Il contatto sociale qualificato e la responsabilità precontrattuale della P.A.

Il contatto sociale qualificato e la responsabilità precontrattuale della P.A.

La stipula di contratti pubblici passa attraverso un procedimento di evidenza pubblica, disciplinato dal codice degli appalti, finalizzato anche all’individuazione del contraente. Ne discende che l’organismo di diritto pubblico, a differenza di qualsiasi altro soggetto, è privo dell’autonomia negoziale tipica dei rapporti privatistici, soprattutto per quanto riguarda la libertà di scelta del soggetto con cui contrarre. Nonostante l’esclusione di questa libertà negoziale soggettiva, la P.A. è tenuta, anche durante la procedura di gara, ad osservare non solo le norme di azione che la disciplinano, ma anche gli obblighi privatistici di correttezza e di buona fede, di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c., che governano tutti i procedimenti di formazione del contratto. Tuttavia, stante la soggezione della P.A. alla suddetta doppia disciplina, la violazione delle norme di diritto pubblico, piuttosto che quelle di diritto privato, genera, alla luce della teoria del contatto sociale qualificato, responsabilità precontrattuali di tipo diverso, che pongono problemi di carattere applicativo altrettanto diversi.

Al fine di illustrare le ragioni per le quali la responsabilità precontrattuale della P.A. si fonda su un doppio binario, si ritiene opportuno soffermarsi, preliminarmente, ad analizzare il procedimento di formazione del contratto stipulato tra privati e i relativi obblighi.

Il procedimento di formazione del contratto, detto anche trattativa, rappresenta la fase durante la quale si forma la volontà negoziale delle parti. Quando i potenziali contraenti sono soggetti di diritto privato, la trattativa costituisce una fase eventuale e non obbligatoria ai fini della stipula dell’atto negoziale. Infatti, l’ordinamento giuridico prevede anche fattispecie a formazione istantanea, in cui il processo di formazione della volontà delle parti è contestuale alla conclusione del contratto.

Alle fattispecie a formazione istantanea, si contrappongono le fattispecie a formazione progressiva, in cui il contratto da stipulare è preceduto da una fase, più o meno lunga, durante la quale le parti decidono sia sul contenuto economico che sull’aspetto normativo. Si riconoscono due tipologie di contratti a formazione progressiva a seconda che la fase delle trattative si sostanzi in atti o solo in comportamenti.

Alla prima categoria appartengono quelle fattispecie contrattuali precedute dai c.d. negozi preparatori, con cui le parti fissano le regole del futuro contratto, autolimitando la loro libertà negoziale. Il nostro ordinamento conosce tre tipologie di negozi preparatori. In particolare, ci sono negozi con cui le parti fissano, talvolta anche in maniera dettagliata, l’assetto degli interessi oggetto del futuro contratto, come ad esempio avviene con la sottoscrizione del contratto preliminare. In altri casi, il negozio preparatorio, limitando la libertà soggettiva di una delle parti, attribuisce solo all’altra la facoltà di stipulare o meno il contratto, paradigmatico, da questo punto di vista, è il patto d’opzione di cui all’art. 1331 c.c. Infine, ci sono ipotesi in cui una parte attribuisce all’altra il diritto ad essere preferito rispetto ad altri potenziali contraenti, laddove le condizioni contrattuali prospettate si equivalgano. Sotto questo profilo, un esempio nel panorama ordinamentale è individuabile nel diritto di prelazione.

Tuttavia, la stura ad una fattispecie a formazione progressiva può essere data anche da una fase procedurale connotata da obblighi comportamentali extranegoziali, ancorchè giuridici. In particolare, si fa riferimento a tutte quelle ipotesi in cui le parti, lungi dal voler assumere degli obblighi specifici in merito al contenuto del futuro contratto, si confrontano, in maniera informale, al fine di individuare un assetto di interessi che soddisfi l’utilità marginale ritraibile dallo stesso.

