Il confine tra colpa cosciente e dolo eventuale alla luce del caso Vannini

Il confine tra colpa cosciente e dolo eventuale alla luce del caso Vannini

Un’annosa questione ampiamente discussa, e ripresa recentemente in merito al caso Vannini, è quella inerente alla quasi impercettibile linea di confine intercorrente tra la figura del dolo eventuale e quella della colpa cosciente.  La questione sottesa al caso di specie era stata già analizzata in precedenza dalle Sezioni Unite le quali, tramite una nota a sentenza alla luce della vicenda “Thyssenkrupp”, avevano tentato di dare una definizione univoca rispetto alla vexata quaestio suesposta.

Un argomento ampiamente affrontato sia in dottrina che in giurisprudenza è stato proprio quello attinente alla corretta categorizzazione degli istituti giuridici di colpa cosciente e dolo eventuale.

All’interno dell’ordinamento giuridico italiano troviamo una netta e puntuale differenziazione tra la figura del dolo, contraddistinta per la volontarietà dell’azione, e quella della colpa, che si caratterizza per l’imprudenza, negligenza od imperizia della condotta del soggetto agente.

Le figure suindicate si articolano ulteriormente in altre categorie, le quali si differenziano l’un l’altra in base alla rispettiva forma di gravità.

In base all’elaborazione dogmatica più recente, il dolo si distingue dalla figura della colpa per via dell’intenzionalità ed esso può essere classificato ulteriormente alla luce dei connotati dell’intenzione criminosa posta in essere dall’agente.

Si ha la figura del dolo intenzionale, anche conosciuto come dolo diretto di primo grado, quando il comportamento del soggetto agente mira esclusivamente ed intenzionalmente a realizzare la condotta criminosa. La finalità, intesa quale obiettivo del comportamento umano, è da individuare nella sola e unica realizzazione dell’illecito. Il dolo intenzionale, infatti, si differenzia dalle figure di quello diretto ed eventuale proprio perché in queste ultime il soggetto agente mira al perseguimento di un differente scopo primario. Tuttavia, la corretta perimetrazione delle figure di dolo è molto difficile.

Nel dolo diretto, invece, la componente volitiva risulta essere attenuata rispetto a quella che abbiamo analizzato precedentemente per il dolo intenzionale.

Orbene, “si ha dolo intenzionale quando l’evento o comunque il fatto sia perseguito come finalità dall’agente, anche se costituisca un risultato solo possibile, non probabile o certo, della sua condotta; si ha dolo diretto quando l’agente o comunque il fatto, pur non costituendo l’obiettivo intenzionale dell’agente, viene rappresentato come conseguenza certa o probabile della condotta”.[1]

Giungendo a concludere la differenziazione in tema di elemento soggettivo del reato, ed alla luce della sentenza Thyssenkrupp, il dolo eventuale ricorre quindi quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciononostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi (Cassazione Penale n. 38343 del 2014).

Prima facie, quindi, nel dolo intenzionale ci troviamo di fronte alla più intensa volontarietà dell’agente; in quello diretto, invece, si accettano meramente gli effetti certi o comunque altamente probabili che scaturiranno dall’azione posta in essere mentre nel dolo eventuale c’è una semplice probabilità che il proprio comportamento possa produrre effetti negativi.

L’articolo 61 n. 3 del codice penale, invece, mira ad analizzare la fattispecie della colpa cosciente (o con previsione). La figura in questione è stata oggetto di numerosi dibattiti poiché essa risulta estremamente simile a quella del dolo eventuale.

Alla luce della differenziazione tra i due istituti suindicati, risulta estremamente importante sottolineare come l’elemento di distinzione tra le due fattispecie debba essere individuato nella volizione dell’evento, sussistente nel dolo eventuale, seppure nella forma dell’accettazione eventuale dell’accadimento; nel diverso caso della colpa cosciente l’agente si limita invece a prevedere la possibilità o il rischio che detto evento si verifichi pur rimanendo fiducioso che questo non sia destinato a realizzarsi (Cassazione Penale n. 52530 del 2014).

