Il delitto di inquinamento ambientale approda in cassazione

Il delitto di inquinamento ambientale approda in cassazione

Con la legge n. 68 del 22 maggio 2015, il legislatore ha introdotto, nel Libro II del codice penale, un nuovo Titolo VI bis dedicato ai “delitti contro l’ambiente”. Si tratta di un intervento normativo da lungo atteso, il quale prevede un’adeguata risposta punitiva alle forme più pericolose di aggressione all’ambiente. Invero, prima dell’emanazione della novella legislativa, la protezione dell’ambiente era affidata ad una serie di norme incriminatrici collocate nel Testo Unico dell’Ambiente, che prevedevano reati di pericolo astratto di natura contravvenzionale, incentrati sul superamento dei cosiddetti “valori soglia” oppure sul mancato rispetto delle procedure amministrative. Tale modello contravvenzionale è apparso inadeguato a fronteggiare i più gravi eventi di inquinamento all’ambiente produttivi di un danno o di un pericolo permanente per intere aree geografiche.

L’assenza nell’ordito normativo di una norma incriminatrice, che prevedesse e punisse le forme più gravi di aggressione all’ambiente, ha determinato una lacuna legislativa colmata in via pretoria. Infatti, la giurisprudenza, cercando di porre rimedio all’inerzia del legislatore di fronte alle istanze di tutela provenienti dalla collettività per i più gravi fenomeni di inquinamento ambientale e di devastazione dell’ecosistema,  ha sussunto i casi macroscopici di disastro ambientale nell’art. 434 c.p., ed in particolare, nella sua seconda parte, che incrimina, accanto al crollo di costruzioni, anche il disastro innominato. La giurisprudenza ha effettuato tale operazione ermeneutica, sfruttando la laconicità delle espressioni adoperate nell’art. 434 c.p., facendo rientrare nel concetto di disastro, non solo quegli eventi catastrofici violenti e istantanei, ma anche quelli non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco temporale anche molto prolungato e che determinano una lesione della pubblica incolumità.

Tale soluzione è stata criticata dalla dottrina maggioritaria, la quale ha sostenuto che il disastro ambientale non presenta le caratteristiche del disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., puntualizzate dalla Corte costituzionale nella sentenza 327 del 2008.

 In tale occasione, i giudici costituzionali  hanno precisato che con  “altro disastro” si intende un accadimento distruttivo di proporzioni straordinarie anche se non necessariamente immani, che provoca un pericolo per la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che sia richiesta l’effettiva  verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti.

La spinta decisiva verso la previsione di plurime figure delittuose, volte a punire quelle condotte offensive più gravi all’ambiente, è avvenuta a pochi mesi dalla fine del processo Eternit, al fine di dare una risposta alle  ampie polemiche sollevate dall’opinione pubblica, in quanto esso si è concluso con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato di disastro innominato previsto dall’art. 434, comma 2 c.p., a causa della mancanza di una norma ad hoc, che punisse il disastro ambientale.

Inoltre, si è ritenuto necessario introdurre tali  nuovi reati ambientali,  per adeguare il nostro ordinamento ai contenuti della Direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente.

La riforma si apre con   il reato di inquinamento ambientale contenuto nell’art. 452- bis c.p., che si colloca in una posizione intermedia tra le contravvenzioni,  previste nel Testo Unico 152 del 2006, e il delitto di cui all’art. 452- quater c.p. , che punisce il disastro ambientale.

Tale fattispecie presenta delle caratteristiche completamente diverse rispetto al modello di incriminazione delineato nel Testo Unico. Difatti, si tratta di un delitto di evento, in cui vengono punite le condotte causative di un  pregiudizio per l’ambiente, cui consegue un danno al bene giuridico tutelato.

Nonostante gli sforzi del legislatore di  tipizzare in maniera precisa il reato in esame, non  mancano problemi interpretativi rispetto ad ognuno dei suoi elementi costitutivi.

Una prima perplessità concerne il significato da attribuire alla clausola rappresentata dall’avverbio “abusivamente”, che il legislatore ha inserito per qualificare la condotta di inquinamento penalmente rilevante.

