Il danno non patrimoniale da inadempimento: un risarcimento a lungo discusso

Il danno non patrimoniale da inadempimento: un risarcimento a lungo discusso

In ambito civile colui che viola una norma codicistica che regola il rapporto tra cittadini è tenuto a risarcire il danno causato alla parte danneggiata. Il danno risarcibile può derivare tanto da un illecito extracontrattuale, quanto da un inadempimento contrattuale, qualora, in questo ultimo caso, l’obbligazione trovi la sua fonte in un accordo tra due o più parti. L’art. 1174 c.c. sancisce il principio in base al quale la prestazione che formi oggetto dell’obbligazione debba essere suscettibile di valutazione economica, nonché corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del debitore. Dalla lettera della norma possiamo, quindi, desumere che il danno possa avere sia natura patrimoniale che non patrimoniale; il primo incide sul patrimonio del soggetto danneggiato, mentre il secondo su un interesse diverso non immediatamente definibile nella sua valutazione economica. La risarcibilità del danno di natura patrimoniale è prevista dall’articolo 2059 c.c., il quale ne sancisce la risarcibilità nei limiti di quanto previsto dalla legge. Tale limitazione ha portato per lunghi anni la dottrina e la giurisprudenza a negare la risarcibilità del danno non patrimoniale in conseguenza all’inadempimento contrattuale. Si sosteneva, infatti, che la stessa collocazione dell’articolo 2059 c.c., nonché lo stretto collegamento tra la suddetta norma e il disposto penale di cui all’art. 185 c.p., ivi richiamato, comprovasse la volontà del legislatore di riconoscere il risarcimento del danno non patrimoniale solo in ambito extracontrattuale.[1] Suddetto danno veniva inteso, invero, come danno morale soggettivo, configurabile nella sofferenza psichica o fisica cagionata alla vittima dal fatto illecito.

In ambito contrattuale si prendeva in considerazione esclusivamente la patrimonialità della lesione subita dal soggetto; non si riteneva possibile evincere dall’inadempimento l’esistenza di un danno alla persona, specie se inteso come lesione dell’integrità psicofisica, oltre a ritenersi lo stesso giuridicamente insussistente, in quanto non richiamato da alcuna norma. Questa soluzione legislativa, seppur coerente con l’impianto del Codice Civile, risultava inadeguata nel caso in cui l’inadempimento contrattuale integrasse di per sè una fattispecie di reato, in quanto, in tali casi, non sarebbe stato possibile ammettere il risarcimento dei danni non patrimoniali, seppur risultando possibile per il soggetto subire danni anche non valutabili economicamente.

Fino all’intervento della Corte di Cassazione nel 2003, la soluzione adottata in caso di compresenza di inadempimento di un’obbligazione e di illecito extracontrattuale, fu la teoria del cumulo delle azioni, la quale consentiva di esperire contemporaneamente sia l’azione contrattuale che quella extracontrattuale usufruendo all’uopo dei vantaggi dell’una e dell’altra, sia in punto di prescrizione che di onere della prova.  Il sistema del cumulo delle azioni rimase in vigore e si adeguò anche alla successiva nascita, ad opera della pronuncia della C.Cost n. 184/1986,  di un tertium genus, il cosiddetto danno biologico, risarcibile qualora risultasse leso il diritto costituzionale alla salute dell’individuo riconosciuto dall’articolo 32 Costituzione, indipendentemente dall’esistenza o meno di un reato. La Corte con la sentenza sopracitata sottolineò l’importanza di distinguere tra danno conseguenza, necessariamente di natura strettamente patrimoniale e danno evento di possibile natura anche non patrimoniale e risarcibile a prescindere dalle conseguenze economiche immediatamente subite dal danneggiato. Si affermò così che il danno biologico costituirebbe danno evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale soggettivo e il danno patrimoniale apparterrebbero al danno conseguenza, in quanto patrimonialmente rilevanti.[2] Il danno all’integrità psicofisica si ritenne, quindi, risarcibile al di fuori delle ipotesi di danno morale soggettivo, in virtù del combinato disposto dell’art. 2043 c.c. con l’art 32 Cost. Questa ricostruzione cominciò ad entrare in crisi quando la lettura restrittiva dell’articolo 2059 c.c. non resse più alle esigenze di risarcire i danni non patrimoniali anche nei casi di lesione di diritti costituzionalmente rilevanti diversi dal diritto alla salute.

