Il caso Vannini: l’unicum giurisprudenziale costituito dalla sentenza di appello bis

Il caso Vannini: l’unicum giurisprudenziale costituito dalla sentenza di appello bis

Sommario: 1. Il contributo concorsuale fornito dagli imputati – 2. La causalità omissiva. L’accertamento del nesso di causalità ipotetica tra l’omissione e l’evento lesivo e la sussistenza di una posizione di garanzia – 2.1 Il rapporto di causalità omissiva tra le condotte degli imputati e l’evento morte di Marco Vannini – 3. La disciplina del concorso anomalo – 3.1 L’apprezzamento di diversificazioni dell’elemento soggettivo tra Antonio Ciontoli e i familiari nell’ottica applicativa dell’art. 116 c.p. – 3.2 Il nesso psicologico in termini di prevedibilità col reato diverso – 4. L’unicum giurisprudenziale costituito dalla sentenza di appello bis

 

1. Il contributo concorsuale fornito dagli imputati

La tragica vicenda che ci occupa si è sviluppata nell’arco di circa quattro ore, a partire dalle 23:15 del 17 maggio 2015, orario del ferimento di Marco Vannini da un colpo di arma da fuoco esploso accidentalmente da Antonio Ciontoli mentre il ragazzo si trovava nella vasca da bagno, passando per i 110 minuti intercorsi tra l’esplosione e la confessione da parte del Ciontoli circa le reali dinamiche del ferimento, celate fino a quel momento dietro una fitta rete di menzogne e reticenze architettata da tutti i familiari, e culminando con la morte del giovane Marco accertata alle ore 03:10 del 18 maggio.

Al fine di meglio introdurre il lettore a quanto sarà oggetto della presente trattazione, si tenga presente che gli accadimenti di quella notte compresa tra il 17 e il 18 maggio 2015 vanno distinti in due blocchi di condotte da non confondere assolutamente: un primo blocco, riferibile esclusivamente ad Antonio Ciontoli, che riguarda la condotta colposa consistita nel maneggiare con imperizia e negligenza l’arma da fuoco dalla quale è partito il colpo; un secondo blocco, riferibile invece congiuntamente a tutti i familiari, riguardante l’insieme di condotte omissive (menzogne e reticenze) che ha costituito l’effettiva causa del decesso del Vannini e che, come si vedrà più avanti, è stato ricondotto agli imputati sotto il profilo soggettivo del dolo.

Sulla scorta delle trancianti indicazioni fornite dalla Suprema Corte con la sentenza di annullamento con rinvio n. 09049 del 7 febbraio 2020 (‹‹tutti presero parte alla gestione delle conseguenze dell’incidente››), la pronuncia del 30 settembre 2020 all’esito del giudizio di appello bis ha offerto un’ampia disamina di tutte le condotte attive e omissive poste in essere da Antonio Ciontoli, dai figli Federico e Martina e dalla moglie Maria Pezzillo, con specifico riguardo al lasso di tempo (i fatidici 110 minuti, poi rivelatisi decisivi nel pregiudicare le possibilità di salvezza di Marco) intercorso tra l’esplosione del colpo di pistola e la confessione ai sanitari del P.I.T. di Ladispoli circa le effettive cause del ferimento del Vannini.

Passando rapidamente in rassegna le condotte dei singoli imputati, si riporta quanto segue.

– Antonio Ciontoli, il primo ad essere consapevole dell’esplosione del colpo di pistola, pur conoscendo la potenza micidiale dell’arma (una pistola calibro nove) e la distanza molto ravvicinata dalla quale il colpo era stato esploso, fin da subito mentì ai familiari dicendo che si era trattato di un semplice “colpo d’aria” – circostanza questa ribadita, da ultimo, il 9 settembre 2020 nel corso della deposizione in veste di testimone assistito di Viola Giorgini, fidanzata di Federico Ciontoli e assolta in primo grado dall’accusa di omissione di soccorso –  e che non c’era da allarmarsi; lasciò Marco Vannini nella vasca e lo lavò per far sparire le tracce di sangue; lo trasportò in camera da letto e lo vestì con gli indumenti della figlia Martina, procurati però da Federico; in collaborazione con tutti gli altri imputati, provvide a ripulire le tracce ematiche che si erano formate in giro per casa servendosi di asciugamani e strofinacci, a riprova del fatto che tutti i presenti erano al corrente che il Vannini aveva una ferita sanguinante; intervenne nel corso della prima telefonata effettuata da Federico al 118 alle 23:41 del 17/05/2015 (a distanza di circa 25 minuti dal ferimento), affermando, rivolgendosi alla moglie Maria Pezzillo, “non serve niente”; effettuò una seconda chiamata al 118 alle ore 00:06, ma si limitò a fornire false informazioni parlando di un “buchino” causato dalla caduta su un “pettine a punta”, ritardando chiaramente l’intervento dei sanitari, per nulla allarmati dalla versione fornita; interrogato sull’accaduto dagli operatori accorsi presso l’abitazione, insistette con l’inverosimile versione fornita telefonicamente, il tutto alla presenza dei propri familiari; giunto presso il P.I.T., confessò al dott. Matera le reali dinamiche dell’accaduto soltanto alle ore 00:54, preoccupandosi esclusivamente di chiedere al sanitario se si potesse far “passare la cosa sotto silenzio” falsificando il referto; concordò col figlio Federico la versione dei fatti da fornire al P.M. in merito alle armi e al bossolo rinvenuto e poi fornì ben tre versioni diverse sull’esplosione del colpo di pistola.