Tale attività, ancorchè non sugellata da un negozio preparatorio, deve svolgersi secondo i canoni di correttezza e buona fede. Infatti, l’art. 1337 c.c., in attuazione del principio di solidarietà e correttezza ex art. 2 Cost., dal quale discende la clausola di reciprocità di cui all’art. 1175 c.c., obbliga le parti a comportarsi secondo buona fede durante la fase delle trattative. Si tratta di una clausola dal contenuto generico, dalla quale derivano obblighi non sempre determinabili ex ante, ma solo ex post in base alla tipologia del rapporto contrattuale che le parti intendono instaurare. La previsione di una norma dal contenuto così elastico, se da un lato consente una maggiore modulazione delle regole comportamentali, suscettibili di applicazione, in base alla specificità del rapporto, dall’altro lato rende difficile per l’interprete fornire un’elencazione compiuta di tutti i possibili obblighi discendenti dall’art. 1337 c.c.

A titolo esemplificativo, il divieto di recedere ingiustificatamente dalle trattative rappresenta, sicuramente, un’esplicazione del generico obbligo di buona fede durante la procedura di formazione del contratto. Infatti, l’avvio delle trattative può ingenerare nella controparte il legittimo affidamento circa la conclusione di quell’affare, mettendolo, potenzialmente, nelle condizioni di abbandonare o trascurare altre operazioni economiche altrettanto rilevanti. Sicchè, l’interruzione delle trattative, senza giustificato motivo, lederebbe la sfera giuridica di quest’ultimo nella misura in cui egli abbia dovuto sacrificare altre attività, potenzialmente remunerative, per far spazio all’affare non realizzatosi a seguito del comportamento scorretto della controparte. È logico che in casi siffatti l’ingiustificabilità del recesso andrà valutata caso per caso in relazione allo stato delle trattative e quindi, più queste avranno raggiunto uno stato avanzato, più difficile sarà per la controparte, che intende arenarsi, farlo senza subire le conseguenze risarcitorie derivanti dalla violazione dell’obbligo di buona fede.

Sempre dall’art. 1337 c.c., discende l’obbligo di segretezza, in virtù del quale le parti sono tenute, durante la fase delle trattative, a mantenere un certo riserbo su tutte le informazioni acquisite nel corso del procedimento di formazione del contratto. La violazione di questa regola comportamentale potrebbe determinare l’acquisizione di quelle informazioni riservate da parte di altri soggetti, i quali potrebbero inserirsi nelle trattative e pregiudicare la conclusione del contratto.

Un ulteriore obbligo derivante dal principio di buona fede, operante nella fase genetica del rapporto contrattuale, consiste nel dovere di ciascuna delle parti di scambiarsi informazioni in merito all’affare che si intende concludere. Il legislatore ritiene che lo scambio di informazioni consenta ai potenziali contraenti di accedere ad una libera formazione della propria libertà negoziale, consentendo loro di ritrarre dal futuro contratto il maggior vantaggio possibile, in omaggio al principio di utilità marginale che permea la disciplina in materia di contratti.

Uno specifico obbligo di informazione è rappresentato da quello positivizzato dal legislatore all’art. 1338 c.c. Tale norma prevede un obbligo risarcitorio in capo a chi, conoscendo o dovendo conoscere una causa di invalidità del contratto, lo stipula ugualmente senza darne notizia all’altra parte. Quest’ultima, per acquisire un diritto al risarcimento del danno, deve aver confidato senza sua colpa sulla validità dell’atto negoziale. Si tratta, dunque, di una specificazione, a livello normativo, del generico obbligo di buona fede di cui all’art. 1337 c.c., che la giurisprudenza, peraltro, ha esteso anche alle ipotesi di conoscenza o conoscibilità di qualsiasi altra causa di inefficacia del contratto. Sicchè, la violazione dell’obbligo informativo ex art. 1338 c.c., secondo la giurisprudenza, si assumerebbe violato non solo nel caso in cui una delle parti, conoscendo o dovendo conoscere una causa di invalidità del contratto, ne omette la comunicazione, ma anche nell’ipotesi in cui l’omissione riguardi un’altra causa di inefficacia del contratto non conosciuta o non conoscibile dalla parte lesa.

Da questa breve disamina della fase che precede la stipulazione di un contratto, si può osservare che, a differenza dei negozi preparatori, dai quali sorgono dei vincoli giuridici specifici nei confronti dei soggetti stipulanti ed il cui inadempimento dà luogo ad una responsabilità contrattuale; l’inadempimento degli obblighi di buona fede, di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c., configura, invece, una responsabilità precontrattuale, stante l’assenza di un atto negoziale efficace tra le parti.

