Il diritto alla felicità ha rilevanza costituzionale?

Il diritto alla felicità ha rilevanza costituzionale?

Una proposta di revisione costituzionale per introdurre il diritto alla felicità

di Luca Passarini

Sommario: 1. La proposta di legge costituzionale – 2. La posizione della giurisprudenza in tema di diritto alla felicità – 3. Storia del diritto alla felicità – 4. Dibattito dottrinale – 5. Eventuali limiti alla revisione costituzionale

 

1. La proposta di legge costituzionale 

Il 23 dicembre 2019 è stata presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge costituzionale C. 2321 rubricata “Modifica dell’articolo 3 della Costituzione in materia di riconoscimento del diritto alla felicità”. Nello specifico si tratta di un’iniziativa di trenta deputati (dello schieramento Fratelli d’Italia) con prima firmataria la deputata Bellucci Maria Teresa. 

La proposta costituzionale in questione, all’articolo uno, prevede unicamente la modifica dell’articolo 3 della Costituzione, sostituendo il dettato attuale con la seguente disposizione:  «Art. 3. – Tutti i cittadini hanno diritto di essere felici, hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno godimento del diritto alla felicità, lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (1)». (In grassetto sono riportate le modifiche che si opererebbero al testo attuale).

Nella relazione alla proposta di revisione costituzionale si legge poi che l’Italia, secondo il World Happiness Report 2019 dell’ONU, è al trentaseiesimo posto nella lista dei 156 Paesi più felici, che vede come capolista la Finlandia. Infatti il World Happiness Report misura fattori di benessere come reddito, salute, istruzione, lavoro, aspettativa di vita, condizioni sociali, ma anche dati negativi come la percezione della corruzione; per la prima volta, quest’anno, l’indagine è stata estesa anche alla felicità degli immigrati. E la stessa relazione continua, interrogandosi sulla presenza di un diritto alla felicità e sull’essenza della stessa: “la «felicità» viene inquadrata come lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri, o come la compiuta esperienza di ogni appagamento. In sostanza, la felicità è un insieme di emozioni e sensazioni del corpo e dell’intelletto in grado di procurare benessere e gioia per un periodo più o meno lungo della nostra vita, e che si raggiungerebbero anche attraverso l’accettazione del «diverso» e la tranquillità nello stare insieme con gli altri. Riconoscere questo vincolo solidale ci completa e realizza come persone e ci consente di raggiungere quella felicità individuale che porta alla felicità collettiva di cui parlava Filangieri, indicandola come scopo delle leggi e dei governi. Una felicità, quindi, che non assumerebbe solo i connotati di un diritto, ma anche quelli di un dovere verso noi stessi e verso gli altri. (2)”.

2. La posizione della giurisprudenza in tema di diritto alla felicità 

Già da tempo dottrina e giurisprudenza si sono, in realtà, occupate del riconoscimento del cosiddetto diritto alla felicità, fino a considerarne una possibile implicita costituzionalizzazione, attraverso un’interpretazione estensiva proprio dell’art. 3 Cost.

Hanno fatto riferimento al diritto alla felicità la seconda sezione civile della Cassazione dapprima con la sentenza   4570 del 2014  (laddove si nega che il diritto al risarcimento del danno sia fondato su un  generico danno esistenziale o per la violazione del “diritto alla felicità”, riconoscendo la base del diritto al risarcimento sulla più corretta interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cc attraverso l’art. 32 Cost.  (3) ) e in secondo luogo anche le Sezioni Unite ( che con una celebre pronuncia dell’anno successivo affermano che “il supposto interesse a non nascere mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell’attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia indegna di essere vissuta. Un concetto che è da intendersi quasi un corollario estremo del c.d. diritto alla felicità” (4) ).

È interessante osservare come ulteriormente la giurisprudenza di legittimità si sia recentissimamente interrogata sul tema del diritto alla felicità e sui suoi possibili sviluppi nel campo della responsabilità civile. Riprendendo i precedenti orientamenti la Corte di cassazione è infatti giunta ad affermare in tema di risarcibilità del danno che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti è risarcibile in presenza di alcune condizioni: da un lato, l’interesse leso deve avere rilevanza costituzionale e deve essere grave, dall’altro il danno non deve essere futile, «vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità (5) » .  Il suddetto orientamento si accomuna con quanto deciso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con le sentenze c.d. di “San Martino” in poi, sull’insussistenza del cd. “danno esistenziale”; nella specie, la Suprema Corte era stata drastica nel limitare i risarcimenti ai danni alla salute o alla tutela dei diritti garantiti dalla Carta costituzionale (ingiustizia costituzionalmente qualificata) per cui l’offesa, per essere risarcibile, avrebbe dovuto superare una soglia, necessaria in ragione di un limite di tollerabilità dovuta a ragioni di solidarietà sociale; nella specie la Cassazione si era espressamente pronunciata sull’inesistenza di un diritto alla “felicità” (6).