– Federico Ciontoli, accorso subito in bagno dopo lo sparo, raccolse da terra la pistola e procedette alla messa in sicurezza, per poi nasconderla sotto il suo letto, unitamente ad altra pistola e al bossolo che aveva rinvenuto immediatamente dopo; individuò il foro di entrata del proiettile e cercò insieme al padre, invano, quello di uscita; ormai consapevole dell’esplosione del colpo di pistola, chiamò il 118 alle 23:41 fornendo un’inverosimile versione dell’accaduto – a suo dire, Marco Vannini, a seguito di uno scherzo, era diventato “troppo bianco” per lo spavento e non respirava più -, tant’è che l’operatrice chiese di parlare con qualcun altro; come tutti gli altri imputati, udì certamente le strazianti urla di dolore lanciate da Marco nel lasso temporale successivo al ferimento, avvertite, al contrario, in maniera nitida, sia dai vicini che dagli operatori sanitari nel corso della seconda telefonata fatta da casa Ciontoli al 118; insieme alla sorella e alla madre, presenziò per tutta la durata della conversazione intercorsa tra Antonio Ciontoli e l’infermiera Sig.ra Bianchi accorsa presso l’abitazione, condividendo tacitamente il mendacio del padre circa le dinamiche del ferimento; cercò di influenzare il padre in vista del suo imminente interrogatorio, al fine di conferire verosimiglianza alla versione dei fatti secondo cui i familiari ignoravano che il proiettile avesse attinto il Vannini fino all’arrivo al P.I.T. (“glielo devi dire il fatto che l’ogiva sembrava una ciste…”).

– Martina Ciontoli, fidanzata di Marco Vannini da circa tre anni all’epoca dei fatti, si trovava nel bagno al momento dell’esplosione del colpo di pistola e potette immediatamente acquisire piena contezza delle gravi condizioni del Vannini, come si desume dalle intercettazioni ambientali del 18 maggio 2015, in cui si lasciò andare a una descrizione molto dettagliata dell’accaduto: “Marco è morto perché è papà che ha sparato… io ho visto lui quando papà gli ha puntato la pistola e gli ha detto ‘la vedi la… ti sparo’ […] e papà gli ha detto ‘è uno scherzo’… e lui ha detto ‘non si scherza così’. Ed è diventato pallido. Non ci posso pensa’. Poi qua sotto c’aveva il proiettile…”; anziché cercare di aiutare il fidanzato ferito, coadiuvò il padre nel vestirlo e tacque più volte Marco per evitare che urlasse, in modo da non attirare l’attenzione dei vicini o degli operatori nel corso delle due chiamate al 118; rispose volutamente in maniera molto evasiva all’infermiera Bianchi accorsa presso l’abitazione circa quello che era accaduto, eludendo qualsiasi tipo di domanda con un “io non c’ero, non so nulla”.

– Maria Pezzillo, pur consapevole della grave ferita subita da Marco, non fece alcunché per aiutarlo, preoccupandosi esclusivamente di tenergli le gambe alzate e di farlo tacere per non destare allarme; intervenuta nel corso della prima telefonata effettuata da Federico, annullò la richiesta di soccorsi dopo essersi consultata col marito, riferendo che il ragazzo si era ripreso; mentì per ben due volte ai coniugi Vannini nel corso delle due telefonate effettuate alle 00:40 e poco dopo, affermando che Marco era caduto dalle scale e si trovava al P.I.T. di Ladispoli.