In particolare, si tratta o di una responsabilità precontrattuale da mancata stipulazione, nell’ipotesi in cui l’inadempimento riguardi i doveri giuridici riferibili all’art. 1337 c.c. o di una responsabilità precontrattuale da stipulazione inefficace, nel caso in cui la violazione abbia riguardato l’obbligazione specifica di cui all’art. 1338 c.c. In entrambi casi, tuttavia, la responsabilità precontrattuale si sostanzia in una obbligazione di tipo secondario derivante dall’inadempimento dell’obbligo primario di buona fede e avente ad oggetto il risarcimento del danno prodotto nella sfera giuridica della controparte.

Per quanto riguarda l’individuazione del danno da risarcire, questo, non potendo consistere nell’interesse positivo ritraibile da un programma contrattuale che non c’è stato o risulta inefficace, si sostanzia nel c.d. interesse negativo, ossia nella perdita di tempo subita dal contraente corretto, per essere stato coinvolto in una trattativa inutile. Infatti, le risorse economiche e di tempo impiegato nella procedura di formazione del contratto, non andata a buon fine a seguito del comportamento inadempiente della controparte, avrebbero potuto essere spese per un’operazione economica diversa e maggiormente profittevole. Sicchè, anche l’interesse negativo si articola nel danno emergente  e nel lucro cessante. Il danno emergente consiste nel tempo perso e nelle spese sostenute dalla parte a causa delle trattative inutili, il lucro cessante, invece, si sostanzia nella perdita di occasioni di guadagno alternative a quella non andata a buon fine a causa del comportamento scorretto della controparte.

La responsabilità precontrattuale può configurarsi anche nel caso in cui le parti concludano un contratto valido ed efficace. L’art. 1440 c.c. stabilisce che, anche nell’ipotesi in cui le parti stipulino un contratto valido, il contraente, inadempiente degli obblighi di buona fede, risponde comunque dei danni cagionati alla controparte, laddove le condizioni contrattuali divisate dalle parti sarebbero state diverse se egli avesse tenuto una condotta corretta.

Si tratta del dolo incidens, ossia di quel quasi vizio attinente al processo di formazione della volontà negoziale che, lungi dal determinare il convincimento alla conclusione del contratto, incide sull’accettazione di condizioni contrattuali più sfavorevoli rispetto a quelle che, presumibilmente, le parti avrebbero divisato, nell’ipotesi in cui fossero stati rispettati tutti gli obblighi comportamentali derivanti dal canone di correttezza e buona fede. Il dolo incidente viene comunemente chiamato quasi vizio, proprio per differenziarlo dal dolo determinante di cui all’art. 1439 c.c., che, invece, in quanto causa di annullamento del contratto, rappresenta un vero e proprio vizio del processo di formazione della volontà. In entrambi i casi si configura una violazione delle regole comportamentali improntate al principio di correttezza, tuttavia, mentre nel dolo incidens la violazione di quelle regole non è stata determinate ai fini della conclusione del contratto, nel dolo ex art. 1439 c.c., viceversa, il contraente corretto non avrebbe stipulato l’atto negoziale se non fosse stato vittima di quei raggiri.

Nel nostro ordinamento giuridico sono eccezionali le ipotesi in cui la violazione di regole comportamentali genera l’invalidità del contratto, tra queste rientrano le fattispecie di cui all’art. 1427 c.c., meglio note come vizi del consenso. Generalmente, infatti, l’inosservanza delle norme di condotta configura, a carico del soggetto inadempiente, una responsabilità precontrattuale. Si può quindi affermare che le regole che disciplinano il processo di formazione della volontà negoziale si distinguono in regole di responsabilità, che occupano il maggior spazio nel quadro normativo di riferimento, e regole di validità, che costituiscono una eccezione rispetto alle prime.

Si precisa, tuttavia, che il danno da risarcire, nell’ipotesi in cui l’inadempimento degli obblighi di buona fede non abbia inciso sulla validità del contratto, non può, per ragioni di giustizia sostanziale, essere equiparato a quello rinvenibile nella mancata stipulazione o nella stipulazione inutile. Infatti, si tratta di una fattispecie in cui il contratto, essendo valido, produce effetti positivi anche nella sfera giuridica del soggetto raggirato, sicchè, anche se la controparte ha agito violando le regole comportamentali, il contraente corretto ha comunque ricavato un’utilità dal contratto sottoscritto. Di conseguenza, il danno risarcibile non può consistere nell’interesse negativo a non essere coinvolto in trattative inutili, bensì deve sostanziarsi in un interesse positivo di tipo differenziale, ossia nella differenza tra l’interesse tratto dall’attuale programma contrattuale e la maggiore utilità che egli avrebbe ricavato se la controparte avesse rispettato gli obblighi di buona fede.