In base alla giurisprudenza più recente in merito al discrimine tra le due figure, quindi, il criterio distintivo tra colpa “cosciente” e dolo “eventuale”, finalizzato all’individuazione dell’elemento soggettivo che accompagna la condotta, è sussumibile nel diverso atteggiamento mentale che il soggetto attivo ha nei confronti della verificazione dell’evento. Nella colpa “cosciente” pur avendo la rappresentazione dell’evento, non vi è l’accettazione del rischio della sua verificazione attraverso il processo mentale della contro-rappresentazione, mentre nel dolo “eventuale” vi è l’accettazione del rischio di verificazione dell’evento come conseguenza della condotta (Cassazione Penale n. 14663 del 2018).

La differenza tra le due figure appare comunque piuttosto labile e sfuggente.

A parere della teoria volontaristica, l’unico modo utile al fine di perimetrare le due figure risulta quello della formula di Frank, in base alla quale il coefficiente di colpevolezza o di rimproverabilità del dolo consisterebbe nel non essersi lasciati distogliere dalla rappresentazione delle conseguenze antigiuridiche della propria condotta (o addirittura nell’essersi lasciati motivare dalle stesse).[2]

Secondo questa teoria se il soggetto agente agisce, seppur anche con una minima consapevolezza sulla possibile realizzazione dell’evento, si parlerà indiscutibilmente di dolo e mai di colpa.

Alla luce dell’annosa questione suindicata, un punto di svolta è stato rappresentato dalla sentenza Thyssenkrupp delle Sezioni Unite nel 2014 (Cassazione Penale, Sezioni Unite, n. 38343, del 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014). La Corte Suprema, nel caso di specie, ha optato per l’adozione della teoria del bilanciamento, tramite la quale si prendono in considerazione diversi indici e si giunge a qualificare in modo puntuale e corretto il comportamento psicologico, inteso quale mens rea, del soggetto agente. Gli indici che seguono sono quelli che puntualmente si prendono in considerazione: il carattere psichico dell’agente, il suo passato e le sue caratteristiche; il modus operandi della condotta del soggetto, il contesto nella quale viene ascritta ed altresì quanto essa sia stata repentina ed impulsiva; la tipologia di evento accaduto; quanto differisca la condotta dell’agente dalle ordinarie regole cautelari previste; il rapporto che intercorre tra l’evento causato e la finalità perseguita.

Ad eccezione dei criteri appena descritti, la Corte di Cassazione, sezione Penale, con la sentenza n. 12680 depositata il 22 aprile 2020 ha voluto individuare quale quid pluris la formula di Frank ivi descritta, a parere della quale “va anzitutto considerata la possibilità di ritenere che l’agente non si sarebbe in alcun modo trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento dannoso”[3].

Facendo il punto della situazione, infatti, e da come si evince dalla sentenza di appello, “la giurisprudenza di legittimità offre in realtà numerose decisioni improntate alla adesione alla dogmatica elaborata dalle Sezioni Unite nel 2014 (caso Thyssenkrupp), secondo cui per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l’“iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank)”.[4]

Per rafforzare ancor di più il fatto che i criteri appena indicati debbano essere presi in considerazione dal primo all’ultimo, compresa la formula di Frank, la Corte ha ripreso la sentenza della Cassazione Penale, Sez. I, del 3 aprile 2018, n. 14776, (si veda il caso di Pier Paolo Brega Massone, ex primario della Clinica Santa Rita di Milano) che “ha ribadito la centralità della formula di Frank nella valutazione finale degli elementi di fatto che sorreggono il giudizio sull’atteggiamento psichico dell’agente dovendosi applicare, nel caso di dubbio tra le due opzioni possibili, il principio del favor rei”.

Proprio alla luce del palese richiamo alla formula di Frank nella sentenza della Cassazione Penale n. 14663 appena citata, i giudici della Corte sono giunti ad affermare che questa formula rientra nel novero dei criteri utili al fine di distinguere le figure di colpa cosciente e dolo eventuale.

Questo iter logico ci porta a concludere che affinché un comportamento possa essere contraddistinto dal dolo eventuale “non è più sufficiente la mera accettazione del rischio, occorrendo quel “quid pluris” reiteratamente individuato dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla Thyssenkrupp, di cui la formula di Frank è parte essenziale”.

Secondo le indicazioni ermeneutiche sinora analizzate, con riferimento all’omicidio del giovane di Ladispoli avvenuto in data 18 maggio 2015, le conclusioni dei giudici di primo e secondo grado sono state molto diverse.