Come opportunamente osservato dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma nel corso della requisitoria del 16 settembre 2020, la “mole torrenziale di menzogne e reticenze attentamente architettate” cui ricorsero i familiari di Antonio Ciontoli era volta a pregiudicare la corretta ricostruzione dei fatti da parte degli operatori sanitari, sia quelli contattati telefonicamente che quelli accorsi presso l’abitazione; la medesima condotta reticente, peraltro, si protrasse, successivamente, anche davanti agli inquirenti, il tutto nell’ottica della salvaguardia, ostinata, del posto di lavoro del Ciontoli. Invero, stando a quanto riportato nella già citata sentenza di annullamento con rinvio del 7 febbraio 2020, ‹‹le false informazioni furono un modo per restare inerti e per non dare corso ad una tempestiva richiesta dei soccorsi che, invece, avrebbero potuto efficacemente intervenire a tutela e protezione del bene vita di Marco Vannini››.

2. La causalità omissiva. L’accertamento del nesso di causalità ipotetica tra l’omissione e l’evento lesivo e la sussistenza di una posizione di garanzia

Propedeutica a qualsiasi discorso in tema di causalità omissiva è la distinzione tra i reati omissivi propri e quelli commissivi mediante omissione (comunemente detti “impropri”): i primi consistono nel semplice mancato compimento di un’azione imposta da una norma penale di comando, a prescindere dalla verificazione di un evento quale conseguenza della condotta omissiva (ad esempio, l’omissione di soccorso di cui all’art. 593 c.p.); i secondi, al contrario, si realizzano quando l’evento lesivo dipende dalla mancata realizzazione di un’azione doverosa (si pensi, a titolo esemplificativo, a un omicidio colposo dovuto alla mancata sorveglianza di un bambino da parte della baby sitter affidataria).

Ai sensi dell’art. 40 cpv c.p., “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”; in altre parole, la legge pone una sorta di finzione, o, meglio, un’equiparazione tra il cagionare un evento e il non impedirlo, qualora il soggetto abbia un obbligo in tal senso, estendendo così la punibilità a condotte altrimenti prive di rilevanza penale. Di qui il nomen di “reato commissivo mediante omissione”, in quanto si ammette che l’omissione, a determinate condizioni, costituisca uno dei tanti modi mediante i quali si può commettere un reato che di per sé presupporrebbe un facere (ad esempio, l’omicidio).

Affinché possa attribuirsi all’omittente la responsabilità per l’evento dannoso, occorre, anzitutto, dimostrare che esiste un’effettiva connessione tra l’evento stesso e la condotta omissiva; tornando al citato esempio della baby sitter, occorre dunque accertare che la caduta mortale del bambino sia conseguenza dell’inerzia dell’affidataria. In altre parole, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità omissiva, occorre dare una risposta al seguente quesito: se il soggetto titolare della posizione di garanzia avesse agito diversamente avrebbe evitato l’evento lesivo?

Con la sentenza Franzese del 2002, che costituisce una pietra miliare in tema di accertamento del nesso di causalità omissiva, le Sezioni Unite hanno provveduto a dirimere l’annosa questione che riguardava l’impiego giudiziale delle leggi (scientifiche ovvero statistiche) di copertura, stabilendo che il giudice del merito, per la ricostruzione del fatto, non può attingere a criteri di mera probabilità statistica, ma che, di converso, deve ricorrere alla probabilità logica, la quale consente ‹‹la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale›› (Cass. pen., SS.UU., n. 30328/2002).

In linea con quanto puntualizzato dalla citata sentenza Franzese, una successiva pronuncia della Cassazione a Sezioni “semplici” (Cass. pen., Sez. IV, n. 31462/2006) ha stabilito che, nella ricostruzione del nesso eziologico tra l’omissione e l’evento lesivo, non si può prescindere da due elementi: la conoscenza piena di tutti gli aspetti fattuali della vicenda, perché solo in tal modo è possibile operare compiutamente il c.d. “giudizio controfattuale”, che si sostanzia nel verificare se, avvalendosi delle leggi scientifiche o statistiche o delle massime di esperienza e ipotizzandosi, altresì, come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ovvero si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; l’accertamento della mancata interferenza di fattori alternativi a quella causa dell’evento ipotizzata come riconducibile alla condotta omissiva colposa addebitata all’agente.

Perché la causazione e il mancato impedimento di un evento risultino penalmente equivalenti ai sensi dell’art. 40 cpv c.p., non è sufficiente accertare il nesso di causalità ipotetica tra l’evento medesimo e la condotta omissiva; ciò in ragione del minus che la causalità ipotetica possiede rispetto alla causalità reale e che deve essere compensato da un elemento ulteriore consistente nella violazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento. Nessun cittadino può essere chiamato a rispondere per il semplice fatto che un suo possibile intervento soccorritore avrebbe scongiurato la lesione di beni giuridici altrui, pertanto il dovere di impedire eventi lesivi di beni altrui non può che rappresentare un’eccezione ammissibile solo in presenza, appunto, di un obbligo giuridico in tal senso.

