Il contratto di Sale and Lease Back: tra funzione di garanzia, divieto di patti commissori e problemi pratico-applicativi

Il contratto di Sale and Lease Back: tra funzione di garanzia, divieto di patti commissori e problemi pratico-applicativi

Sulla base del disposto di cui all’art 2744 c.c. è nullo ogni patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno sia trasferita al creditore.

Tale disposizione normativa precisa che il suddetto patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno. La medesima disciplina è enucleata, altresì, nell’art. 1963 c.c., nell’ambito del contratto di anticresi; è opportuno precisare che in tale fattispecie manca il riferimento alla fissazione di un termine. La nullità prevista in queste ipotesi è di tipo, sia strutturale (art. 1418, comma 2, c.c.), in quanto il contratto presenta una causa illecita, perché in frode alla legge, ex art. 1344 c.c., sia di tipo testuale (art. 1418, comma 3, c.c.), in quanto è espressamente l’art. 2744 (o l’art. 1963) c.c. a prevederla (1).

Il contratto di sale and lease-back, cosiddetta locazione finanziaria di ritorno, è una chiara espressione dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) che il nostro ordinamento riconosce a ciascun individuo nell’ambito dell’attività negoziale al fine di conseguire interessi sempre diversi, purché rilevanti e meritevoli di tutela.

Esso si configura come uno schema negoziale “socialmente tipico” , in quanto ormai  frequentemente applicato nella prassi degli affari sia in Italia che all’estero. Esso  è caratterizzato da precise peculiarità strutturali e funzionali che, pertanto, gli conferiscono originalità ed autonomia rispetto ai tipi negoziali codificati.

In particolare, il contratto di lease-beack costituisce una variante tipologica del contratto di leasing ed è contrassegnato da una complessità di atti, tra loro collegati, idonei a soddisfare una sostanziale esigenza di finanziamento da parte di chi vi ricorre. In pratica, attraverso tale schema contrattuale il contraente, generalmente un’impresa cede un proprio bene ad una società di leasing la quale si impegna al pagamento del prezzo pattuito e, contemporaneamente, cede in leasing il bene oggetto della vendita all’originario proprietario che, in questo modo, si assicura la possibilità di continuare ad utilizzare il bene ceduto dietro il pagamento di un canone.

Tuttavia, allo scadere del rapporto di leasing l’originario proprietario ha la possibilità di esercitare un diritto di opzione in forza del quale potrà riacquistare il bene ad un prezzo stabilito.

Dunque, si tratta di un’operazione negoziale che , secondo un procedimento non diverso da quello dell’antico costituto possessorio, circoscrive a due i soggetti dell’operazione finanziaria ovvero, da un lato l’imprenditore, il quale assume la duplice veste di venditore ed utilizzatore e dall’altro la società di finanziamento.

La peculiarità che il contratto di lease back mostra rispetto a quello di leasing è data, proprio, dalla bilateralità del rapporto a fronte della trilateralità (concedente, fornitore, utilizzatore) che, di fatto, caratterizza il leasing (2).

Invero, la circostanza che il bene venduto rimanga nella disponibilità del venditore -il quale continua ad utilizzarlo corrispondendo canoni periodici di leasing- nonché la possibilità di riacquisto al termine del contratto ha indotto, sin da subito, dottrina e giurisprudenza ad interrogarsi circa la liceità dell’operazione di lease –back.

Proprio la evidente somiglia tra questa fattispecie contrattuale e le alienazioni a scopo di garanzia porterebbe a concludere che il contratto in parola celi, in realtà, un patto commissorio espressamente vietato dall’art. 2744 c.c.. Al fine di perimetrare la portata e la validità del contratto di lease beack e, quindi, di meglio comprendere se davvero tale schema contrattuale si sostanzi in un aggiramento del divieto di patto commissorio si rende necessario analizzare gli elementi strutturali e sintomatici della fattispecie di cui all’art. 2744 c.c. nonché le ragioni che hanno condotto il legislatore a sancirne, espressamente, il divieto.

A tal proposto si osserva che nell’ordinamento giuridico italiano non è possibile rinvenire una definizione vera e propria del patto commissorio il quale, in realtà, trae le sue origini dalla lex commissoria del diritto romano. Quest’ultima prevedeva la possibilità di introdurre nel pignus una clausola che autorizzava il creditore a trattenere la proprietà della res, per l’appunto conferita in pegno, ove il debitore non avesse adempiuto alla sua obbligazione.

