopo Tangentopoli: corruzione e concussione

I reati contro la Pubblica amministrazione trent’anni dopo Tangentopoli: corruzione e concussione

Il 22 aprile del 1992, a Milano, otto imprenditori in arresto confessano di aver pagato miliardi di tangenti in cambio dell’aggiudicazione di appalti. È uno dei primi atti dell’inchiesta Mani Pulite, iniziata qualche mese prima, con l’arresto in flagranza di Mario Chiesa, noto esponente politico. Dalle indagini emerge, in tutta la sua sistematicità, una complessa e sotterranea rete di scambi, che gli imprenditori descrivono come inevitabili: la contingenza dei rapporti corruttivi li aveva resi correi e, al contempo, vittime del sistema. Che i rapporti tra l’autorità e i soggetti privati siano covo di reati (più o meno offensivi dell’interesse pubblico) non è di certo emerso soltanto nel 1992: la quinta bolgia dell’Inferno dantesco è destinata ai barattieri, che si erano arricchiti abusando del loro incarico pubblico. Tangentopoli ha determinato, però, un sensibile mutamento della fenomenologia di questi reati, in particolare della concussione e della corruzione.

Nella sua prima formulazione, il codice penale del 1930, ha previsto:

i. la concussione, all’art. 317 c.p., in cui l’agente pubblico, in condizione di superiorità e abusando dei suoi poteri, induce o costringe il privato a promettere o offrire una utilità; si tratta di un reato monosoggettivo proprio, in cui il legislatore punisce un autore singolo – che è il soggetto pubblico – con la pena di reclusione da quattro a dodici anni, mentre il privato coinvolto nella vicenda è la persona offesa, che rimane vittima del comportamento dell’agente pubblico;

ii. diversamente, nel reato di corruzione l’agente pubblico e il soggetto privato, in una situazione di parità, sono entrambi puniti per aver posto in essere un accordo (il cd. pactum sceleris), al centro del quale vi è la dazione o la promessa di una somma di denaro o altra utilità in cambio del compimento di un atto d’ufficio. A seconda che l’atto oggetto dell’accordo sia legittimo o illegittimo, il legislatore ha configurato due diverse tipologie di corruzione: a) la corruzione cd. impropria, prevista all’art. 318 c.p., avente ad oggetto il compimento di un atto conforme ai poteri d’ufficio, distinta a sua volta in corruzione antecedente o susseguente – punita con la reclusione da sei mesi a tre anni quando susseguente o fino a un anno nell’ipotesi di corruzione antecedente; b) corruzione cd. propria, punita con la reclusione da due a cinque anni, regolamentata all’art. 319 c.p. in cui l’accordo ha ad oggetto l’omissione o il ritardo nel compimento di un atto di ufficio o il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Dall’inchiesta Mani Pulite è emerso come l’agente pubblico, spesso, non adottasse materialmente alcun atto d’ufficio ma fosse pagato per mettersi a disposizione, “a libro paga”: una nota sentenza definisce l’oggetto del patto corruttivo “muto”, nel senso che al momento in cui l’accordo illecito veniva concluso il pubblico ufficiale non “vendeva” atti, ma se stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico (Cass. pen. sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125). Il P.M. (su cui incombe l’onere della prova degli elementi costitutivi della fattispecie di reato) in molti casi non ha riscontrato alcun atto d’ufficio compiuto dal pubblico ufficiale, legittimo o illegittimo che fosse. L’autorità giudiziaria, dunque, si è trovata dinanzi a situazioni in concreto non più riconducibili al dettato legislativo, nella incapacità di fornire una adeguata risposta repressiva. Il tentativo dei giudici, dunque, è stato quello di qualificare comunque la fattispecie concreta come corruzione, nonostante materialmente non vi fosse il compimento di alcun atto d’ufficio.

Nonostante quanto espressamente previsto dal codice Rocco, la giurisprudenza ha ritenuto che la mera accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità promessa dal privato fosse di per sé fatto lesivo dell’imparzialità e del decoro della P.A. (si veda, ex multis, Cass. pen. sez. 1, sent. n. 4177 del 27/10/2003, secondo cui «ai fini della configurabilità tanto della corruzione impropria, prevista dall’art. 318, comma primo, cod. pen., quanto di quella propria, prevista dall’art. 319, comma primo, stesso codice, è sufficiente che vi sia stata ricezione della indebita retribuzione o accettazione della relativa promessa, restando quindi indifferente che ad essa abbia fatto poi seguito o meno l’effettivo compimento dell’atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio, in vista del quale la retribuzione è stata elargita o la promessa formulata.»).