Il concetto di “obbligo giuridico” evocato dal legislatore consiste in uno speciale vincolo di tutela tra un soggetto garante e un bene giuridico altrui, determinato dall’incapacità (totale o parziale) del titolare a proteggerlo autonomamente. In altre parole, la funzione peculiare della posizione di garanzia è quella di riequilibrare la situazione di presunta inferiorità di determinati soggetti, attraverso l’instaurazione di un “rapporto di dipendenza” a scopo protettivo.

A metà strada tra la teoria c.d. formale e quella, opposta, c.d. contenutistico-funzionale, si colloca la teoria “mista”, oggi maggiormente diffusa, secondo cui, per un verso, la fonte dell’obbligo giuridico di attivarsi per impedire l’evento può rinvenirsi solo nella legge (anche extrapenale, come l’art. 2087 c.c., che costituisce fonte della posizione di garanzia in capo al datore di lavoro nei confronti dei dipendenti) o in un contratto, per altro verso, occorre altresì verificare se in concreto il titolare della posizione di garanzia abbia avuto l’effettivo dominio sui fattori che hanno cagionato l’evento lesivo (ad impossibilia nemo tenetur).

Stando a un importante arresto giurisprudenziale sul punto, ‹‹si delinea una posizione di garanzia a condizione che: (a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; (b) una fonte giuridica – anche negoziale – abbia la finalità di tutelarlo; (c) tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; (d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato›› (Cass. pen., Sez. IV, n. 38991/2010, Quaglierini e altri).

2.1 Il rapporto di causalità omissiva tra le condotte degli imputati e l’evento morte di Marco Vannini

Quanto all’accertamento circa l’effettiva incidenza sull’evento morte delle condotte dilatorie e mendaci tenute dai Ciontoli, risultano dirimenti le due perizie medico-legali effettuate nel corso del processo, secondo cui la ferita in sé non avrebbe potuto causare il decesso del Vannini, ove prontamente e correttamente soccorso, per cui, il tragico epilogo è da attribuire ai ritardi nella “corretta” segnalazione dell’accaduto ai soccorritori; infatti, è stato appurato che il tramite intracardiaco del proiettile non aveva danneggiato né le valvole atrioventricolari né il sistema di trasmissione elettrica degli impulsi cardiaci, per cui il cuore aveva continuato a lungo a battere. In altre parole, il C.T.U., alla cui relazione neppure i consulenti medici della difesa si sono opposti, ha risolto positivamente il giudizio controfattuale di accertamento della causalità omissiva, riferendo che “un soccorso attuato secondo modalità e tempi privi di ostacoli e ritardi… avrebbe potuto evitare il decesso del giovane… con elevata, alta probabilità logica”.

Appurato che la condotta (ahinoi, omessa) di pronta attivazione dei soccorsi da parte dei Ciontoli avrebbe, con elevata probabilità logica, evitato il tragico evento, resta da stabilire se in capo agli imputati sussistesse una posizione di garanzia nei riguardi di Marco Vannini, che era ospite in casa Ciontoli quale fidanzato di Martina, tale da giustificare la contestazione a titolo di concorrenti ex art. 40 cpv c.p. nel delitto di omicidio e non la meno grave contestazione a titolo di omissione di soccorso.

La sentenza pronunciata dalla Suprema Corte il 7 febbraio 2020 ha sposato la soluzione della sentenza di appello, poi annullata, circa la correttezza dell’imputazione a titolo di concorso omissivo in omicidio da parte dei Ciontoli, pur ritenendone illogico l’iter argomentativo: gli imputati, questa la tesi sinteticamente esposta dal giudice a quo, non potrebbero rispondere del delitto di cui all’art. 593 c.p. perché non si sono imbattuti, non hanno trovato un ferito, secondo la lettura della norma incriminatrice che punisce ‹‹chiunque, trovando […] una persona ferita […] omette di prestare soccorso…››, ma sono stati essi stessi responsabili dell’aggravamento delle condizioni del ferito.