Il legislatore italiano si è limitato a sancirne il relativo divieto nel codice del 1942 in due differenti disposizioni: innanzitutto, nel Capo 1, Titolo III del libro VI ,all’art. 2744 c.c. ove ha sancito la nullità del patto con il quale si conviene, che in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. In secondo luogo, nel Capo XXIV del Titolo III del Libro IV dedicato alla disciplina del contratto di anticresi, precisamente, all’art. 1963 c.c.. Quest’ultima disposizione ,a sua volta, stabilisce la nullità di qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, con cui si conviene che la proprietà dell’immobile passi al creditore nel caso di mancato pagamento del debito.

In realtà anche il codice del 1865 prevedeva siffatto divieto ma lo stesso era limitato elusivamente all’ ipotesi di pegno e all’anticresi. Di converso, il legislatore del 1942,onde porre rimedio alle critiche avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza circa l’incompletezza della formulazione previgente, ha esteso il divieto di patto commissorio anche all’ “ipoteca” e al patto stipulato ex intervallo, come espressamente disposto dall’ultimo capoverso dell’art. 2744 c.c..

La dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno chiarito che, in realtà, l’art. 2744 c.c. non rappresenta una disposizione eccezionale bensì un principio generale comune a molti istituti.

Ciò ha comportato l’ingresso nel nostro ordinamento, seppur in via pretoria, del divieto del c.d. “patto commissorio autonomo” rinvenibile in ogni patto che, anche se non accedente ad una tipica garanzia, consente al creditore di acquisire un bene del debitore a seguito del mancato adempimento del debito.

Le ragioni che hanno indotto il legislatore e la giurisprudenza a guardare con disfavore al patto commissorio ancora oggi non sono chiare e continuano ad essere oggetto di un annoso dibattito in ambito dottrinario e giurisprudenziale .

La tesi tradizionale rinviene la ratio di siffatto divieto nella esigenza di tutela del debitore considerato parte debole dell’accordo negoziale sulla scorta del fatto che la manifestazione di volontà di quest’ultimo non sarebbe libera ma condizionata dalla situazione di bisogno che, perciò, lo porterebbe a contrarre anche in condizioni svantaggiose.

Un’altra ricostruzione ermeneutica individua il fondamento dell’art. 2744 c.c. nel generale sfavore che l’ordinamento nutre verso l’autotutela privata atteso che quest’ultima farebbe venir meno la necessità di ricorrere all’azione esecutiva dei crediti sottoposta, invece, al monopolio dello Stato. In differente orientamento, al contrario, ravvisa nel divieto di cui all’art. 2744 c.c. una espressione del generale divieto di creare delle garanzie generali atipiche.

Ciò in quanto con il patto commissorio si utilizzerebbe un negozio traslativo della proprietà ( contratto di compravendita) per il raggiungimento di uno scopo di garanzia, senza che tale tipo di negozio (vendita a scopo di garanzia) sia ,chiaramente, previsto dall’ordinamento interno. Ancora, una tesi più recente collega il divieto del patto commissorio al principio della par condicio creditorum di cui all’art. 2741 c.c., per cui esso si sostanzierebbe nella esigenza di evitare che un creditore soddisfi i propri crediti in maniera più agevole rispetto agli altri creditori del medesimo debito acquistando direttamente la proprietà del bene. L’opinione che oggi prevale nella giurisprudenza è quella di ritenere che il divieto in parola appaghi una pluralità di esigenze, tutte rilevanti e degne di tutela, motivo per cui esso è giustificato facendo leva sulla concorrente operatività di tutte le teorie sopra esposte.

Orbene, come accennato, l’ipotesi di c.d. “patto commissorio autonomo” che più di frequente ricorre nelle giurisprudenza è rappresentata dall’alienazione a scopo di garanzia.

Infatti, nella prassi negoziale, il perseguimento dello scopo di garanzia è attuato il più delle volte seguendo lo schema tipico della vendita contrattuale che viene, poi, ad essere modulato ed adattato al raggiungimento dello scopo effettivamente perseguito dai contraenti.

L’alienazione a scopo di garanzia si presenta nella duplice formula della vendita sottoposta a condizione sospensiva e di quella sottoposta a condizione risolutiva dell’inadempimento.

La giurisprudenza ha superando l’impostazione tradizionale che relegava, sulla scorta di una c.d. concezione cronologica, la nullità ex art. 2744 c.c. alla sola vendita a scopo di garanzia sottoposta alla condizione sospensiva del mancato pagamento del debito ed ha, quindi, provveduto ad estenderla anche alla vendita a scopo di garanzia sottoposta a condizione risolutiva.