Volendo mutuare un concetto economico, si potrebbe affermare che la quantificazione del danno risarcibile deve essere effettuata sottraendo all’ottimo paretiano che il contratto avrebbe raggiunto se non ci fosse stata la violazione delle regole di responsabilità, l’utilità ritraibile dallo schema contrattuale, così come è stato definito dalle parti.

Alla luce di quanto si è scritto sin qui, il procedimento di formazione del contratto, ancorchè non necessario nei rapporti contrattuali tra privati, costituisce uno strumento che consente alle parti un’adeguata formazione della propria volontà negoziale. Tale fase può essere caratterizzata o dalla stipula di negozi preparatori alla conclusione del contratto o da comportamenti, finalizzati al raggiungimento di un accordo, che soggiacciono, sia a regole di responsabilità, sia a regole di validità, tutte ispirate al principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. Mentre la violazione dei vincoli derivanti dai negozi preparatori genera una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., la violazione delle regole comportamentali può cagionare o l’invalidità del contratto, nei casi espressamente previsti dalla legge, o una responsabilità precontrattuale a carico del soggetto inadempiente. In quest’ultimo caso, il risarcimento del danno può avere ad oggetto o l’interesse negativo, se si tratta di responsabilità precontrattuale da mancata o da inutile stipulazione, o l’interesse positivo differenziale, se la responsabilità precontrattuale si configura nonostante la validità della stipulazione ex art. 1440 c.c.

Siccome il codice civile, nonostante preveda delle fattispecie di responsabilità precontrattuale, non detta una disciplina ad hoc, ci si è chiesti, in dottrina ed in giurisprudenza, quale delle due discipline sulla responsabilità civile stabilite dal nostro ordinamento, responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. e responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., sia all’uopo applicabile. La risposta alla suesposta domanda ha dei risvolti pratici particolarmente importanti, stante le numerose diversità che caratterizzano le due discipline, prime fra tutte le norme sull’onere della prova e in tema di prescrizione.

Tradizionalmente, la responsabilità precontrattuale veniva ricondotta nell’alveo della responsabilità aquiliana. L’argomento principale che induceva la giurisprudenza ad abbracciare questa tesi risiedeva nella mancanza di un contratto stipulato dalle parti, sicchè le stesse non soggiacevano ad alcuna obbligazione di natura contrattuale, ma solo al dovere giuridico generico del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. Ne discendeva l’applicazione di una disciplina molto più favorevole per il danneggiante, piuttosto che per il danneggiato, stante la necessità per quest’ultimo di dimostrare la sussistenza di un danno cagionato dal comportamento scorretto della controparte, oltre che dover soggiacere a un termine prescrizionale molto meno esteso rispetto a quello relativo alla responsabilità contrattuale.

Alla tesi tradizionale si è contrapposta quella attualmente seguita dalla giurisprudenza, che, valorizzando il principio dell’atipicità delle fonti delle obbligazioni, perviene ad una soluzione, già adottata dall’ordinamento giuridico tedesco, che applica alla responsabilità precontrattuale la medesima disciplina prevista per la responsabilità contrattuale.

Tale tesi, denominata “del contatto sociale”, al fine di individuare la disciplina applicabile a quei rapporti obbligatori non derivanti da un contratto, distingue quest’ultimi in due grandi categorie: rapporti contattuali qualificati e rapporti contattuali non qualificati. Al primo gruppo appartengono quelle fattispecie in cui soggetti predeterminati entrano in contatto non per via della commissione di un fatto illecito, ma perché una delle parti decide di iniziare l’esecuzione di una prestazione, non contrattualizzata, nell’interesse dell’altra parte. Dal contatto, così creatosi, sorge, per l’esecutore, l’obbligo di portare a termine la prestazione, secondo i canoni di correttezza e buona fede, al fine di non ledere la sfera giuridica altrui messa a repentaglio dalla suddetta ingerenza; di contro, colui che subisce la prestazione accetta l’invasione della propria sfera giuridica, confidando, legittimamente, nella professionalità e correttezza della controparte. Volendo schematizzare la struttura del contatto sociale qualificato, si possono scorgere due elementi essenziali: lo scopo comune e il legittimo affidamento.