A tal proposito, la Cassazione ha stabilito che le due disposizioni in parola fondano su obblighi qualitativamente diversi: l’art. 40 cpv c.p. prevede un obbligo specifico di tutela dei beni giuridici altrui in ragione di una posizione di garanzia puntualmente individuata; l’omissione di soccorso, al contrario, prevede un generale obbligo di attivarsi a tutela di certi beni che sorge in capo a soggetti privi di poteri giuridici impeditivi dell’evento al verificarsi di un determinato presupposto di fatto individuato dalla stessa norma incriminatrice. In sintesi, l’elemento differenziale capace di spiegare la diversità di trattamento risiede, appunto, nella presenza, nell’un caso e non nell’altro, di una posizione di garanzia; da ciò discende la correttezza della diversa contestazione mossa a Viola Giorgini, ospite dei Ciontoli quale fidanzata di Federico e anch’ella presente in casa per tutta la durata della vicenda, che è stata chiamata a rispondere del meno grave delitto di omissione di soccorso in ragione dell’assenza di una posizione di garanzia nei confronti del Vannini.

Orbene, nella vicenda che portò al tragico epilogo della morte di Marco Vannini, la posizione degli imputati non può essere qualificata quale generale dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica, in quanto il ragazzo, ospite in casa Ciontoli, rimasto ferito in conseguenza dell’esplosione del colpo d’arma da fuoco, restò affidato alle cure di Antonio Ciontoli e dei di lui familiari per un lungo lasso temporale. Il dovere di neminem ledere si concretizzò in tal modo, in ragione della peculiarità del caso, ossia di un ferimento verificatosi quando la vittima era ospite della famiglia della giovane fidanzata, in un preciso obbligo di protezione del quale gli imputati si fecero carico, assumendo interamente, in luogo del titolare del bene vita e in luogo, altresì, dei sanitari, la gestione del pericolo che si prospettava.

3. La disciplina del concorso anomalo

L’art. 116 c.p., nel disciplinare l’istituto del concorso anomalo, recita: “I. Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. II. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”.

Come si evince dal dettato normativo, l’istituto in parola costituisce una particolare ipotesi di aberratio delicti, nel senso che il correo nolente viene chiamato a rispondere, a titolo di dolo, di un reato diverso rispetto a quello voluto; mentre, però, con riferimento all’aberratio delicti di cui all’art. 83 c.p., l’evento diverso che si realizza deve essere il risultato di un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o l’effetto di altra causa, nell’ipotesi di concorso anomalo l’evento diverso deve essere “voluto da taluno dei concorrenti”. A tal proposito, la differenza tra la responsabilità del correo nolente a titolo di dolo ai sensi dell’art. 116 c.p. e quella colposa prevista dall’art. 83 c.p. si giustifica proprio in ragione della maggiore pericolosità che presenta la forma di commissione plurisoggettiva del reato.

Quanto ai più recenti arresti giurisprudenziali in materia, la Cassazione ha puntualizzato che ‹‹la norma dell’art. 116 c.p. si applica quando l’imputato, pur non avendo previsto la commissione del diverso illecito da parte dei concorrenti, avrebbe potuto rappresentarsene l’eventualità se, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, avesse fatto uso della dovuta diligenza›› (Cass. pen., Sez. VI, n. 7388/2005; cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 44266/2013). Ancora, la configurabilità del concorso anomalo è soggetta a due limiti negativi: che l’evento diverso e più grave non sia voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale; che detto evento non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base (in tal senso, si veda Cass. pen., Sez. I, n. 44579/2018).

Alla luce delle indicazioni fornite negli anni dalla Suprema Corte, l’istituto del concorso anomalo postula la presenza congiunta dei seguenti elementi: a) la condotta di concorso del compartecipe nel reato “da lui voluto”; b) il dolo del concorrente anomalo rispetto a tale reato “da lui voluto”; c) la concreta realizzazione, da parte di altro concorrente, di un “reato diverso” rispetto a quello voluto dal concorrente anomalo; d) l’assenza di dolo, anche alternativo o eventuale, da parte del concorrente anomalo rispetto a tale “reato diverso”; e) la necessità che tale “reato diverso” sia coperto dal dolo di almeno uno degli altri concorrenti; f) il nesso causale tra la condotta del concorrente anomalo e il “reato diverso” effettivamente realizzato; g) la prevedibilità del “reato diverso” realizzato in concreto.

Nell’ottica di una rilettura in chiave costituzionalmente orientata secondo cui si richiede ‹‹l’esistenza di un nesso causale, anche psicologico, fra l’azione del compartecipe al reato inizialmente voluto e il diverso o più grave reato poi commesso da altro concorrente, che deve essere prevedibile, in quanto logico sviluppo di quello concordato, senza, peraltro, che l’agente abbia effettivamente previsto o ne abbia accettato il rischio, nel qual caso vi sarebbe ordinario concorso ex art. 110 c.p.›› (Corte Costituzionale, sent. n. 42/1965), la disciplina del concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p. si risolve sostanzialmente in una responsabilità del compartecipe a titolo di dolo per un fatto al medesimo imputabile a titolo di colpa.