In particolare, è stato chiarito che ai fini della nullità di cui all’art. 2744 c.c. non rileverebbe il rapporto cronologico ed effettuale tra l’inadempimento e l’obbligazione essendo, di contro, determinate il comune intento che le parti vogliono attribuire all’operazione negoziale. Si è ,quindi, andata affermando una concezione c.d. funzionale per cui, ai fini dell’accertamento del patto commissorio, è necessario indagare il comune intento delle parti e, quindi, verificare se questo vada nella direzione di attribuire alla vendita funzione di garanzia. (3)

Per cui, anche la vendita con condizione risolutiva è nulla ex art. 2744 c.c., senza che possa rilevare l’immediato trasferimento effettivo della proprietà al mutuante, ove risulti che l’intento primario delle parti è quello di costituire con il bene una garanzia reale in funzione del mutuo e di rendere il trasferimento irrevocabile solo con l’inadempimento del venditore. In questo modo, infatti, si determina un nesso teleologico e strumentale tra i due negozi posti in essere ovvero quello di mutuo e quello di compravendita.

Attraverso la detta operazione ermeneutica la giurisprudenza ha cosi focalizzato la sua attenzione sulla “causa in concreto” dell’accordo negoziale prescindendo dal tipo contrattuale.

In altre parole, si chiede al giudice di valutare il caso concreto per verificare nella sostanza se la garanzia assurga a causa del contratto posto in essere della parti.

A tal riguardo, è necessario controllare, innanzitutto, se il versamento del denaro da parte del debitore non costituisca il pagamento del prezzo ma l’ esecuzione di un mutuo e ,in secondo luogo, se il trasferimento del bene non integri l’attribuzione al compratore ma, viceversa, l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria. Invero, tutto ciò porterebbe a non ritenere realizzata la funzione di scambio tipica del contratto di compravendita ma quella del negozio vietato dalla legge.

Questo indirizzo è stato recepito dalla Suprema corte già a partire dagli anni novanta diventando una costante nella giurisprudenza di legittimità successiva che ,pertanto, al fine di vagliare la liceità degli schemi contrattuali ha operato in un’ottica di valorizzazione della funzione causale concretamente assolta nel negozio traslativo. Proprio la verifica della causa negoziale in concreto perseguita dalle parti ha, quindi, permesso di riscontrare l’aggiramento del patto commissorio mediante il ricorso nella prassi ad una pluralità di schemi contrattuali. Su questa linea si è attestata la giurisprudenza anche per verificare se particolari ipotesi negoziali contrattuali quale ,appunto, il contratto di lease-back integrino o meno il divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. (4)

In pratica, anche lo schema contrattuale in parola deve essere valutato facendo riferimento non più al criterio formalistico-strutturale che ravvisa nel momento del trasferimento della proprietà il discrimen tra le fattispecie lecite ed illecite bensì al c.d. “criterio funzionale” sposato dalla giurisprudenza prevalente, che, dal canto suo, valuta l’esistenza o meno dello scopo di garanzia nell’ambito dell’affare complessivamente considerato.

In pratica, se per un verso la Suprema corte ha riconosciuto al contratto di lease back autonomia strutturale e funzionale, essendo catalogabile nell’ambito dei contratti di impresa ovvero di vendita a scopo di leasing, dall’altro si ammette che esso, come qualsiasi altro contratto, può essere impiegato per scopi illeciti e fraudolenti e ,quindi, in violazione ed elusione del divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c..

Ne discende, quindi, che spetta al giudice, attraverso una valutazione caso per caso ,tesa a valorizzare la causa concreta dello schema negoziale in questione, verificare se l’operazione economica effettiva si atteggi in maniera tale da integrare il divieto di patto commissorio.

In altri termini, l’operazione rimessa al giudice è quella di valutare che l’operazione contrattuale tenda al perseguimento degli interessi propri del lease back ,come contratto di impresa, e non ,invece, al perseguimento di uno scopo di garanzia vietato dal nostro ordinamento.

Invero, la giurisprudenza nel corso del tempo ha dettato una serie di indici sintomatici, la cui verifica é lasciata al giudice di merito in sede di accertamento.

Si tratta di indicatori che rappresentano deviazioni rilevanti dello schema socialmente tipico del lease-back, in presenza dei quali il giudice di merito potrà dedurre il perseguimento di uno scopo di garanzia in violazione dell’art. 2744 c.c. Onde agevolare il giudice in questa complessa operazione la giurisprudenza ha individuato, innanzitutto, gli elementi precipui caratterizzanti lo schema negoziale del lease-back che, come da più parti osservato, nella sua versione pura si svolge tra due soggetti di pari forza contrattuale, volti alla realizzazione dei loro rispettivi interessi.