Per quanto riguarda il primo elemento, è necessario che mediante la prestazione in questione, ancorchè non contrattualizzata, le parti vogliano realizzare un obiettivo condiviso, in secondo luogo, è altrettanto importante che il soggetto che subisce l’invasione della propria sfera giuridica riponga fiducia nell’altrui operato, stante la professionalità e la diligenza che caratterizza quest’ultimo.

Si può, quindi, affermare che, in casi siffatti, l’obbligo risarcitorio non deriva direttamente dal contatto tra i due soggetti, come avviene nella responsabilità aquiliana, bensì dall’inadempimento delle regole di correttezza e di buona fede che disciplinano quel contatto. Si tratta, dunque, di un’obbligazione risarcitoria di tipo secondario, perchè frutto dell’inadempimento di un’altra obbligazione specifica, precedentemente assunta da due soggetti determinati, consistente nell’obbligo di osservare le regole di correttezza e buona fede.

Siccome la natura secondaria dell’obbligazione risarcitoria connota la responsabilità contrattuale, i fautori della teorica tedesca sostengono che l’inadempimento degli obblighi nascenti dal contatto sociale qualificato dia luogo ad una responsabilità da inadempimento e giammai ad una responsabilità aquiliana, che, invece, dipende dalla violazione del generico obbligo del neminem laedere e non dalla violazione di un obbligo specifico, almeno dal punto di vista soggettivo, come l’obbligo di buona fede.

La violazione del generico obbligo ex art. 2043 c.c. può connotare, invece, i rapporti contattuali non qualificati, in cui il punto di contatto tra due soggetti non è rappresentato dall’inizio di esecuzione della prestazione di uno in favore dell’altro, ma dalla diretta incisione della sfera giuridica altrui a seguito della commissione di un fatto non iure. Si tratta, quindi, di rapporti tra soggetti non predeterminabili a priori, ma solo a posteriori, e per questo motivo non legati da obblighi specifici di protezione, ma solo dal generico obbligo del neminem laedere. È di tutta evidenza che in questo caso l’obbligazione risarcitoria, a differenza di quanto accade nel contatto sociale qualificato, non deriva dall’inosservanza delle regole di protezione che disciplinano quel particolare tipo di rapporto, ma sorge direttamente per effetto del contatto creatosi fra i due soggetti. Sussiste, dunque, in capo all’autore del fatto illecito, una responsabilità primaria aquiliana, disciplinata dall’art. 2043 c.c.

La valorizzazione dell’ultima parte dell’art. 1173 c.c. ha consentito alla giurisprudenza nostrana di far propria la teoria germanica del contatto sociale, introducendola anche nell’ordinamento nazionale. In particolare, la suddetta norma prevede tre tipologie di fonti delle obbligazioni: il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento giuridico.

Da questa disposizione, che introduce il principio di atipicità delle fonti, ne discende che il rapporto obbligatorio può sorgere anche da fonti diverse dal contratto o dal fatto illecito, purchè le stesse non siano contrarie all’ordinamento. Sicchè, si deve ritenere che, laddove il contatto sociale qualificato rispetti i limiti imposti dalla legge, sia da considerarsi idoneo alla produzione di rapporti obbligatori, nonostante non rientri né nella categoria dei contratti, né in quella dei fatti illeciti.

Alla luce delle argomentazioni svolte, il contatto sociale qualificato, in omaggio al principio dell’atipicità delle fonti di cui all’art. 1173 c.c., consente la nascita di rapporti obbligatori al cospetto dei quali si configura, stante il sistema bipartito della responsabilità civile, una responsabilità secondaria da inadempimento ex art. 1218 c.c. e non una responsabilità primaria per fatto illecito ex art. 2043 c.c.

La teoria del contatto sociale qualificato è stata utilizzata dalla giurisprudenza per ricondurre, nell’alveo della disciplina che regola la responsabilità da inadempimento, non solo i casi di responsabilità medica, ora riaquilianizzata per effetto della nuova normativa Gelli-Bianco, ma anche le ipotesi di responsabilità precontrattuale, ivi compresa la responsabilità della P.A. per violazione degli obblighi di buona fede durante la procedura amministrativa di evidenza pubblica. È di tutta evidenza, infatti, che anche in questo caso gli elementi essenziali del contatto sociale qualificato, scopo comune e affidamento legittimo, ci sono tutti. C’è il perseguimento di uno scopo comune, consistente nella stipulazione del contratto, c’è anche l’affidamento legittimo da parte del privato circa la diligenza e la professionalità della P.A. nella gestione della procedura di evidenza pubblica.