3.1 L’apprezzamento di diversificazioni dell’elemento soggettivo tra Antonio Ciontoli e i familiari nell’ottica applicativa dell’art. 116 c.p.

Doveroso premettere che la sentenza di annullamento con rinvio del 7 febbraio 2020 ha fornito un “assist” decisivo (e puntualmente colto dal Procuratore Generale) alla prospettazione di una soluzione normativa inedita e mai percorsa nei gradi di giudizio precedenti, ossia quella della differenziazione dell’elemento psicologico tra i compartecipi, ricorrendo alla disciplina del concorso anomalo. In quell’occasione, infatti, i giudici di legittimità hanno affermato che, in caso di partecipazione concorsuale nel fatto doloso di uno o più compartecipi, nell’ambito del generale paradigma normativo di riferimento dell’art. 110 c.p., ‹‹l’apprezzamento di diversificazioni dell’elemento soggettivo di taluno dei concorrenti può essere valutato nei limiti posti dall’art. 116 stesso codice››.

Tale apertura, valorizzata dalla pubblica accusa e, come si vedrà bene più avanti, accolta positivamente dalla stessa Corte di Assise di Appello di Roma all’esito del giudizio di appello bis, ha permesso di scavalcare la problematica questione del concorso colposo nel reato doloso che aveva animato l’intero iter processuale sino a quel momento e che aveva portato alla controversa sentenza di appello, poi cassata, con cui l’intera vicenda era stata derubricata a omicidio colposo.

Invero, grazie alla “trovata processuale” dell’art. 116 c.p., è stato possibile contemperare le esigenze di diritto con quelle prettamente punitive che il caso concreto poneva: si è ottenuto, così, il duplice risultato della conferma della sentenza di primo grado quanto alla condanna di Antonio Ciontoli per omicidio volontario ai sensi dell’art. 575 c.p. e della condanna dei familiari per concorso (anomalo), operando un distinguo di pena quanto mai opportuno in ragione del differente grado di consapevolezza e partecipazione degli imputati.

Quanto all’elemento soggettivo che ha sorretto la condotta di Antonio Ciontoli, la sentenza di appello bis del 30 settembre 2020 ha riconosciuto la sussistenza del dolo eventuale in capo al predetto, il quale, in conferma della sentenza di primo grado, è stato condannato ad anni 14 di reclusione per omicidio volontario, nella connotazione omissiva impropria di cui all’art. 40 cpv del codice penale. L’imputato, a parere della Corte, ha avuto contezza dell’entità del danno e del pericolo sin dal primo istante e, ciononostante, ha deciso di accettare le conseguenze collaterali (l’evento morte) del proprio agire (in ciò, la c.d. “adesione psichica” all’evento), ciò a seguito del bilanciamento operato tra due interessi contrapposti e risolto a favore del secondo: quello alla vita di Marco Vannini e quello alla salvaguardia, ostinata e abominevole, del proprio posto di lavoro nell’arma.

Discorso diverso è stato fatto relativamente ai familiari di Antonio Ciontoli, i quali sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio volontario, ma nella forma concorsuale “anomala” di cui all’art. 116 c.p., con condanna alla pena di anni 9 e mesi 4 di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche e riduzione di un terzo. Federico Ciontoli, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo, ritenuto che non abbiano previsto né accettato l’evento morte quale conseguenza del proprio agire, sono stati chiamati a rispondere a titolo di dolo (generico) per il delitto di lesione personale di cui all’art. 582 c.p. – questo, sì, certamente rappresentatosi nei suoi elementi in capo ai compartecipi, i quali, ben consapevoli della lesione subita dal Vannini, hanno contribuito mediante le loro condotte omissive e reticenti all’aggravarsi delle condizioni di salute del ragazzo, sanguinante e dolorante davanti ai loro occhi – e a titolo sostanzialmente colposo per il diverso (e più grave) delitto di omicidio; ciò in ragione della violazione della norma cautelare insita nell’affidarsi a una condotta, di per sé non controllabile, come quella degli altri correi.