Sollecitato a modificare un impianto normativo che non rispondeva più alla fenomenologia e agli interessi in concreto da tutelare, il legislatore – nell’ambito di una riforma sistematica della disciplina dei reati contro la P.A., la legge n. 190 del 2012 – in primis, ha introdotto (non senza ambiguità) il reato di traffico di influenze illecite (al di fuori dei casi di concorso nel reato di corruzione), allargando così il campo alla punibilità a quei fenomeni che, sviluppandosi nel sottobosco politico, innestano il sistema corruttivo.

Il legislatore ha, poi, tentato di smorzare la rigida distinzione tra concussione e corruzione. Il reato di concussione, prima unitariamente previsto nelle due ipotesi di costrizione o induzione del soggetto privato da parte del pubblico ufficiale a dare o promettere una utilità, è stato “spacchettato” con l’introduzione, all’art. 319 quater, del reato di induzione indebita: una nuova figura di reato “intermedia”, la quale incrimina anche il privato che dà ciò che l’agente pubblico induce a dare. Le difficoltà che inevitabilmente sono sorte nel tentativo di distinguere la corruzione dall’induzione indebita, sono state risolte dalla nota sentenza Maldera (Cass. pen., S.U., 24.10.2013 n. 12228), con la quale giurisprudenza di legittimità ha inoltre risposto alla necessità di offrire dei parametri oggettivi per determinare cos’è costrizione e cos’è induzione: parla, con riferimento al novellato art. 317 cod. pen. di «un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita» distinto dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater cod. pen., la cui condotta si configura come «persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico.»

Il legislatore del 2012 ha affrontato, dunque, la cd. smaterializzazione dell’atto d’ufficio, andando a modificare l’art. 318 c.p. in tema di corruzione impropria e lasciando invariata l’ipotesi più grave di corruzione propria, sancita all’art. 319 c.p. La rubrica dell’articolo 318, che ante riforma recitava “corruzione per un atto d’ufficio”, è stata sostituita con “corruzione per l’esercizio della funzione”: a tale modifica terminologica consegue che la fattispecie corruttiva, prescindendo completamente dal mercinomio di atti inerenti all’ufficio, si configuri ogni qualvolta è la stessa funzione pubblica ad essere asservita a interessi privati (si parla della cd. corruzione funzionale). Ai sensi del nuovo art. 318, dunque, il pubblico ufficiale riceve delle utilità per il fatto stesso di essere titolare di poteri pubblici, ma l’accordo non ha conseguenze dal punto di vista pratico. Invece, affinché trovi applicazione l’art. 319 c.p. (che non ha subito modifiche), il pagamento del privato deve essere finalizzato, in concreto, all’omissione, al ritardo o al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Nell’ottica del legislatore del 2012, in entrambe le ipotesi di reato il bene giuridico tutelato è la imparzialità nonché il buon andamento della P.A., ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Mentre, però, nell’ipotesi sancita dal novellato 318 c.p., il bene giuridico tutelato non è leso ma è solo messo in pericolo, in quanto vi è un accordo corruttivo ma il pubblico ufficiale non commette alcun atto, diversamente, nel momento in cui il pubblico ufficiale compie l’atto, il bene giuridico è leso, poiché l’attività della P.A. non è più conforme a quella che doveva essere se non fosse stato turbato il suo andamento corretto e imparziale.

Le maggiori difficoltà interpretative sono sorte sul portato della giurisprudenza antecedente la riforma. In continuità con quell’orientamento, infatti, si è sostenuto che il pubblico ufficiale, nel caso di una sistematica e continuativa messa a disposizione della funzione pubblica, stia commettendo un atto di per sé contrario ai doveri d’ufficio, ancor più grave della compravendita di atti d’ufficio, il che rende applicabile l’ipotesi ex art. 319 c.p. A titolo d’esempio, si ritiene maggiormente offensivo per l’imparzialità e il buon andamento della P.A. la messa a disposizione, continuativa e sistematica, dei poteri d’ufficio di un Presidente di Regione piuttosto che la dazione in concreto eseguita in favore del responsabile dell’ufficio comunale per ottenere il rilascio di un permesso a costruire.

Da qui la diversità di vedute: secondo l’interpretazione letterale della norma, ogni caso di messa a disposizione di un pubblico ufficiale in assenza del concreto compimento di un atto pubblico oggetto del pactum con il privato deve confluire nell’ipotesi di reato più lieve prevista dall’art. 318 c.p.; diversamente, secondo una interpretazione sistematica della norma, una stabile e duratura messa a libro paga (pur in assenza del compimento materiale di atti d’ufficio) deve esser ricondotta all’interno della più grave ipotesi di reato, prevista dall’art. 319 c.p. Gli argomenti a sostegno di quest’ultima interpretazione sono, innanzitutto, il principio di proporzionalità tra il fatto commesso e la sanzione, sancito dall’art. 49 Carta dei diritti UE, per cui debbono essere puniti con una sanzione più blanda fatti di minor disvalore; il principio di colpevolezza e il principio di offensività, vulnerato in quanto si ritiene più offensivo un fatto che, in realtà, è meno offensivo.