Nella ricognizione degli elementi che contraddistinguono il contratto di lease-back si è posta l’attenzione in primo luogo sulla natura del bene oggetto dell’alienazione (che deve essere strumentale allo svolgimento dell’attività imprenditoriale) nonché sulla peculiare qualità delle parti (di regola rappresentate da un lato da un’impresa o lavoratore e dall’altro da un’impresa di leasing). Si è chiarito, tra le altre cose, che la durata sufficientemente ampia del rapporto nonché la omogeneità del prezzo di vendita, dei canoni e del prezzo di opzione, sono a loro volta, sintomo di una corretta trattazione.

Ne discende perciò che l’assenza di uno di questi requisiti rappresenta un forte indizio dell’uso strumentale e fraudolento dello schema negoziale del lease back.

Chiariti, quindi, gli elementi strutturali dell’accordo de quo la giurisprudenza ha stabilito che tra gli indici sintomatici che portano a ritenere che esso miri, in realtà, ad uno scopo primario di garanzia, in violazione dell’art. 2744 .c.c. ,vi è la presenza di una situazione di credito o debito tra le parti dell’accordo o ,ancora, una evidente situazione di difficoltà economica della venditrice e ,non da ultimo, la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il valore del bene effettivamente versato dal compratore

Dunque, tali elementi legittimerebbero il sospetto di un approfittamento da parte della società acquirente.

In realtà, quanto detto conferma che il contratto di lease-back ,tenuto conto del complesso rapporto atipico nel quale si inserisce, non è di per sé in frode al divieto di patto commissorio e pertanto nullo.

Sicché, sulla scorta dei crismi sopra enunciati, esso deve ritenersi violato ogniqualvolta lo scopo di garanzia non costituisca mero motivo ma assurga a causa concreta dell’accordo negoziale.

In questo modo, se da un lato si mira ad accordare la giusta importanza al principio di autonomia negoziale, dall’altro si tendere ad abbandonare quelle indagini meramente aprioristiche del divieto di cui all’art. 2744 c.c. nonché a valorizzare l’importanza dell’analisi svolta dal giudice circa la funzione in concreto realizzata dallo schema contrattuale della locazione finanziaria.

Perseguendo tale via si è osservato che ,nella prassi negoziale, sono molto frequenti i casi in cui il contratto di lease-back cela uno scopo di garanzia.

Il corrente uso fraudolento dello schema negoziale in questione è emerso proprio facendo riferimento agli indici sintomatici dettati dalla Suprema corte i quali hanno evidenziato come il contratto di lease back ,ove posto in essere con intento fraudolento, possa ingenerare una sproporzione tra le due prestazioni oggetto dell’accordo negoziale.

Tuttavia, la detta sproporzione può essere risolta attraverso l’inserimento nel regolamento contrattuale di una c.d. “ clausola di stima”. Difatti, nel ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale in tema di patto commissorio è stato evidenziato che sussistano nella pratica negoziale dei trasferimenti a scopo di garanzia che i giudici hanno salvato dalla scure della nullità di cui all’art. 2744 c.c. ciò in quanto ingenerano dei meccanismi di bilanciamento, legali o convenzionali, del valore del credito garantito e del bene oggetto di garanzia.

Tali pattuizioni sono state ricondotte ,in vario modo, al c.d. patto marciano: si prevedeva espressamente che il creditore insoddisfatto potesse appropriarsi della cosa ricevuta in garanzia purché stimata da un terzo.

In pratica, con il patto marciano, analogamente a quanto avviene con il patto commissorio, il creditore diventa proprietario della cosa ricevuta in garanzia ove il titolare non adempia.

Ciò nonostante, a differenza del patto commissorio, l’acquisto è subordinato alla previa stima del bene da parte di un soggetto terzo successivamente all’inadempimento.

Ne discende che ove sia accertato che il detto bene abbia un maggior valore rispetto all’ammontare del credito inadempiuto il creditore dovrà pagare la differenza.

Invero, la dottrina e la giurisprudenza non hanno mai dubitato della validità della clausola marciana in quanto essa permette di controllare l’equilibrio tra le prestazioni attraverso il previsto obbligo di restituzione dell’eccedenza.

In quest’ottica, è stata riconosciuta la liceità di una serie di ipotesi quali, ad esempio, il pegno irregolare di cui all’art. 1851 c.c. o, ancora, il pegno di crediti di cui all’art.2800 c.c. che ,se valutate astrattamente, ben potrebbero ricadere nell’ambito del divieto di cui all’art. 2744 c.c. in quanto ,di fatto, realizzano il passaggio della proprietà di beni o diritti al creditore in conseguenza dell’inadempimento del debitore.