Quanto al grado di consapevolezza dei familiari del Ciontoli, la sentenza pronunciata lo scorso 30 settembre all’esito del giudizio di appello bis ha concluso in tal senso: ‹‹sebbene tutti i familiari si siano potuti rendere conto della gravità della ferita inferta a Marco Vannini e delle sue sempre più gravi condizioni di salute, la figura autoritaria di Antonio Ciontoli, il suo carisma e le continue rassicurazioni rivolte ai propri familiari unitamente alla diversità di età ed esperienze della moglie e dei due figli rispetto a quelle del marito e padre, militare di carriera e addetto ai servizi di sicurezza del servizio segreto, il diverso ruolo svolto dai singoli familiari compartecipi non consentono di ravvisare senza dubbio alcuno l’elemento del dolo anche eventuale con riferimento all’evento morte del Vannini, che Ciontoli Antonio si è certamente rappresentato accettandolo, essendo, invece, assolutamente certa, alla luce di tutti gli elementi raffigurati a loro carico, una accettazione da parte di detti familiari di un evento meno grave e diverso da quello ravvisato ed accettato da Antonio Ciontoli, cioè quello delle lesioni anche gravi in danno del Vannini››.

3.2 Il nesso psicologico in termini di prevedibilità col reato diverso

Per quanto riguarda il requisito del nesso psicologico in termini di prevedibilità tra la condotta dei familiari compartecipi nel reato inizialmente voluto (le lesioni) e il diverso reato realizzato (l’omicidio), si rende necessario premettere che, negli anni, si sono sviluppate in dottrina due differenti orientamenti: una prima teoria, tendenzialmente maggioritaria, è quella della prevedibilità in astratto, secondo cui l’illecito non voluto deve appartenere al tipo astratto di quelli che, in linea puramente logica, si prospettano come sviluppo del reato originariamente voluto (si pensi al rapporto di sostanziale omogeneità che sussiste tra il furto e la rapina o a quello che sussiste tra le lesioni personali e l’omicidio); una seconda tesi, che sta guadagnando progressivamente consensi, è quella della prevedibilità in concreto, secondo cui, sulla base dell’effettivo piano d’azione dei concorrenti, bisogna verificare se le modalità concrete di svolgimento del fatto (le qualità personali degli agenti e della vittima, nonché le peculiari caratteristiche del luogo e del tempo in cui si è concretizzato il fatto) lasciassero prevedere un reato diverso rispetto a quello voluto.

Ciò premesso, le circostanze fattuali emerse all’esito dell’istruttoria dibattimentale hanno consentito di sciogliere positivamente la prognosi circa la prevedibilità, sia in astratto che in concreto, da parte dei familiari del Ciontoli dell’evento morte di Marco Vannini, superando così ogni possibile obiezione sollevabile dai fautori dell’una o dell’altra teoria. Invero, quanto alla prevedibilità in astratto del reato diverso, l’omicidio può senza dubbio alcuno considerarsi uno sviluppo non imprevedibile né illogico dell’azione criminosa inizialmente volta a realizzare quello di lesioni personali, perdipiù gravi; quanto alla prevedibilità in concreto, le gravi condizioni del Vannini – questi, come rammentato alla Corte dal Procuratore Generale nel corso della propria requisitoria, sanguinava, lamentava dolori atroci, era pallido, aveva le labbra violacee e presentava addirittura gravi difficoltà nella favella – nonché le peculiari condizioni temporali (i fatidici 110 minuti) in cui si è svolta la vicenda lasciavano prevedere un esito deviante del tipo di quello avveratosi.

A riprova della mancata previsione e, dunque, accettazione del reato diverso da parte degli imputati, la sentenza di appello bis si è focalizzata, innanzitutto, sulle intercettazioni della conversazione intercorsa tra Martina e Federico Ciontoli in data 18 maggio 2015, laddove i due hanno affermato che in nessun modo avrebbero potuto prevedere che Marco sarebbe morto, pur evidenziando la situazione di elevata gravità in cui versava il giovane a causa della ferita (“gli è successo qualcosa che ha preso qualcosa che è legato al cervello […] sembrava handicappato quando parlava”, aveva riferito Martina al fratello). Ancora, ulteriore dato a supporto della conclusione cui è giunta la Corte di Assise di Appello è che, come riportato nella sentenza di primo grado, nonostante il colpo d’arma da fuoco e la ferita sanguinante, c’è stata una ‹‹sopravvivenza non ordinaria da parte di Marco Vannini ]…] che pure non perse conoscenza››. Da ultimo, il carisma e l’autorevolezza di cui godeva Antonio Ciontoli hanno avuto sicuramente un certo peso sui familiari nel far sì che costoro prendessero per buone le sue rassicurazioni in merito al fatto che tutto fosse sotto controllo e che Marco Vannini effettivamente non rischiasse la vita.