Attraverso la sentenza della Corte d’Assise di Roma del 18 aprile 2018, si condannava Antonio Ciontoli ad anni 14 di reclusione, ritenendo quest’ultimo penalmente responsabile per il delitto di omicidio volontario ai danni di Marco Vannini. Considerando le contestazioni, il Ciontoli avrebbe esploso un colpo verso il Vannini ritenendo che l’arma detenuta fosse scarica. L’imputato, pur essendosi reso conto che la situazione fosse grave, ritardò inutilmente i soccorsi cagionando, secondo il parere del giudice di primo grado, ed accettandone il rischio, la morte del Vannini.

Conclusosi il processo di primo grado l’autore fu quindi ritenuto responsabile di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale dato che l’evento fu contraddistinto dal “rischio morte” che l’agente avrebbe palesemente accettato[5] ed alla stregua di quanto disposto nella sentenza di primo grado, veniva disposto che: “i) Antonio Ciontoli ferì Vannini con un colpo esploso colposamente; ii) egli e i suoi familiari fornirono ai sanitari false informazioni e ritardarono i soccorsi; iii) il ritardo determinò l’aggravamento delle condizioni, già seriamente compromesse al momento dell’esplosione, del giovane Vannini, risultando determinante per la morte”.

Proprio per via delle circostanze appena esposte, con la conclusione del processo di primo grado nei confronti del Ciontoli si giungeva alla seguente decisione: “è stato considerato (Antonio Ciontoli) responsabile di omicidio volontario a titolo di dolo eventuale per essersi rappresentato il rischio morte ed averlo accettato e i suoi familiari concorrono a titolo colposo poiché non avevano, a giudizio del primo giudice, una cognizione della reale gravità dell’accaduto pari a quella del principale imputato”.

Alla luce del lavoro svolto dal giudice di primo grado, la Corte d’Assise d’Appello ha ritenuto prima facie che la ricostruzione originaria mostrasse un vulnus relativamente all’ipotesi in cui si è riconosciuto il dolo seppur sia stato presente un palese conflitto tra l’aver accettato l’evento morte del Vannini e l’aver, seppur in modo imprudente ed inefficace, richiesto più volte soccorso.

Successivamente, infatti, la Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. I, con la sentenza n. 3 del 1° marzo 2019 (ud. 29 gennaio 2019)[6] ha emendato parzialmente la sentenza emessa in primo grado, riqualificando l’imputazione precedente secondo gli articoli 589 e 61 n. 3 del codice penale (omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente). Per il caso di specie, infatti, la Corte è giunta a ritenere che la fattispecie fosse ascrivibile al caso di omicidio colposo aggravato da colpa cosciente e la pena per il Ciontoli è stata rideterminata in anni 5 di reclusione, revocando altresì le pene accessorie che erano state previste per tutti gli imputati.

Ricorrerebbe colpa cosciente quando la volontà dell’agente non è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Cassazione Penale n. 38343 del 2014).

A parere del giudice di primo grado, “il bilanciamento delle conseguenze avrebbe fatto propendere il Ciontoli per la tutela dei propri interessi piuttosto che per la salvezza del ferito”, ma questo ragionamento non è stato affatto condiviso dalla Corte.

Difatti, come appare anche ribadito nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello, “se ciò che si vuole evitare è che si venga a sapere che ha sparato, non avrà intenzione a cagionare un evento che comporterebbe ineluttabilmente l’emersione proprio di ciò che vuole tenere nascosto: il fatto che abbia sparato. E non accetterà le conseguenze per sé negative avendo la certezza che l’evento stesso possa verificarsi, tanto è vero che chiede di tacere sullo sparo, evidentemente perché non vi è in lui la certezza che il giovane soccomberà alla ferita e, soprattutto, non vi è l’accettazione dell’evento morte”.

In considerazione di quanto appena affermato, il modo di operare dell’agente appare nettamente in contrasto con l’intenzione di occultare la propria condotta. Proprio per tali motivi bisognerà prendere in considerazione l’ipotesi della colpa cosciente, che si configura dal momento in cui il soggetto prevede che un determinato evento dannoso possa verificarsi conseguentemente al proprio modus operandi nefasto ma, comunque, decide di agire pensando di poter evitare il danno.

In altre parole, per poter affermare la responsabilità del Ciontoli a titolo di dolo eventuale, dovremmo poter affermare che “sin dall’inizio, sin dallo sparo, vi sia un nesso consapevolezza-accettazione dell’evento morte»: ad ogni modo, a rigor di logica, «le richieste di soccorso, ancorché condotte con modalità inaccettabili e mendaci, resterebbero prive di senso: Ciontoli avrebbe sin da subito messo in conto la morte del ragazzo, seminando però nel contempo tracce che conducevano alla sua persona e che avrebbero ineluttabilmente portato a determinare la reale dinamica degli eventi, con effetto gravemente pregiudizievole per sé o per i propri familiari”.

