Il diritto ad un’assistenza linguistica adeguata e di qualità nel procedimento penale. Il caso Amanda Knox  c. Italia

Il diritto ad un’assistenza linguistica adeguata e di qualità nel procedimento penale. Il caso Amanda Knox c. Italia

Sommario: 1. Considerazioni – 2. In breve: la vicenda processuale interna – 3. La condanna dell’Italia al risarcimento dei danni morali patiti da Amanda Knox – 4. Il vulnus nella Direttiva 2010/64/UE – 5. Osservazioni conclusive

1. Considerazioni

Una vicenda balzata agli onori della cronaca e rimastaci per molti anni quella del procedimento a carico dell’americana Amanda Knox e del suo fidanzato Raffaele Sollecito, accusati di aver ucciso una studentessa inglese che si trovava a Perugia in Erasmus, Meredith Kercher.

Una vicenda processuale che ha destato non poco scalpore per diversi motivi. Basti ricordare le proteste che fecero seguito alla sentenza di assoluzione della Corte d’Assise d’Appello di Perugia, che ribaltava completamente la decisione di primo grado.

Basti pensare alle parole del Presidente della Corte d’Assise d’Appello, rilasciate ai giornalisti solo qualche giorno dopo la lettura della sentenza di assoluzione.

“La nostra pronuncia di assoluzione è il risultato della verità che si è formata nel processo. Ma la verità reale può essere diversa, loro possono essere colpevoli ma non ci sono le prove”[1].

Gli operatori della giustizia ben sanno che la verità processuale può, malauguratamente, non coincidere con la verità propriamente detta, ma alle persone che con gli ingranaggi della Giustizia poco o niente hanno avuto a che fare, il suono di quelle parole non deve essere affatto risultato piacevole.

Non deve essere risultato certamente piacevole a chi a Meredith voleva bene.

La vicenda non si è conclusa con l’assoluzione in Cassazione. Non solo. C’è stato un seguito che ha visto la condanna dell’Italia al risarcimento dei danni patiti dalla Knox. C’è stato un seguito in cui è stata svelata, ancora una volta, l’incapacità dello Sato italiano nel districare la matassa di norme sovrannazionali.

2. In breve: la vicenda processuale interna

Correva l’anno 2009 quando Amanda Knox e Raffaele Sollecito venivano condannati dalla Corte d’Assise di Perugia per il reato di omicidio (ed altri) in danno di Meredith Kercher.

Due anni più tardi (2011), la Corte d’Assise d’Appello di Perugia, di contro, assolveva i due imputati da tutti i reati loro ascritti.

E ancora, dopo altri due anni, nel 2013, la Cassazione annullava la sentenza d’Appello per incompletezza, contraddittorietà, illogicità nonché ambiguità degli elementi probatori e rinviava alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze per un nuovo giudizio. Avrebbe fatto seguito la condanna nell’Appello-bis sia per concorso nei reati di violenza sessuale e omicidio,  sia per il delitto di calunnia per la sola Amanda Knox per aver, durante l’audizione del 6 Novembre 2007, accusato dell’omicidio della coinquilina inglese il Sig. Patrick Lumumba – risultato, poi, essere totalmente estraneo ai fatti.

Infine, nel 2015, l’assoluzione in Cassazione perché il fatto non sussiste.

Per gli Ermellini “ l’insieme intrinsecamente contraddittorio del compendio probatorio, la cui oggettiva perplessità è enfatizzata dal già evidenziato andamento ondivago della vicenda processuale, non consente allora di ritenere superato lo standard della ragionevolezza del dubbio […]. I termini della oggettiva contraddittorietà possono,…, puntualizzarsi per ciascun ricorrente, in una sinottica prospettazione di elementi favorevoli all’ipotesi della colpevolezza e di elementi di segno contrario…”.

Se per Raffaele Sollecito la succitata sentenza avrebbe rappresentato la fine della vicenda processuale che lo aveva  interessato, per Amanda Knox nuovi scenari si sarebbero aperti.

Ed infatti, assolta in Cassazione per i più gravi reati di violenza sessuale e omicidio, rimaneva in auge la condanna alla pena di anni tre per il delitto di calunnia, sentenza ormai passata in giudicato.

3. La condanna dell’Italia al risarcimento dei danni morali patiti da Amanda Knox

Nel 2019 la Corte di Strasburgo, adita dalla ricorrente Amanda Knox, condannava l’Italia al risarcimento dei danni morali oltre al rimborso delle spese legali sostenute dalla stessa, per un totale di euro 18.000,00 circa.

Nel ricorso la ricorrente lamentava una serie di violazioni della Carta dei Diritti fondamentali dell’Uomo.