Orbene, per quanto la morte del Vannini fosse uno sviluppo astrattamente prevedibile delle lesioni personali (esse, sì, raffiguratesi in capo ai presenti), la cui entità si aggravava col passare del tempo proprio a causa delle condotte menzognere e reticenti degli imputati, e per quanto, altresì, le circostanze del caso concreto lasciassero prospettare il tragico epilogo, i familiari di Antonio Ciontoli non hanno mai veramente accettato il diverso delitto di omicidio, rispetto al quale, dunque, non si è realizzata quell’adesione psichica piena che costituisce il presupposto della diversa ipotesi concorsuale di cui all’art. 110 del codice penale.

4. L’unicum giurisprudenziale costituito dalla sentenza di appello bis

Come già ampiamente illustrato, il concorso mediante omissione nel reato omissivo (proprio o improprio) richiede due elementi: l’obbligo giuridico di impedire la commissione del delitto da parte di altri (la posizione di garanzia) e il fatto che l’omissione costituisca condizione necessaria, insostituibile, per la consumazione di detto delitto (il nesso di causalità ipotetica).

Ciò che, invece, ancora non si è avuto modo di far presente al lettore è che, nella prassi giurisprudenziale, molto raramente si è venuta a configurare un’ipotesi di concorso mediante omissione in un reato omissivo, proprio o improprio che fosse. Per comprenderne le ragioni, basti pensare alla peculiarità dell’esempio, cui è ricorsa la dottrina, di concorso omissivo nel reato commissivo di disastro ferroviario doloso di cui all’art. 430 c.p. realizzato però mediante omissione ex art. 40 cpv c.p.: il caso è quello di chi, preposto a uno scambio di binario, abbia omesso deliberatamente, per fini di terrorismo, di azionare lo scambio al sopraggiungere di un treno (reato omissivo improprio); un disastro ferroviario che poteva essere impedito da un altro dipendente delle ferrovie che aveva compiti di sorveglianza e poteri di intervento nei confronti del primo ferroviere e che, invece, animato dalla stessa finalità di terrorismo, è rimasto intenzionalmente inerte (concorso mediante omissione). L’esempio in parola prende le mosse dalla posizione di garanzia rivestita congiuntamente da entrambi i dipendenti nei confronti dei passeggeri e dal necessario contributo causale da essi fornito: l’una condotta senza l’altra non sarebbe bastata a realizzare il deragliamento del treno.

Alla stregua di quanto appena osservato, nella vicenda Vannini tutti i familiari di Antonio Ciontoli erano gravati da un obbligo di protezione nei confronti della giovane vittima, ospite in casa loro, e tutti hanno contribuito in maniera decisiva e infungibile alla realizzazione del delitto di omicidio volontario, seppur con una differenziazione dell’elemento soggettivo. Sarebbe bastata una sola condotta fattiva da parte di uno qualsiasi degli imputati a spezzare la sequenza causale che ha portato al tragico epilogo: se qualcuno si fosse deciso a chiamare prontamente i soccorsi mettendoli al corrente delle effettive dinamiche del ferimento, ovvero se uno dei presenti avesse semplicemente allertato i vicini o i genitori di Marco Vannini, o, ancora, se i figli o la moglie di Antonio Ciontoli avessero smentito le mendaci informazioni fornite dal predetto agli operatori accorsi presso l’abitazione, accelerando in maniera determinante il trasporto del Vannini in ospedale, il proposito criminoso raffiguratosi nella mente del Ciontoli nella forma del dolo eventuale non si sarebbe mai realizzato.

Orbene, la sentenza di appello bis al centro della presente trattazione costituisce un unicum nel panorama giurisprudenziale: essa, da un lato, ha rispolverato la casistica, fin qui molto circoscritta, del concorso omissivo nel reato commissivo mediante omissione (in ciò la peculiarità); dall’altro, ha qualificato giuridicamente detto contributo concorsuale ai sensi dell’art. 116 c.p., cogliendo opportunamente il differente grado di partecipazione psicologica che ha riguardato i singoli imputati (in ciò l’unicità). Pertanto, nell’ottica di una sostanziale e altamente probabile conferma in Cassazione, la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Roma lo scorso 30 settembre si candida a pieno titolo tra le pronunce di merito di maggior rilievo degli ultimi anni; ciò in ragione della complessità del caso concreto, che ha sollevato molteplici quesiti in diritto, e della peculiarità della soluzione proposta.


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Jacopo Palermo

Laureatosi in giurisprudenza presso l'Università di Roma "Tor Vergata" con una tesi in diritto penale, attualmente collabora come praticante avvocato del Foro di Roma in uno Studio legale specializzato nella materia penalistica e svolge lo stage teorico-pratico ex art. 73 D.L. 69/2013 presso la Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma. Quale giovane redattore, collabora con alcune riviste scientifiche di informazione giuridica.

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