In virtù delle direttive comunitarie, poi recepite dal D.Lgs. n. 50/16, la stipula di contratti pubblici è preceduta, obbligatoriamente e non facoltativamente, da una procedura amministrativa finalizzata all’individuazione del soggetto con cui contrarre, mediante la valutazione, secondo criteri prestabiliti nel bando di gara, delle offerte presentate dai singoli partecipanti.

Tale procedura, in quanto sede di esercizio del potere amministrativo, è disciplinata da norme di diritto pubblico, la cui violazione può incidere l’interesse legittimo dei partecipanti. Tuttavia, siccome tale fase precede la stipula di un contratto pubblico, che, ai sensi dell’art. 30, co. 8, D.lgs. n. 50/16, soggiace alle regole privatistiche, la procedura di evidenza pubblica può essere equiparata, sotto certi aspetti, ad un normale procedimento di formazione del contratto di diritto privato, all’interno del quale le parti sono tenute all’osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c., la cui violazione incide una posizione di diritto soggettivo.

Ne consegue che la P.A. assume contemporaneamente la veste di ente pubblico rispetto all’applicazione delle norme di azione che regolano il procedimento amministrativo e la veste di ente privatistico rispetto alle norme di relazione che disciplinano la fase delle trattative. Proprio da questa doppia anima della P.A., la giurisprudenza desume la possibilità che al cospetto della procedura di evidenza pubblica si configurino due responsabilità precontrattuali di tipo diverso: una propria, l’altra impropria.

La responsabilità precontrattuale propria è quella che deriva dalla violazione degli obblighi di buona fede nelle trattative di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. e non dalla violazione di norme di azione. In particolare, si tratta di fattispecie in cui la P.A., pur esercitando legittimamente il potere pubblicistico di autotutela nei confronti di un provvedimento accrescitivo della sfera giuridica del privato, come ad esempio la rimozione del provvedimento di aggiudicazione della gara, incide il legittimo affidamento, riposto da quest’ultimo, sulla stabilità e definitività della posizione giuridica acquisita per effetto del provvedimento rimosso. Tale condotta la si ritiene violativa dei canoni di buona fede, in quanto la P.A., in virtù della funzione esercitata, avrebbe dovuto conoscere sin da subito i vizi o i motivi di opportunità amministrativa ostativi all’adozione del provvedimento di aggiudicazione della gara, evitando, così, di emanarlo e di ingenerare un legittimo affidamento nel privato.

In passato, si è a lungo discusso circa la configurabilità di una responsabilità precontrattuale pura da parte della P.A. Infatti, tutte le norme che disciplinano l’azione amministrativa, compresa la procedura di evidenza pubblica, sono norme inderogabili e come tali imperative, che anche il privato dovrebbe conoscere. Questo significa che un provvedimento di aggiudicazione illegittimo, che abbia, eventualmente, dato luogo alla stipula di un contratto pubblico, non sarebbe idoneo ad ingenerare un legittimo affidamento nel privato, posto che quest’ultimo avrebbe dovuto conoscere il vizio inficiante il provvedimento accrescitivo, con la conseguenza che non potrebbe configurarsi una responsabilità precontrattuale pura ai danni della P.A.

Questa impostazione è stata, ormai, superata in giurisprudenza da chi sostiene che, stante l’inderogabilità di tutte le norme che disciplinano l’azione amministrativa, non possono definirsi propriamente imperative, bensì norme di azione, la cui conoscenza è esigibile solo nei confronti della P.A., in quanto unico soggetto deputato all’esercizio dell’azione amministrativa.