In primis, di aver subito maltrattamenti durante gli interrogatori –  di aver ricevuto scappellotti sulla testa, di essere stata trattata con aggressività e disprezzo, minacciata di detenzione, privata del sonno per molte ore.

Quel trattamento disumano e degradante (più volte sarebbe stata appellata come “stupida bugiarda”), lo stato confusionale e la pressione psicologica, l’avevano indotta, nella notte del 6 novembre 2007, a fare il nome di Lumumba.

Questo è quanto la Knox aveva già precedentemente riferito alla polizia con dichiarazione scritta resa in un momento successivo all’audizione del 6 novembre. Dichiarazione che, tuttavia, non le aveva evitato la  condanna per il reato di calunnia.

Ed ancora, Amanda Knox lamentava di essere stata arbitrariamente privata dell’assistenza legale durante gli interrogatori e, più in generale di non essere stata informata dei suoi diritti.

Altra doglianza riguardava l’assistenza linguistica: la Knox affermava di essere stata privata di una assistenza linguistica tale  da garantirle tutti quei diritti strettamente correlati al diritto all’equo procedimento.

Con riferimento ai presunti maltrattamenti, la Corte di Strasburgo rilevava una violazione dell’art. 3 CEDU sotto il profilo procedurale perché le autorità italiane avrebbero dovuto dar seguito alla richiesta di trasmissione degli atti alla procura formulata all’epoca dalla difesa dell’imputata, con l’apertura di un’indagine che chiarisse i fatti e le eventuali responsabilità. Sotto il profilo materiale, per la Corte di Strasburgo non sussistevano prove sufficienti che la Knox fosse stata sottoposta al trattamento disumano e degradante da lei descritto.

A mero scopo narrativo, si ricorda che un procedimento per calunnia in realtà fu avviato: un procedimento che vedeva imputata, però, proprio Amanda Knox per aver  incolpato di maltrattamenti gli agenti di polizia che l’avevano interrogata il 6 novembre 2007 . Si concluse con l’assoluzione della Knox.

Con riguardo alle altre doglianze, la Corte accertava la violazione dell’art. 6 CEDU.

Venendo al punto, per sua stessa ammissione, l’interprete ( rectius una dipendente del commissariato che fungeva da interprete) aveva cercato di tessere un rapporto umano con la ragazza, raccontandole aneddoti della sua vita privata, in particolare di un incidente di cui era rimasta vittima e a seguito del quale aveva riportato una frattura della gamba e  un vuoto di memoria dovuto al trauma.

Nella convinzione che il suo lavoro non consistesse nella semplice traduzione delle dichiarazioni rese ma anche nell’instaurare un rapporto con il suo interlocutore, al fine di sollecitarlo a ricordare, l’interprete aveva svolto anche un ruolo di “mediatrice”, tenendo un comportamento assolutamente inappropriato alle circostanze.

Le autorità italiane avrebbero dovuto valutare e accertare che l’attività svolta dall’interprete fosse idonea a garantire tutti quei diritti connessi all’equità del procedimento penale.

Se “proteggere diritti non teorici e illusori, ma concreti ed effettivi” è lo scopo proprio della CEDU[2], la difficoltà non è tanto il riconoscimento del diritto all’interprete in sé, quanto, piuttosto, garantire l’adeguatezza degli strumenti apprestati per rendere quel diritto effettivo.

Per la Corte Europea dei diritti dell’uomo l’omessa valutazione della adeguatezza dell’interpretazione fornita aveva avuto “ripercussioni su altri diritti, distinti ma strettamente legati al diritto in questione e aveva compromesso l’equità del procedimento nel suo complesso”.

L’ennesima condanna dell’Italia, una condanna annunciata ed evitabile, se si considera che già con la pronuncia Hermi c. Italia – siamo nel 2006 –  la Corte di Strasburgo rendeva noto di aver preso piena coscienza della assoluta necessità di un controllo successivo. Ed invero, in quell’occasione, si esprimeva affermando che le autorità competenti non possono limitarsi a nominare un interprete,  devono farsi carico di effettuare un controllo successivo sulla adeguatezza[3] dell’assistenza prestata nel corso del procedimento penale.

4. Il vulnus nella Direttiva 2010/64/UE

Solo con la Direttiva 2010/64/UE  il Legislatore eurounitario, dal canto suo, inizia a considerare la “qualità” dell’assistenza linguistica  quale precondizione imprescindibile per la tutela dell’equità del procedimento penale[4].

Gli articoli di riferimento sono l’art. 2, par. 5 e l’art. 3, par. 9, i quali prevedono espressamente che l’assistenza linguistica deve essere di qualità sufficiente a tutelare l’equità del procedimento.

Due norme che non si limitano a sacralizzare il diritto di contestare, impugnandola, la decisione che dichiari superflua l’interpretazione e la traduzione[5], ma che prevedono la possibilità di contestare la qualità della interpretazione e della traduzione fornite.

