Il difetto di giurisdizione tra abuso del processo e principio della soccombenza

Il difetto di giurisdizione tra abuso del processo e principio della soccombenza

Nell’ambito dell’abuso del diritto e dovere di buona fede assume rilievo il venire contra factum proprium.

Sul punto, si è posto il seguente quesito, vale a dire se la parte attrice, soccombente nel merito, possa impugnare la sentenza contestando la giurisdizione del giudice da essa stessa adito.

Le Sezioni Unite con la sentenza del 20 ottobre 2016 n. 21260 definiscono i limiti delle parti in ordine alla proponibilità del difetto di giurisdizione.

In particolare, il principio di diritto affermato è il seguente: “l’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto”.

Il dato normativo di partenza è l’articolo 37 c.p.c. che stabilisce che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo. In realtà, questa norma è stata oggetto di una rilevante opera ermeneutica della giurisprudenza di legittimità che ha coniugato questa modalità di emersione della questione giurisdizionale con il principio della ragionevole durata del processo, a mente del quale si vuole evitare il prolungamento dei tempi della definizione del giudizio per ragioni puramente utilitaristiche.

Più nello specifico, la Corte di Cassazione ha affermato che il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione è garantito nel primo grado di giudizio, mentre nel secondo grado la questione pregiudiziale di rito de qua rientra nel thema decidendum solo se oggetto di una specifica doglianza (in coerenza del principio tantum devolutum quantum appellatum). Infatti, quando il giudice di primo grado decide nel merito la controversia riconosce la propria giurisdizione – con una statuizione implicita – che se non viene dedotta con uno specifico motivo di gravame è suscettibile di passare in giudicato.

Tale orientamento, ormai consolidato, è stato recepito dal legislatore nell’ambito del processo amministrativo all’art. 9 c.p.a a mente del quale “Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione”.

In definitiva, dal quadro normativo ed ermeneutico delineato emerge che il potere del giudice di rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione è garantito nel primo grado di giudizio e viene meno con l’emanazione della sentenza di merito in primo grado ove il giudice riconosce, seppur in via implicita, la propria giurisdizione. In grado di appello, invece, occorre uno specifico motivo di gravame che contesti il difetto di giurisdizione.

Prima dell’intervento a Sez. Un. n. 21260 del 2016 la giurisprudenza era ondivaga. In particolare, le Sezioni Unite 28 maggio 2014, n. 11916 affermavano che l’appello proposto, per motivi di giurisdizione, dall’attore soccombente nel merito non è causa di inammissibilità del gravame, salvo avere riflessi in ordine al regolamento delle spese in giudizio. La giurisprudenza configurava un’ipotesi di abuso del processo distinguendo la sua sussistenza in astratto e in concreto. Ad esempio, aveva affermato che il cambiamento della linea difensiva sulla giurisdizione se in astratto costituisce un abuso del processo, in concreto lo si esclude nei limiti in cui sia una scelta ponderata ovvero sia frutto di un overruling processuale della giurisprudenza di legittimità, che nei casi in cui realizza un vulnus al diritto di difesa e si innesta su un precedente orientamento consolidato produce effetti solo ex nunc.

Con  la sentenza in commento si introducono delle linee ermeneutiche che consentono di risolvere la questione delineata.

La Cassazione richiama ed applica il principio della soccombenza.

L’attore che risulta soccombente nel merito in primo grado non è legittimato ad interporre appello per contestare la giurisdizione del giudice da lui adito.

Il decisum individua tre passaggi logici: 1) L’attore che fa valere in giudizio una pretesa riconosce in capo al giudice a cui propone la domanda di giustizia la giurisdizione; 2) La giurisdizione è presupposto processuale che attiene a questioni di rito prodromiche è autonome rispetto a quelle sul merito; 3) L’attore che risulta soccombente nel merito non lo è per il capo relativo alla giurisdizione, in quanto, il giudice nel decidere la lite nel merito, ha riconosciuto la propria giurisdizione, diversamente avrebbe reso una sentenza di improcedibilità per difetto di giurisdizione.