In virtù della doppia anima che connota la P.A. durante la procedura di evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale può configurarsi anche quando la P.A. agisce come soggetto di diritto pubblico, violando non le regole di responsabilità che governano la fase delle trattative, bensì le norme di azione che disciplinano l’agere amministrativo, poste a garanzia della legittimità della gara pubblica. Ci si riferisce, in particolare, all’ipotesi in cui la stazione appaltante adotti un provvedimento illegittimo di esclusione dalla gara nei confronti di un soggetto che vi abbia partecipato. Si tratta, in questo caso, di una responsabilità precontrattuale spuria, dal momento che si assiste ad una incisione di un interesse legittimo pretensivo per effetto di un fatto illecito della P.A., che si sostanzia nell’adozione di un provvedimento illegittimo. Per le ragioni suesposte, si deve ritenere che la responsabilità sussistente nell’ipotesi siffatta possa definirsi precontrattuale solo per motivi di carattere cronologico, in quanto si fa riferimento ad una violazione che precede la stipula del contratto, non anche per motivi di carattere ontologico. In questo senso, infatti, appare più corretto parlare di una responsabilità aquiliana soggettiva, in cui si presume la condotta colposa della P.A.

Non si può non notare come l’affermazione della teoria del contatto sociale qualificato abbia introdotto una diversificazione della disciplina applicabile alle due fattispecie di responsabilità precontrattuale della P.A. Infatti, se in passato sia la responsabilità precontrattuale propria che quella impropria soggiacevano al regime ex art. 2043 c.c., oggi il suddetto regime è applicabile solo alla responsabilità precontrattuale spuria, non anche a quella pura, che, invece, risente della disciplina di cui all’art. 1218 c.c.

Tuttavia, non è questa l’unica differenza che connota le due tipologie di responsabilità di cui si è dato atto. La giurisprudenza, infatti, tende ad individuare almeno altri tre profili di diversità, di cui uno avente più una valenza dogmatica che applicativa.

Partendo da quest’ultimo profilo, si deve precisare che, siccome la responsabilità precontrattuale in senso ontologico si configura a seguito dei danni derivanti dalla lesione di un diritto soggettivo, sub specie legittimo affidamento, presuppone, in teoria, la giurisdizione del G.O. e non del G.A., che, invece, si occupa della lesione dell’interesse legittimo e, quindi, della responsabilità precontrattuale in senso cronologico. Tuttavia, i problemi relativi alla qualificazione della posizione soggettiva coinvolta, funzionale alla individuazione della competenza giurisdizionale, sono stati superati dalla previsione legislativa di cui all’art. 133, lett. e, n. 1, c.p.a., che attribuisce al G.A. la giurisdizione esclusiva di tutte le controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento, comprese quelle relative alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione. È stato, dunque, risolto il problema della doppia giurisdizione, che avrebbe procurato un contrasto con il principio di economia processuale nell’ipotesi in cui il privato avesse lamentato, contemporaneamente, sia una responsabilità precontrattuale di tipo puro, che una responsabilità extracontrattuale per lesione dell’interesse legittimo.

Dal punto di vista processuale, si rimarca anche una diversità delle tutele offerte dall’ordinamento giuridico a seconda del tipo di responsabilità sussistente in capo alla stazione appaltante.

In particolare, la responsabilità precontrattuale pura dà luogo ad un’azione meramente risarcitoria, in quanto il danneggiato ha subito una lesione per effetto della violazione di una regola comportamentale e non a seguito di un provvedimento illegittimo. Nella responsabilità precontrattuale spuria, invece, l’accertamento passa, generalmente, attraverso l’impugnazione del provvedimento illegittimo lesivo della posizione soggettiva, nonostante il codice del processo amministrativo ammetta la possibilità di esperire un’azione di condanna autonoma. Questo perché, ai sensi dell’art. 30, co. 3, c.p.a., è escluso il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare se il danneggiato, usando l’ordinaria diligenza, avesse esperito la tutela impugnatoria finalizzata alla rimozione dell’atto lesivo. Di conseguenza, siccome non vi è dubbio che le conseguenze pregiudizievoli derivanti da un provvedimento amministrativo illegittimo possano essere elise attraverso l’impugnazione entro i termini di legge, si deve desumere che, nonostante da un punto di vista astratto il codice del processo amministrativo ammetta la sola tutela risarcitoria, in concreto nella maggior parte dei casi la tutela conseguibile sia solo quella impugnatoria.

Un altro profilo, che differenzia la responsabilità precontrattuale propria da quella impropria, attiene alla individuazione del danno risarcibile ed ai problemi probatori ad esso connessi.

In relazione al primo tipo di responsabilità, anche in questo caso, come in quelli attinenti ai rapporti obbligatori tra privati, il soggetto, che subisce gli effetti della violazione delle regole di responsabilità, sopporta una lesione dell’interesse negativo, sub specie legittimo affidamento, in quanto, confidando nella definitività della situazione giuridica creatasi all’esito della procedura di gara, sacrifica altre possibili fonti di guadagno.