L’Art 2, par. 5 recita  “Gli Stati membri assicurano che, secondo le procedure della legislazione nazionale, gli indagati o gli imputati abbiano il diritto di impugnare una decisione che dichiara superflua l’interpretazione e, nel caso in cui l’interpretazione sia stata fornita, abbiano la possibilità di contestare la qualità dell’interpretazione in quanto insufficiente a tutelare l’equità del procedimento”.

Tuttavia, si riscontra, rispetto alla interpretazione della Corte di Strasburgo, un vulnus nella direttiva in esame, perché, dato il diritto all’assistenza linguistica, dato il diritto alla qualità dell’assistenza linguistica, dato il diritto alla contestazione della decisione che ritenga superflua l’assistenza, dato il diritto alla contestazione della decisione che ritenga di “qualità” l’assistenza, non è altrettanto espressamente previsto il diritto di contestare la decisione che ritenga superfluo il controllo sulla qualità dell’assistenza.

In buona sostanza, l’indagato/imputato alloglotta può contestare tutto ma non la pronuncia del giudice interno che non ritenga necessario  accertare se l’assistenza linguistica prestata sia stata o meno di qualità, sia stata o meno adeguata  alla salvaguardia dei diritti connessi all’equo procedimento.

5. Osservazioni conclusive

Ciò che emerge è l’immagine di un ordinamento italiano che, da un lato, a fatica recepisce le direttive dell’UE[6] e, dall’altro, dimostra di non saper “amalgamare” il diritto eurounitario con  quello della Corte di Strasburgo –  a tutela della corretta applicazione della CEDU.

Si ipotizza che se l’ordinamento italiano, in occasione del recepimento della direttiva UE, in un’ottica di rinnovamento del sistema di garanzie linguistiche, avesse tenuto in giusta considerazione i più alti livelli di garanzia richiesti dal diritto sovrannazionale globalmente inteso, con ogni probabilità,  le condanne che verranno si sarebbero potute scongiurare[7].  Ci si auspica che il Legislatore italiano possa concepire, un giorno, il diritto sovrannazionale, norme e giurisprudenza, come un diritto da ricondurre ad un disegno unitario interno, a propria tutela; che possa avere uno sguardo più ampio, tale ricomprendere tanto gli standards imposti dall’UE tanto quelli richiesti dalla Corte di Strasburgo.

Ciò che emerge, ad oggi, è  l’immagine di un ordinamento italiano che attende pressoché inerte la prossima condanna.

 

 

 

 

 

 


[1] Intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 6 ottobre 2011
[2] V. Sentenza Corte EDU del 13 Maggio 1980, Artico c. Iltalia
[3] Il concetto di “qualità” dell’assistenza linguistica lo si deve alla Direttiva 2010/64/UE. In dottrina alcuni hanno sostenuto che l’uso del concetto di “qualità” in luogo di quello di “adeguatezza” volesse evocare standars più elevati di tutela.
[4] M. GIALUZ, La lingua come diritto: il diritto all’interpretazione e alla traduzione nel procedimento penale, in Processo penale, lingua e Unione Europea, a cura di F. Ruggieri, T. Rafaraci, G. Di Paolo, S.Marcolini, R, Belfiore, CEDAM, Padova, 2013, p.231
[5] Interpretazione e traduzione non sono sinonimi. Interprete e traduttore sono due figure professionali distinte, senza che ciò voglia significare che uno stesso soggetto non possa avere entrambe le qualifiche. L’interpretazione consiste nel vertere da una lingua all’altra “il parlato”, la traduzione si riferisce allo scritto. L’interpretazione non può risolversi in un vertere parola per parola, ma deve rendere un messaggio in una lingua diversa nel modo più fedele possibile all’originale.
[6] La direttiva, all’art. 9 individuava nel giorno 27 ottobre 2013 il termine entro il quale i legislatori dei vari Stati membri avrebbero dovuto conformarsi all’atto europeo. L’Italia vi ha dato attuazione con il D.lgs n. 32 del 4 marzo 2014. Ma, cosa ancor più importante, è stato un recepimento che potremmo definire “blando”, poco valorizzante punti essenziali della direttiva. Solo per fare un esempio, in ordine alla professionalità degli interpreti e traduttori il legislatore si è limitato a prevedere l’iscrizione nell’albo dei periti presso ogni tribunale. Tuttavia, la semplice iscrizione all’albo, tanto è valevole per ogni categoria, non è sinonimo o garanzia di professionalità
[7] Possibile in virtù della c.d. clausola di non regressione,  atteso che la direttiva, nello stabilire norme minime, non preclude agli Stati membri di assicurare un livello di tutela più elevato anche in situazioni non espressamente contemplate (art. 82, par. 2 del TFUE)

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