In realtà, le richiamate fattispecie si sottraggono alla sanzione della nullità proprio in virtù del fatto che sono accompagnate dall’obbligo del creditore di pagare al debitore il tantundem ovvero l’eccedenza ,rispetto al credito garantito, del valore della cosa accertato a seguito dell’inadempimento.

Orbene, con particolare riferimento al contratto di lease back la giurisprudenza ha ritenuto che l’inserimento al suo interno di una clausola marciana sia uno strumento idoneo a scongiurare l’eventuale illiceità dello schema negoziale de quo ove lo stesso abbia come scopo non il leasing bensì una causa di garanzia.

In pratica, la clausola marciana attribuisce ragionevolezza commerciale all’intera operazione con riguardo ad entrambe le parti contrattuali in quanto prevede al termine del rapporto la stima del bene oggetto di garanzia quale presupposto per il consolidarsi dell’effetto traslativo iniziale.

Per cui, ove tale importo risulti maggiore rispetto al credito inadempiuto verrà quantificata la differenza e sarà pagato un prezzo aggiuntivo al debitore quale condizione del consolidamento dell’effetto traslativo.

Di talché, proprio la stima imparziale del bene ad opera di un terzo e l’obbligo da parte del creditore di restituire l’eccedenza al debitore evitano il verificarsi di una situazione di abuso e, di conseguenza, l’operatività del patto commissorio.

Per cui, come osservato da un recente pronunciamento della Suprema corte, l’inserimento della clausola marciana all’interno dello schema contrattuale ha un effetto salvifico in quanto da un lato ristabilisce l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni oggetto del contratto di lease-back e dall’altro impedisce che l’attuazione coattiva del credito avvenga senza alcun controllo dei valori patrimoniali in gioco.

E’ stato, quindi, chiarito che sin dalla conclusione del contratto di lease-back le parti devono prevedere dei meccanismi oggettivi che permettano la verifica di eventuali incongruenze tra il valore del bene oggetto di garanzia e l’ entità del debito.

Sicché, è necessario che risulti già dalla struttura del patto negoziale che le parti abbiano previsto che il debitore perderà, eventualmente, la proprietà del suo bene per un prezzo giusto, determinato al tempo dell’inadempimento, perché il surplus gli sarà certamente restituito.

Orbene, gli elementi caratterizzanti la cautela marciana ( stima del bene da parte di un terzo imparziale, restituzione del tantundem da parte del creditore) sono ravvisabili oltre che nel contratto di lease-back anche in altre fattispecie previste dal legislatore in tema di attuazione del credito e tra queste si annoverano sia le figure sopra esaminate quali, appunto, l’ipotesi del pegno irregolare ( art. 1851 c.c.)e il pegno dei crediti ( art. 2803 c.c.) sia l’ipotesi di recentemente introdotta con la L. n.44/15 riguardante il prestito vitalizio ipotecario a favore di persone fisiche di età superiore agli anni sessanta.

In pratica, secondo quanto rilevato dalla migliore dottrina, la previsione della clausola marciana all’interno degli schemi negoziali di cui sopra da un lato conferma l’agevole accesso al credito da parte degli operatori del mercato ,in quanto offre al creditore una più comoda escussione della garanzia, dall’altro evita che il debitore subisca abusi legati all’eccedenza del valore del bene trasferito in funzione di garanzia rispetto all’ammontare del credito.

Ciò porterebbe a ritenere che il legislatore stia tendendo ad un ridimensionamento del divieto di patto commissorio. In questa direzione si porrebbe anche il d.lg.s n. 170/04 di attuazione della direttiva comunitaria 2002/47/CE con il quale il legislatore italiano ha previsto espressamente che ai contratti di garanzia finanziaria non si applica il divieto di cui all’art. 2744 c.c.. (5)

 

 

 

 


Bibliografia
(1) M. C., DIENER, Il contratto in generale, Giuffrè. ed. 2015
(2) C., NOBILI, Le obbligazioni, Giuffrè. ed. 2019
(3) M., FRATINI, Il Sistema del Diritto Civile, Accademia del Diritto, ed. 2019
(4) P., BONTEMPI, Manuale di Diritto Bancario e Finanziario, Giuffrè, ed 2019
(5) F., CAPRIGLIONE, Manuale di Diritto Bancario e Finanziario, CEDAM, ed 2019

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