Secondo la dottrina prevalente, il legislatore non incrimina qualsiasi inquinamento, ma solo quello che fuoriesce dall’ambito del rischio consentito ovvero dal rispetto delle norme di legge e delle pertinenti prescrizioni.

Sotto il profilo strutturale, tale clausola di illiceità ha dato luogo ad interpretazioni contrapposte.

Un primo orientamento ritiene che essa vada annoverata fra le clausole di illiceità speciale, diversamente, altra parte della dottrina riconduce tale avverbio nella clausola di antigiuridicità espressa.

Per di più, la norma precisa che le condotte abusive devono aver cagionato una ” compromissione” o un “deterioramento” delle matrici ambientali. Anche tali espressioni pongono dei problemi interpretativi, in quanto nè le leggi penali nè altre fonti normative definiscono tali concetti. Ne deriva che gli operatori del diritto devono  rifarsi al linguaggio comune per la loro comprensione; mentre il termine “compromissione” significa mettere  in pericolo, differentemente, quello di “deterioramento” allude al danneggiare. Ne consegue che il legislatore sanziona con la stessa pena colui che pone in pericolo e colui che danneggia il bene giuridico ambiente.

Nondimeno, la norma punisce la compromissione o il deterioramento a condizione che siano “significativi” e “misurabili”, ciò significa che la risposta punitiva interviene solo qualora il danneggiamento abbia superato una certa soglia di gravità. In sostanza, si tratta di concetti abbastanza vaghi, i quali  possono essere definiti soltanto tenendo conto della collocazione della norma in un sistema graduato di tutela dell’ambiente.

Quanto all’oggetto materiale del reato, la “compromissione” o il “deterioramento” possono riguardare sia una sola matrice ambientale che un ecosistema nel suo complesso o la biodiversità anche agraria della flora o della fauna.

Infine, con riguardo all’elemento soggettivo, la norma configura un reato a dolo generico.

Recentemente, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 46170 del 2016 ha fornito un importante contributo sull’interpretazione da assegnare agli elementi presenti nel delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452- bis c.p.

Al fine di comprendere le statuizioni della Suprema Corte, giova, soffermarsi sui fatti da cui origina la decisione in commento.

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione riguardava la bonifica dei fondali di due moli del golfo di La Spezia, ove, secondo l’accusa, la ditta incaricata aveva violato le prescrizioni progettuali, le quali prevedevano particolari accorgimenti per limitare l’intorbidamento delle acque: si trattava della predisposizione di un sistema di panne galleggianti ancorate al fondo. Invece, in numerosi sopralluoghi si riscontrava un sistema inefficiente, che determinava uno sversamento nelle acque di una considerevole quantità di fango, provocando livelli di torbidità estremamente elevati e superiori al consentito.

La Procura ed il G.I.P. del Tribunale di La Spezia ritenevano sussistente, in capo alla ditta, il reato previsto nell’art. 452- bis c.p., e procedevano al sequestro preventivo del cantiere e di una porzione di fondale.

La ditta proponeva riesame avverso il sequestro al Tribunale del Riesame, il quale lo accoglieva ed annullava il sequestro, non ritenendo sussistente il deterioramento significativo e misurabile delle acque. Nello specifico, secondo i giudici del Tribunale di La Spezia, non sussisteva l’intorbidamento delle acque, poichè per connotarsi la compromissione o il deterioramento è necessario che si verifichi la tendenziale irreversibilità del danno, insussistente nel caso di specie.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di La Spezia, deducendo la violazione dell’art. 321 c.p.p. in relazione all’art. 452 –bis c.p., e osservando che il Tribunale del Riesame, nelle valutazioni effettuate, aveva travalicato l’ambito della cognizione attribuitagli dalla legge, sconfinando in un pieno giudizio di merito; che le stesse valutazioni erano in contrasto con quanto stabilito dall’art. 452- bis c.p.; ed infine, che i giudici, sulla base di quanto accertato, potevano qualificare diversamente i fatti come delitto tentato o come contravvenzione, in relazione all’art. 674 c.p.