Di diversa natura è, invece, il danno risarcibile a seguito dell’adozione di un provvedimento amministrativo illegittimo, con il quale viene decisa l’esclusione dalla gara di un partecipante o viene rimosso, illegittimamente, in autotutela, il provvedimento di aggiudicazione. In particolare, nel primo caso si tratterebbe di una lesione dell’interesse positivo ritraibile dalla chance di stipulazione del contratto; nel secondo, invece, l’interesse positivo avrebbe ad oggetto l’assetto degli interessi definito dal contratto non stipulato nonostante l’aggiudicazione. Giova, a questo punto, soffermarsi su questi due casi specifici, in quanto pongono problemi, dal punto di vista probatorio, in parte diversi.

Nell’ipotesi in cui la responsabilità della P.A. derivi da un provvedimento illegittimo di esclusione dalla gara, in disparte la facoltà del giudice di rinnovarla o di deciderne egli stesso l’esito, risarcendo, così, in maniera specifica il danneggiato, ci si interroga sulle modalità attraverso le quali quantificare il danno non più risarcibile in forma specifica, ma solo per equivalente. Tale questione è resa ancor più complicata dal fatto che è quasi impossibile, per il danneggiato, dimostrare che egli si sarebbe aggiudicato la gara se non fosse stato vittima di un provvedimento illegittimo di esclusione. Al fine di sollevare il danneggiato dall’onere di una probatio diabolica, la giurisprudenza prevede, in questi casi, la possibilità che gli venga risarcito, quantomeno, il danno da perdita di chance di aggiudicazione della gara, il quale assume un valore economico diverso a seconda del numero di partecipanti. In particolare, in virtù di una forfetizzazione degli utili ritraibili dalla stipulazione di un contratto pubblico, che il Consiglio di Stato individua nel 10 % del valore del contratto, si applica a tale risultato la percentuale di possibilità di aggiudicazione della gara, calcolata tenendo conto del numero dei partecipanti. Sicchè, nell’ipotesi in cui i soggetti partecipanti alla gara siano più di uno, l’impresa illegittimamente esclusa, qualora non riesca a dimostrare che si sarebbe aggiudicata la gara se fosse stata messa in condizione di parteciparvi, potrà ottenere il risarcimento dell’interesse positivo, quantificabile attraverso l’applicazione del 10 % al valore del contratto non stipulato e, successivamente, dividendo il risultato così ottenuto per il numero delle imprese partecipanti alla gara.

Minori problemi dal punto di vista probatorio pone, invece, la responsabilità precontrattuale spuria, che si configura per effetto di un provvedimento illegittimo in autotutela che rimuove una precedente aggiudicazione. In questo caso, qualora non sia più possibile la stipulazione del contratto, deve essere riconosciuto al danneggiato un risarcimento per equivalente pari al 10 % del valore del contratto, a meno che egli non riesca a dimostrare che avrebbe tratto da quel negozio un vantaggio economico maggiore rispetto a quello forfettizzato dal Consiglio di Stato. Nel caso di specie, si tratterebbe, infatti, non di in un danno da perdita di chance, bensì di una lesione al diritto, secondo alcuni, all’interesse legittimo, secondo altri, alla stipulazione del contratto.

In conclusione, la doppia anima della la P.A. durante la procedura di evidenza pubblica dà luogo a due tipologie di responsabilità precontrattuale, propria e impropria, al cospetto delle quali l’ordinamento giuridico, a seguito dell’affermazione della teoria del contatto sociale qualificato, prevede regimi diversi, contrattuale per la prima ed aquiliana soggettiva presunta per la seconda. Da questa differenziazione discendono conseguenze applicative diverse sia in termini di tutela, impugnatoria nella responsabilità precontrattuale spuria, risarcitoria nella responsabilità precontrattuale pura; sia in merito alla quantificazione ed alla prova del danno risarcibile, interesse negativo nella responsabilità precontrattuale propria, interesse positivo nella responsabilità precontrattuale impropria. Nessuna differenza all’atto pratico, invece, in materia di giurisdizione, posto che l’art. 133, lett. e, n. 1, c.p.a. prevede la giurisdizione esclusiva del G.A. in tutte le controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento, comprese quelle relative alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione.


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