Un’ulteriore conferma sull’inesistenza del diritto alla felicità lo si può scorgere anche nella giurisprudenza di merito, che è giunta ad affermare che “un caso di  malformazione congenita non rappresenti un danno – né nella forma di danno alla salute, invocato dalla dottrina, né nella forma di danno esistenziale – ma una pura fatalità e che la vita valga sempre e comunque la pena di essere vissuta.

Diversamente, riconoscendo questa forma di danno, si finirebbe per consacrare un diritto alla felicità (7)”.

3. Storia del diritto alla felicità

Gli echi del diritto alla felicità si possono far risalire con una certa sicurezza alla celeberrima Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti di America del 1776, laddove vene affermato con una certa solennità che: “Sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità. (8)”

Gli stessi firmatari del progetto di legge si sono rifatti a questo episodio storico, osservando che si tratta di un’affermazione forte, esplicita, che attribuisce alla felicità individuale delle persone, quasi impossibile da declinare in maniera univoca, la natura di diritto inviolabile costituzionalmente garantito. Aneddotico è l’evento riportato successivamente dalla relazione: “la storia insegna che Benjamin Franklin inviò la bozza della Dichiarazione d’indipendenza al filosofo napoletano Gaetano Filangieri che sostituì l’espressione proposta del «diritto alla proprietà» con quella, poi accolta, del «diritto alla felicità. (9)” Attribuendo in questo modo la paternità della locuzione del diritto alla felicità proprio a un giurista italiano.

Un secondo evento, utile a corroborare la proposta di una costituzionalizzazione del diritto alla felicità, è riportato nella medesima relazione al progetto di legge. Si tratta della Risoluzione A/RES/66/281 delle Nazioni Unite; più comunemente nota come la risoluzione che ha istituito la giornata mondiale della felicità (10). Dal punto di vista delle fonti del diritto si tratta di un atto di soft law con un valore però fondamentale per il riconoscimento del diritto in questione. La Risoluzione definisce con chiarezza l’intento delle Nazioni: “Recognizing the relevance of happiness and well-being as universal goals and aspirations in the lives of human beings around the world and the importance of their recognition in public policy objectives” invitando tutti i Paesi  aderenti a osservarlo “to observe the International Day of Happiness in an appropriate manner, including through education and public awareness-raising activities” (11).

È proprio in questo modo che l’Assemblea generale dichiara consapevolmente che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità.

4. Dibattito dottrinale

La  dottrina non è scevra di opinioni contrastanti. Tra le tesi più innovative si possono però individuare autori che sostengono che il diritto alla felicità può sicuramente essere oggetto di un diritto costituzionale. Tra questi autori è palesemente chiaro il pensiero di Gemma che negli anni ha espresso il proprio sostegno a una costituzionalizzazione di tale diritto: “occorre comprendere se un diritto di natura solo morale può valere genericamente nei confronti della società e può presentare un certo tasso di indeterminazione di pretese specifiche, un diritto di carattere legale deve tradursi in pretese puntuali ed in vincoli dello Stato, pertanto si deve predeterminare la funzione che lo Stato possa, in generale, svolgere per la realizzazione del diritto degli individui alla felicità. (12)” E posta questa domanda preliminare, lo stesso Autore riconosce come sia lo stesso Stato ad avere il compito precipuo di realizzare la felicità individuale, attraverso una serie di interventi, volti a fornire le risorse giuridiche, finanziarie ed istituzionali che consentano o rendano più agevole il raggiungimento di questo obiettivo. L’individuo si trova in questo titolare di un interesse costituzionale alla felicità, più che di un vero e proprio diritto.

