Il danno da nascita indesiderata

Il danno da nascita indesiderata

Quando si parla di danno da nascita indesiderata si fa riferimento ad una particolare situazione nella quale il medico, a causa di una errata diagnosi prenatale, non individua delle malformazione del feto, impedendo così alla madre di venire a conoscenza di tutti gli elementi utili per valutare, consapevolmente, se interrompere o meno la gravidanza.

Il diritto dei genitori al risarcimento del danno

Dalla definizione data di danno da nascita indesiderata si può comprendere come l’errore medico vada a ledere il diritto riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico alla madre di interrompere la gravidanza nonché a creare danni patrimoniali e non patrimoniali ai genitori stessi.

La nascita di un bambino affetto da gravi patologie o handicap, infatti, è indubbio che possa provocare nei genitori un danno patrimoniali consistente nelle ulteriori e di certo più gravose spese da sostenere per far fronte alla patologia del figlio.

Tale errore, tuttavia, può arrecare anche ad un danno alla salute psichica dei genitori stessi nonché un peggioramento della qualità della vita, ossia un danno non patrimoniale, derivante dal dover affrontare una situazione di certo difficile e non preventivata.

Tali danni, certamente, in caso di errore medico sono meritevoli di tutela e, pertanto, dovranno essere risarciti.

Al contrario, la difficoltà che si pone in queste situazione è quella di provare il danno arrecato ai genitori, in particolar modo alla madre, per non aver potuto esercitare liberamente il diritto di aborto, la cui prova grava proprio su quest’ultimi.

Più precisamente, in presenza di un danno da nascita indesiderata la madre per dimostrare la lesione del suo diritto di autodeterminazione, ossia alla sua libertà in materia di interruzione della gravidanza, dovrà provare: 1) la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge sull’aborto n. 194/1978 per poter accedere allo stesso ( ricordiamo, infatti, cha tale legge non concede l’esercizio di tale diritto illimitatamente ma, al contrario, lo subordina al ricorrere di specifiche circostanze temporali e fattuali); 2) la volontà di abortire qualora fosse stata correttamente informata sullo stato di salute del feto.

Ebbene, è proprio quest’ultimo punto a rappresentare uno dei più controversi aspetti della fattispecie, in quanto si tratta di provare un ipotetico stato psicologico della madre. Ciò, infatti, determina una naturale difficoltà dimostrativa in quanto si tratterebbe di provare esclusivamente una volizione interiore della gestante.

La giurisprudenza di merito e di legittimità, pertanto, ha ritenuto che in tali casi si debba far ricorso alla prova presuntiva, di cui all’articolo 2729 del codice civile,  e, quindi, ricercare quelle circostanze che possono considerarsi idonee a dimostrare il convincimento della madre, secondo la regolare del “più probabile che non”.

Tra queste circostanze potrebbero aver rilievo ad esempio la scelta di ricorrere ad esami aventi lo scopo di accertare eventuali anomalie del concepito; pregresse manifestazioni di pensiero della gestante; condizioni psicologiche della madre; nonché l’ambiente familiare.

A questo punto è opportuno ricordare che, ai fini della prova, non acquista alcuna importanza il tipo di patologia o malformazione  di cui risulterà affetto il bambino, ossia che la stessa sia più o meno grave.

La Corte di Cassazione, infatti, con la recente sentenza del 31 ottobre 2017, n. 25849, ha avuto modo di specificare come per procedere mediante presunzioni, al fine di dimostrare il danno da nascita indesiderata, non è necessario che ci si trovi di fronte ad una malformazione grave, né tantomeno che la patologia affligga necessariamente le capacità intellettive del nato.

Il diritto del nato al risarcimento del danno

Argomento molto dibattuto in giurisprudenza è rappresentato, invece, dalla possibilità o meno di chiedere il risarcimento del danno da nascita indesiderata anche in nome e per conto del nascituro o del nato.

Tale richiesta si basa, generalmente, sulla condanna ad una vita di sofferenze a cui il bambino è stato destinato a causa dell’errore medico.

Ebbene, seppur in presenza di orientamenti contrapposti, la tesi prevalente nella giurisprudenza di legittimità esclude ogni diritto del nato malformato a pretendere il risarcimento dal momento che risulta inconcepibile un diritto “a non nascere se non sano”.

Il nostro ordinamento, infatti, tutela il concepito e, quindi, l’evoluzione della gravidanza, esclusivamente verso la nascita per cui, se si vuole parlare di un diritto in capo al nato, può parlarsi esclusivamente di un diritto a nascere.

La tutela del concepito trova fondamento in primis nell’articolo 3, comma 2, della nostra Costituzione, il quale impone espressamente la protezione della maternità nonché, in maniera più generale, nell’art. 2 della stessa, il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali non può non collocarsi, seppur con le caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito.

Ebbene, la conseguenza che il nato subirebbe dall’errore diagnostico del medico sarebbe quella di non essere morto a seguito dell’aborto che la madre avrebbe potuto esercitare, qualora fosse stata correttamente informata.

Tuttavia, la morte non rappresenta un bene oggetto di risarcimento nel nostro ordinamento che, al contrario, per quanto detto in precedenza, tutela la vita. Ciò porta all’inevitabile conseguenza che non può parlarsi di danno ingiusto e, quindi, risarcibile, per essere venuto al mondo, seppur malformato.

Tale orientamento giurisprudenziale potrebbe apparire di più facile comprensione evidenziato un ulteriore aspetto, ossia la paradossale situazione a cui porterebbero il diritto “a non nascere se non sano” nei confronti della madre.

Infatti, se tale diritto venisse riconosciuto al nato, ogni qual volta vi sia la previsione di una malformazione o anomalia del feto la gestante, per non ledere questo presunto diritto “a non nascere se non sano”, avrebbe l’obbligo di richiedere l’aborto in quanto, in caso contrario, si esporrebbe ad una responsabilità nei confronti del nascituro una volta nato.

È evidente che tale situazione si pone in contrasto con la stessa legge sull’aborto, la quale tutela un diritto personalissimo della madre, esercitabile solo al ricorrere di specifiche circostante previste dalla legge stessa.

Conclusioni

Riassumendo, quindi, la domanda di risarcimento del danno subito dal nato per il mancato esercizio del diritto di interrompere la gravidanza da parte della madre, a causa dell’errore nella diagnosi prenatale, è infondata, non tutelata dal nostro ordinamento ed, anzi, ad esso contraria.

Viceversa, è legittima la richiesta di risarcimento dei danni patiti dai genitori a causa dell’errore medico.


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Avv. Silvia Latini

Laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Roma "La Sapienza", con tesi in Diritto del lavoro. Avvocato del Foro di Frosinone. Esperta in diritto civile, con particolare riferimento a problematiche inerenti diritto del lavoro, famiglia, successioni, responsabilità medica, risarcimento dei danni alla persona, contratti. Svolge attività di recupero crediti stragiudiziale e giudiziale, compresa la successiva ed eventuale fase di esecuzione forzata, nonché consulenza ed assistenza legale stragiudiziale.

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