In linea con quest’ultimo orientamento, tra le pronunce più recenti, troviamo Cass. pen. sez. 5 sent. n. 34979 del 10/09/2020, secondo cui «lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, ma che si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali» configura il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve delitto di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 cod. pen.

In senso contrario, invece, Cass. pen. sez. 6, sent. n. 18125 del 22/10/2019, si esprime affermando che «ai fini della configurabilità del delitto di corruzione propria, di cui all’art. 319 cod. pen., è necessario che l’illecito accordo tra pubblico funzionario e privato corruttore preveda il compimento, da parte del primo, di un atto specificamente individuato od individuabile come contrario ai doveri d’ufficio, sicché, sul piano probatorio, occorre procedere alla rigorosa determinazione del contenuto delle obbligazioni assunte dal pubblico funzionario alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, avuto riguardo in particolare al movente ed alle specifiche aspettative del privato, alla condotta serbata dall’agente pubblico ed alle modalità di corresponsione a questi del prezzo della corruttela. (In motivazione, la Corte ha precisato che, ove non sia accertato il contenuto del patto corruttivo, e pur in presenza di sistematiche dazioni da parte del privato in favore del pubblico agente, la condotta deve essere ricondotta nell’ambito della corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 cod. pen.) »

Complica ulteriormente il quadro interpretativo la tipologia di attività che il pubblico agente, nell’esercizio della funzione, pone in essere: in caso di attività discrezionale, come può valutarsi la contrarietà ai doveri d’ufficio e come può essere accertata in concreto?

Nulla quaestio nel caso in cui, nell’esercizio dell’attività discrezionale, il pubblico ufficiale violi in modo percepibile le norme che regolano le stesse modalità di esercizio dell’attività (ad esempio nel caso in cui di fronte al dovere di motivazione, il pubblico ufficiale non motivi la scelta). Ma nell’ipotesi in cui l’attività posta in essere sia formalmente regolare (espressione usata dalla già citata Cass. pen. sez. 5 sent. n. 34979 del 10/09/2020) benché conforme ad un interesse del privato piuttosto che a quello della P.A., la valutazione dell’atto al fine di decidere se questo sia o meno contrario ai doveri d’ufficio, è rimessa al giudicante. Il Giudice, infatti, prende su di sé il potere di valutare se una determinata scelta sia stata operata nell’interesse di un privato o l’interesse della P.A. (ad esempio l’assegnazione dell’appalto ad un’impresa piuttosto che ad un’altra).

Uno degli approdi più interessanti della giurisprudenza, è la sentenza n. 18125 del 2020, nota per aver chiuso l’iter giudiziario Mafia Capitale, che ripercorre compiutamente anche il tema della corruzione, in questi termini: ribadisce che l’incriminazione di cui all’art. 318 c.p. risponde ad una logica di «anticipazione del bene protetto dalla norma – e in particolare, dell’imparzialità dell’agire amministrativo – secondo lo schema del reato di pericolo» mentre l’art. 319 punisce la lesione in concreto del bene giuridico e consiste in «una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato, con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio.».

Fermo presupposto, dunque, affinché sia applicabile il 319 c.p. piuttosto che il 318 c.p. è che sia compiuto, in concreto, un atto contrario all’ufficio il quale manifesti l’atteggiamento di favore nei confronti del privato da parte del pubblico agente; che emerga, quindi, una disfunzione (anche minimale) nell’esercizio dell’attività: un sintomo, un elemento che induca a ritenere che l’attività dell’amministrazione non ha seguito quello che avrebbe dovuto essere il suo percorso legittimo. Anche in ragione del fatto che, superata la rigida concezione autoritaria della pubblica amministrazione, non può restare sullo sfondo la tutela di interessi quali la distribuzione delle risorse e delle opportunità a tutti i livelli della vita pubblica, non già e non più esclusivamente il decoro della P.A. e l’opinione pubblica.

Dalla modifica apportata alla norma del 2012, sino al 2020, la Cassazione si è espressa con pronunce divergenti. A seguito della legge n. 3 del 2019, che ha apportato delle modifiche sul piano sanzionatorio, il mutamento della cornice edittale ha operato, per certi versi, un ravvicinamento delle due ipotesi di reato previste dagli artt. 318 e 319 c.p.. Resta il fatto che la novellata disciplina dei reati contro la P.A., nonostante il tentativo di razionalizzazione, ha reso più complessa (e in certi momenti creativa) l’opera dell’interprete, in tal guisa non agevolando l’armonizzazione e la perseguibilità di fenomeni sempre più diffusi e in evoluzione col nostro tempo.


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