Allo stato dell’attuale dettato costituzionale, quindi nella quasi sicura ipotesi in cui non subisca la revisione di cui si è prospettato poc’anzi, il diritto alla felicità è difficilmente ancorabile ad una precisa disposizione espressa in Costituzione. Lo riconosce lo stesso Gemma per cui la ricostruzione di un diritto costituzionale alla felicità può essere operata agevolmente, ma non desumendolo da altri articoli. “Non soccorre quella specifica norma della Costituzione, costituita dall’art. 2, dalla quale, come è noto, sono stati dedotti da settori della dottrina e della giurisprudenza ulteriori diritti oltre quelli espressamente menzionati da altre disposizioni. Infatti il diritto in oggetto non è della stessa natura degli altri diritti sanciti dalla Carta fondamentale o da essa dedotti in via interpretativa. In realtà l’interesse costituzionale, che per comodità definiamo diritto alla felicità, è trasversale agli altri diritti costituzionali, è la risultante teleologica di tutti questi ultimi, considerati come sistema. Vale a dire la felicità è la ratio dei diritti costituzionali e da essa può dedursi il diritto alla felicità (13)”.  Seguendo questo ragionamento,  la costituzionalizzazione del cosiddetto diritto alla felicità, deducibile dalla normativa costituzionale, non è solamente l’approdo ultimo di una cultura individualistica, ma al contrario diventa una valorizzazione dell’aspetto collettivo e sociale, basato proprio su una “cultura dei doveri”: doveri che – come è comunemente noto – accompagnano i diritti all’interno del nostro testo costituzionale.

5. Limiti alla revisione costituzionale

Se gli scopi del diritto alla felicità non sono così ambigui, più complesso è dal punto di vista della giustizia costituzionale, individuare la possibilità di un intervento legislativo che modifichi i principi fondamentali riportati nella Carta e nello specifico l’ammissibilità di un intervento di revisione costituzionale del già citato articolo 3. La giurisprudenza della Corte costituzionale si è sempre espressa per un riconoscimento di limiti impliciti alla revisione del testo costituzionale (impliciti perchè si ricorda non riportati nell’articolo 139 o in altre disposizioni della Carta). Tra questi principi immodificabili dallo stesso legislatore nell’esercizio del potere di revisione costituzionale si annoverano i principi supremi dell’ordinamento, parzialmente coincidenti con le prime dodici disposizioni della Costituzione. Fra le tante pronunce della Corte costituzionale che si sono sempre espresse su questa posizione si può infatti citare parte del considerato in diritto dell’arcinota sentenza 1146/1988: “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. (14)”.

Nel caso di specie, però, la questione potrebbe essere un’altra. Non è infatti subito chiaro se la proposta di revisione in questione, per ora certamente marginale da un punto di vista prettamente politico, possa giustificarsi come intervento necessario e migliorativo del testo costituzionale o più probabilmente come un inutile deturpamento dello stesso testo. Si ricordi infatti che è già stato abilmente sottolineato come “il dibattito sulla revisione costituzionale è legato a quello sulla crisi della Costituzione come atto normativo. Al di là della retorica distinzione tra prima e seconda parte della Costituzione (retorica, assodata l’idea che l’intangibilità attiene ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, a prescindere dalla loro collocazione topografica nella Costituzione; nonché l’idea che inviolabilità dei principi non significa assoluta irrivedibilità, essendo legittima la modifica in melius), i tentativi di riforma costituzionale si sono rivolti quasi sempre alle disposizioni relative all’organizzazione dello Stato (15)” e non hanno mai riguardato la parte dei principi.

 

 

 


Riferimenti bibliografici: 
1 Proposta di legge costituzionale C. 2321, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati XVIII LEGISLATURA, disegni di legge e relazioni.
2 Relazione alla proposta di legge costituzionale C. 2321, Atti Parlamentari, Camera dei Deputati XVIII LEGISLATURA, disegni di legge e relazioni.
3 Cassazione, sezione II, sentenza 26 febbraio 2014, n. 4570.
4  Cassazione, sezioni unite, sentenza 22 dicembre 2015, n. 25767.
5 Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2019, n. 14886.
6 A. Dinisi, Immissioni intollerabili e danno non patrimoniale da lesione del diritto al godimento dell’abitazione, in Responsabilità civile e previdenza, 2017, fasc. 3, pag. 824.
7 Corte appello Catania sez. I, 31/03/2016, n.536.
8 Testo in italiano della Dichiarazione di Indipendenza Americana, consultabile su cultura.biografiaonline.it. 
9 Relazione alla proposta di legge, idem. 
10 Resolution adopted by the General Assembly on 28 June 2012, n. 66/281,  International Day of Happiness. 
11 Resolution, idem. 
12 G. Gemma, Esiste un diritto costituzionale alla felicità?, AFDUDC, 12, 2008, 519-531.
13 G. Gemma, op. cit. 
14 Corte costituzionale, sentenza 15-29 dicembre1988, n. 1146. 
15 V. Marcenò, Alla prova della revisione. Settanta anni di rigidità costituzionale, Editoriale scientifica, p. 16. 

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Luca Passarini

Studente di Giurisprudenza all'Università di Bologna. I suoi contributi si indirizzano principalmente in materia costituzionale.

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