La pronuncia in commento annulla l’ordinanza del Tribunale del Riesame con rinvio per un nuovo esame, ritenendo non corretta l’interpretazione dell’evento di deterioramento come danno tendenzialmente irreversibile.

Sotto il profilo processuale, la Suprema Corte ritiene che i giudici del riesame non hanno travalicato l’ambito di cognizione loro attribuito per legge, sconfinando in un giudizio di merito, essendosi limitati a rilevare, sulla base dei dati disponibili e sotto il profilo del fumus del reato, l’assenza di una compromissione o di un deterioramento consistente e qualificabile, facendo buon uso di quei principi espressi in un consolidato orientamento giurisprudenziale, il quale sostiene che la valutazione della sussistenza del fumus commissi delicti, demandata al giudice del riesame va effettuata mediante una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, esaminando non solo le allegazioni probatorie del Pubblico Ministero, ma anche le confutazioni e gli altri elementi offerti dalla difesa degli indagati.

Nel merito della questione, la sentenza si è soffermata sul requisito dell’abusività della condotta ritenuto sussistente nel caso di specie, in quanto l’attività vaniva effettuata violando le prescrizioni imposte dal progetto di bonifica. A tal fine, i giudici hanno sposato quella tesi giurisprudenziale, che con riferimento all’analogo requisito richiesto per l’integrazione del delitto di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” (art. 260, D Lgs. 152/2006) ritiene che “sussiste il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti -idoneo ad integrare il delitto- qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni,  il che si verifica non solo allorchè tali autorizzazioni manchino del tutto (cosiddetta attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati”. Tuttavia, gli Ermellini  non si sono  limitati a rammentare il citato orientamento giurisprudenziale, ma sono andati ben oltre. Infatti, consapevoli  che l’avverbio “abusivamente”, contenuto nell’art. 452- bis c.p., aveva dato luogo ad un acceso dibattito dottrinale, hanno  sostenuto che con l’espressione in esame si intende il contrasto con qualsiasi norma di legge (statale o regionale) o prescrizione amministrativa contenuta non solo in leggi ambientali, ma anche in settori diversi (igiene e sicurezza sul lavoro, paesaggio ecc).

Poi, l’attenzione dell’organo nomofilattico si è spostata sull’individuazione del bene ambientale, sul quale si riverberano le conseguenze della condotta. Per quanto concerne le acque in genere, così come l’aria, la norma non prevede alcun riferimento quantitativo o dimensionale, diversamente, avviene rispetto al suolo ed al  sottosuolo, ove è contemplato che la compromissione o il deterioramento devono interessare “porzioni estese o significative”. 

Pur tuttavia, la questione più rilevante affrontata dalla sentenza è quella relativa all’individuazione del significato da attribuire ai termini “compromissione” e “deterioramento”. Il legislatore ha indicato i due termini con la congiunzione disgiuntiva “o”, ciò vuol dire che le due condotte, pur essendo alternative fra loro, indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti, in quanto entrambi determinano un’alterazione dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema. In particolare, per compromissione si intende una condizione di “squilibrio funzionale”, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema, invece, il deterioramento consiste un uno “squilibrio strutturale”, caratterizzato da un decadimento di qualità delle matrici ambientali. Secondo la Corte di Cassazione, contrariamente  da quanto sostenuto dal Tribunale di La Spezia, non assume rilievo l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale.

Inoltre, il legislatore ha delimitato l’ambito di operatività della norma, precisando che la compromissione o il deterioramento devono essere comunque “significativi” e “misurabili”.

Il termine “significativo” denota incisività e rilevanza, mentre, “misurabile” significa quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile. Ne consegue che i due aggettivi delimitano la condotta penalmente rilevante, escludendo i fatti di minore rilievo.

In definitiva, la  Corte di Cassazione sostiene che il delitto di inquinamento ambientale si configura quando sia stata posta in essere un’attività rilevante di compromissione o di deterioramento ambientale anche se reversibile e non tendenzialmente irrimediabile, ma, comunque quantitativamente apprezzabile e concretamente accertabile.


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