In conclusione, l’appello dell’attore soccombente nel merito non sarebbe ammissibile non tanto perché si configura un’ipotesi di abuso del processo, ma perché viola il principio della soccombenza. Le Sez. Un. affermano che la sentenza potrebbe essere impugnata – per motivi di giurisdizione – dal convenuto (rispetto al quale è configurabile la soccombenza sempre che a sua volta non abbia chiesto al giudice di dichiararsi munito di giurisdizione).

Sul punto, occorre fornire delle precisazioni.

Il convenuto, ove l’attore risulti soccombente nel merito in primo grado non ha interesse a promuovere appello per un mero difetto di giurisdizione. Infatti, il convenuto è il vincitore pratico della causa, e non ha interesse a impugnare per primo sul capo della giurisdizione, perché il passaggio in giudicato della statuizione di rigetto gli assicura una utilità maggiore di quella che potrebbe ottenere dalla declinatoria di giurisdizione. Ciò non toglie che ha, tuttavia, interesse ad impugnare dopo e per effetto della impugnazione principale sul merito da parte del soccombente pratico e così in via incidentale per il caso di suo accoglimento. In altri  termini, solo ove l’attore proponga appello per motivi di merito, può rilevarsi l’interesse del convenuto a proporre un appello incidentale condizionato all’accoglimento della pretesa principale dell’attore, vuoi per motivi di merito che di giurisdizione.

Il problema dell’individuazione del giudice munito di giurisdizione è estremamente complesso, non a caso il legislatore si è preoccupato di fornire degli strumenti di tutela in via preventiva e successiva, che sono volti a garantire il diritto di difesa e la conservazione del materiale probatorio raccolto.

Se in via successiva opera la translatio iudicii di cui all’art.59 della legge 18 giugno 2009, n. 69[1]. In via preventiva opera il regolamento di giurisdizione di cui all’articolo 41 c.p.c., fino a quando la causa non sia decisa nel merito di primo grado.

In conclusione, l’attore può sempre sciogliere, in via preventiva, ogni dubbio in ordine alla questione di giurisdizione, ai sensi dell’articolo 41 c.p.c..

Quanto appena delineato trova ulteriore conferma con l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 28 luglio 2017, n.4 che decide sulla legittimazione a sollevare in appello l’eccezione di difetto di giurisdizione per la parte che in primo grado è stata vittoriosa sul relativo capo di domanda (“La parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo”)

In particolare, richiama l’orientamento consolidato delle sezioni semplici e il principio affermato dalle Sezioni Unite 2016 secondo il quale l’appello può essere proposto solo dalla parte soccombente in quanto la soccombenza “del potere di impugnativa rappresenta l’antecedente necessario”.

Nel caso portato all’attenzione dell’Adunanza Plenaria nel corso del primo grado del giudizio nessuna delle parti in causa contestava la giurisdizione del giudice amministrativo. L’aggiudicataria notificava un ricorso incidentale con il quale contestava l’illegittima ammissione in gara della ricorrente principale. Il Tar Sicilia giudicava il ricorso  infondato e tale circostanza esonerava il Collegio dall’esame del ricorso incidentale, nonché delle ulteriori eccezioni di rito formulate dall’aggiudicataria. Si sottolinei che con  il ricorso incidentale l’aggiudicataria riconosceva implicitamente la giurisdizione del Tar.

Conclusosi il giudizio di prime cure con il rigetto della domanda, la ricorrente proponeva appello nel merito, mentre l’aggiudicataria proponeva appello incidentale, contestando, per la prima volta, la giurisdizione del giudice amministrativo. Sul punto, l’Ad. Pl. rileva che l’aggiudicataria, nel caso specifico affrontato, non sia legittimata a proporre censure avverso la sentenza di primo grado, non avendo una posizione sostanziale da difendere. In altri termini, la parte non risulta soccomebente né nel merito, in quanto aggiudicataria si è vista vincitrice della procedura ad evidenza pubblica che è stata confermata nel giudizio di prime cure (con il rigetto del ricorso della ricorrente), nè su questioni di rito e quindi sulla giurisdizione.