La Corte, infatti, ha più e più volte affermato che seppur non si volesse prendere in considerazione la formula di Frank, si dovrebbe necessariamente far riferimento al principio del favor rei secondo il quale il giudice ha il dovere di applicare al caso di specie l’imputazione meno grave possibile qualora ci si trovasse di fronte ad elementi probatori non certi, in contrasto gli uni con gli altri o non ancora risolti.[7]

Proprio alla luce di queste considerazioni il giudice della Corte di Assise di Appello ha ritenuto che “il fatto di trovarsi alle prese con un imputato la cui condotta è particolarmente odiosa non può di per sé comportare che un fatto colposo diventi doloso”.[8]

Proprio alla luce dei ragionamenti sinora esposti, la Corte d’Assise d’Appello riconduceva il decesso del Vannini ad omicidio colposo poiché l’evento lesivo poteva essere ascritto in capo al Ciontoli solo per colpa cosciente. Era pertanto inevitabile la derubricazione del fatto da omicidio doloso ad omicidio colposo. A questo punto, quindi, le parti civili presentavano ricorso, che veniva accolto dalla Corte di Cassazione, la quale rinviava il processo ad una diversa sezione della Corte d’Assise d’Appello.

In occasione del processo Vannini bis, la sezione della Corte d’Assise d’Appello designata dalla Suprema Corte di Cassazione ha riqualificato ulteriormente il fatto disponendo che l’evento lesivo cagionato dal Ciontoli fosse a lui ascrivibile non a titolo di colpa cosciente bensì di dolo eventuale. Veniva ritenuto, quindi, che la Corte d’Assise d’Appello precedentemente adita avesse interpretato erroneamente gli indicatori analizzati nella sentenza Thyssenkrupp e che, inoltre, non potesse essere applicata in alcun modo la formula di Frank poiché ritenuta inadeguata alla vexata quaestio.

Alla stregua di quanto detto, la Corte d’Assise d’Appello adita per il processo bis concludeva affermando che le motivazioni della Corte precedente non fossero adatte a spiegare in modo esaustivo la presenza della colpa cosciente ma che le stesse si prestavano meglio a ricollegare il comportamento del Ciontoli sulla base della presenza del dolo eventuale.

Alla base di tali motivazioni, la Corte, con sentenza del 30 settembre 2020, ha condannato il Ciontoli ad anni 14 di reclusione per omicidio doloso ex art. 575 c.p.

Pertanto, proprio per via di questa decisione si è giunti ad una nuova perimetrazione tra le due figure di colpa cosciente e dolo eventuale, ribadendo nuovamente quanto affermato dalla giurisprudenza precedente al caso di specie, con particolare attenzione al caso Thyssenkrupp ed aggiungendo ulteriori spunti e precisazioni utili per il futuro grazie alla ricostruzione del giudice di merito.

 

 

 

 


[1] Nappi E., Manuale di diritto penale. Parte generale, Percorsi Giuffrè. I manuali e gli studi, Giuffrè editore, 2010, ISBN 8814151555, 9788814151552, p. 397
[2] Gentile G., «SE IO AVESSI PREVISTO TUTTO QUESTO…», Riflessioni storico-dogmatiche sulle formule di Frank, in Diritto Penale Contemporaneo, cit. p. 24
[3] Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 12680 depositata il 22 aprile 2020
[4] Cassazione Penale, Sez. IV, 30 marzo 2018, n. 14663;
Sez. I, 11 aprile 2019, n. 15878;
Sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 8133;
Sez. IV, 20 febbraio 2019, n. 7660;
Sez. V, 11 dicembre 2018, n. 55385.
[5] La Corte, difatti, nella sentenza della Corte di Assise di Roma, n. 11, del 18 aprile 2018, si avvale dell’espressione “accada quel che accada”.
[6] Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. I, 1° marzo 2019 (ud. 29 gennaio 2019), n. 3 Presidente Calabria, Relatore De Cataldo
[7] Garofoli G., Manuale di diritto penale, edizione 2018
[8] Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. I, sentenza n. 3, 1° marzo 2019 (ud. 29 gennaio 2019)

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