La Corte di Cassazione nel 2003, per sopperire alle problematiche sopra evidenziate, intervenì con due sentenze gemelle, e adottò una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo sopracitato, ritenendo che il danno non patrimoniale dovesse essere inteso, in senso estensivo, quale danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati solo da rilevanza economica.

Ad integrazione di queste pronunce intervenne lo stesso anno anche la Corte Costituzionale sottolineando l’uguaglianza tra la struttura del danno patrimoniale, ex art. 2043 c.c., e il danno non patrimoniale: entrambi sono caratterizzati infatti dalla presenza di un fatto illecito, un danno ingiusto e un nesso causale, inteso quale danno conseguenza immediata e diretta dell’illecito secondo i principi causalistici della causalità giuridica (artt. 1227 c.2 e 1223) e materiale (art. 1227 c.1). Ancorare la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai danni evento, come sostenuto fino a quel momento, avrebbe significato dare alla responsabilità civile una connotazione sanzionatoria al pari di quanto previsto in ambito penale. Si ricorda, invero, che la funzione della responsabilità civile deve sempre tendere a compensare il danneggiato della lesione subita senza sfociare in una punizione sanzionatoria/ afflittiva per l’autore dell’illecito.

A seguito di tali pronunce il danno non patrimoniale fu tripartito in danno morale soggettivo, danno biologico in senso stretto e danno esistenziale, inteso quale lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. Siffatta tripartizione fu successivamente superata dalle sentenze gemelle di San Martino del 2008 con le quali la Suprema Corte di Cassazione riunificò tutte le voce di danno non patrimoniale sorte fino ad allora, specificando che le stesse debbano essere considerate valenze meramente descrittive, utili ai fini della quantificazione e liquidazione del danno. Il sistema risarcitorio rimane comunque “bipolare”, a parere della Corte, ricomprendendo solo le due categorie originarie di danno patrimoniale e danno non patrimoniale. L’interpretazione costituzionalmente orientata impone, quindi, di non distinguere a seconda che il danno derivi da illecito civile o da inadempimento contrattuale, in quanto il risarcimento non può essere impedito in base alla fonte di responsabilità dalla quale scaturisce.

Il danno non patrimoniale si ritiene ora risarcibile in ambito contrattuale, ma solo nei casi in cui l’inadempimento del debitore determini una lesione da parte del creditore di diritti inviolabili della persona, cagionando così pregiudizi di natura non patrimoniale. Interessi di siffatta natura possono, infatti, assumere rilevanza anche in ambito contrattuale dovendo la prestazione, ai sensi dell’articolo 1174 cc, corrisponde ad un interesse anche non patrimoniale del debitore. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi dei cosiddetti contratti di protezione, ossia i contratti conclusi nel settore sanitario o a quelli che intercorrono tra gli allievi e l’istituto scolastico.

Con la soluzione adottata dalla Cassazione nel 2003 e ribadita successivamente con nel 2008, si ritiene ora che l’articolo 1218 c.c. non possa ritenersi riferibile solo al danno patrimoniale, ma debba comprendere anche il danno non patrimoniale senza che sia necessario il richiamo ai fatti illeciti. Tuttavia, mentre in caso di responsabilità extracontrattuale la lesione dei diritti inviolabili è sempre risarcibile, in caso di responsabilità contrattuale devono sussistere dei presupposti per il loro risarcimento, allo scopo di scongiurare il rischio del risarcimento di danni c.d. bagatellari. In primo luogo il pregiudizio di natura non patrimoniale sarà risarcibile soltanto se prevedibile nel tempo in cui è sorta l’obbligazione, ai sensi dell’articolo 1225 c.c., norma non richiamata dall’articolo 2056 c.c. e quindi non applicabile in ambito di responsabilità extracontrattuale. Il secondo requisito riguarda la lettura costituzionalmente orientata anche dell’art. 1223 c.c. che richiama il danno emergente e il lucro cessante; anche in questo caso il risarcimento per essere meritevole di tutela deve presupporre la lesione di un diritto costituzionalmente inviolabile. Al di fuori di tali limiti il danno non patrimoniale da inadempimento si ritiene giuridicamente irrilevante.

Concludendo si può sostenere che tale danno vada risarcito almeno in tre casi quando si è ravvisabile un reato, quando l’inadempimento ha violato un diritto costituzionalmente garantito ed infine, ove il contratto, o contatto sociale, sia finalizzato la protezione di un diritto o interesse non patrimoniale ai sensi dell’articolo 1176 c.c.


[1] Ai sensi dell’art. 185 c.2, infatti, “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili devono rispondere per il fatto di lui”.

[2] “Nuovo corso di diritto civile” Rocco Galli


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