A completamento del percorso ermeneutico delineato si segnala, infine, la sentenza a Sezioni Unite del 2 marzo 2017, n. 5304 sul conflitto negativo di giurisdizione ex art. 59 D. Lgs. 69/09 avendo riguardo al rilievo d’ufficio del giudice e relativi limiti temporali. L’ambito di operatività dell’istituto presuppone l’attivazione della translatio e quindi la sentenza declinatoria e successiva riassunzione del giudizio innanzi il giudice ritenuto munito di giurisdizione, il quale può a sua volta sollevare un conflitto. La ratio dell’istituto è quella di evitare un inutile dispendio di risorse processuali, infatti, già in primo grado si può ottenere una pronuncia da parte della Corte di Cassazione a Sez. Un. sulla giurisdizione.

Le sezioni unite ribadiscono nella sentenza de qua quanto già affermato, vale a dire che il limite temporale per sollevare il conflitto negativo di giurisdizione è indicato alla legge 69 del 2009, art. 59, comma 3, (applicabile anche ai giudizi instaurati anteriormente all’entrata in vigore della citata legge). In particolare, la barriera temporale stabilita dal legislatore è la prima udienza fissata per la trattazione del merito. Sul punto, il limite temporale non può essere abbattuto da una richiesta degli appellanti, che non possono modulare i confini del potere ufficioso del giudice (confronta Cass., Sez.Un. 19/05/2014, n. 109229).

“Ai fini della relativa ammissibilità, il conflitto non deve essere pertanto sollevato successivamente alla soglia costituita dal “primo contatto” tra il giudice e le parti, che ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a. si ha al momento della “prima udienza”, tale riferimento dovendo essere inteso nel senso che il limite temporale oltre cui quel giudice non può sollevare il conflitto suddetto è costituito dall’udienza di discussione, che, fissata ai sensi dell’art. 71 c.p.a., dà luogo alla reale trattazione e decisione della causa (confronta Cass., Sez. Un., 13/12/2016 n. 25515)”. 

In definitiva, in tema di regolamento di giurisdizione, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, il giudice adito non può investire direttamente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione della risoluzione di una questione di giurisdizione, ma è tenuto a statuire sulla stessa ai sensi dell’art. 37 cod. proc. civ., giacché, ai sensi del citato art. 59, il regolamento di giurisdizione d’ufficio può essere sollevato solo dal giudice successivamente investito mediante “translatio iudicii“, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, sempre che le Sezioni Unite non si siano già pronunciate sulla questione di giurisdizione (Cass. Civ., Sez. Un., n.5493 del 10/03/2014).


[1] In breve, l’istituto della translatio iudicii, costituisce un meccanismo idoneo a trasferire il giudizio dinnanzi al giudice ritenuto munito di giurisdizione, attraverso il binomio sentenza declinatoria-riassunzione di parte, mantenendo salvi gli effetti processuali e sostanziali delle domande, ferme restando eventuali preclusioni maturate. In sostanza il giudice ad quem, dinnanzi al quale avviene la riassunzione, eredita un giudizio nel medesimo stato in cui è stato abbandonato dal precedente giudice, in coerenza ai principi di celerità ed economia processuale. Lo stesso istituto è stato previsto anche nel processo amministrativo all’art.11.


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Giulia Puglia

Nata nel 1988, si è laureata nell'anno accademico 2011/2012 presso l’Università degli Studi di Torino discutendo con il Prof. Paolo Ferrua una tesi in diritto processuale penale dal titolo “La nuova disciplina dei collaboratori di giustizia e la fase esecutiva", conseguendo la votazione di 110 e lode. Nel biennio 2014-2015 ha frequentato la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, con pregresso tirocinio di sei mesi presso il Tribunale ordinario di Torino e successivo svolgimento della pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. Conseguito il titolo per l'esercizio della professione forense nel settembre 2016

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