Il diritto dei cittadini europei a ricevere cure transfrontaliere

Il diritto dei cittadini europei a ricevere cure transfrontaliere

Una breve introduzione. Con una recente pronuncia[1], la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (in prosieguo la Corte) è tornata sulla sua giurisprudenza relativa al diritto dei cittadini europei di ricevere cure transfrontaliere, vale a dire in Paesi dell’UE diversi da quello al quale sistema previdenziale sono affiliati. Tale giurisprudenza, nonché il diritto appena citato, fondano la loro legittimazione su due principali fonti giuridiche di matrice europea, il Regolamento 883/04 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale[2] e la Direttiva 2011/24/UE concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera[3]. Proprio grazie al lavoro ermeneutico della Corte nel corso del tempo si sono venute a delineare delle differenze ben precise, tra la disciplina del Regolamento e della Direttiva, che è utile indagare, al fine di evidenziare gli aspetti rilevanti del diritto dei cittadini dei vari Stati Membri a ricevere cure transfrontaliere. È necessario, dunque, partire dall’analisi della giurisprudenza dei Giudici del Lussemburgo soffermandoci sui momenti più rilevanti che hanno influito sul generarsi di un doppio binario, sia interpretativo che applicativo, della normativa europea in materia di cure transfrontaliere. Successivamente si potrà illustrare la normativa attuale, mettendo in risalto i contenuti più importanti delle due fonti giuridiche rilevanti.

Il Regolamento 1408/71/CEE e la giurisprudenza della Corte. La prima normativa europea inerente alla possibilità di cittadini di uno Stato Membro di spostarsi per ricevere cure transfrontaliere è costituita dal Regolamento (CEE) n.1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori dipendenti e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità[4]. L’obiettivo di tale disciplina non era tanto permettere ai cittadini di ricevere cure in uno Stato diverso da quello d’affiliazione, quanto quello di facilitare la libertà di circolazione dei lavoratori tramite il coordinamento dei sistemi sociali degli Stati Membri[5]. Difatti la disciplina prevedeva la possibilità, in capo ad un individuo che si trasferisce in un altro Stato Membro per svolgere un’attività lavorativa, di usufruire delle tutele previdenziali del luogo di destinazione, come se egli fosse ivi affiliato. Così facendo i suddetti lavoratori si vedevano riconosciuti un diritto che, senza il Regolamento 1408/71/CEE, non avrebbero avuto e ciò al fine di rendere la migrazione degli individui per motivi di lavoro tra i diversi Stati più agevole. Poiché l’oggetto della normativa copriva le normative statali inerenti ai sistemi previdenziali, questo interessava anche le prestazioni sanitarie in quanto facenti parte della più grande categoria della tutela previdenziale nazionale. Tuttavia, i limiti della disciplina del Regolamento si palesarono ben presto, in particolare in relazione al suo scopo ratione personae, e l’intervento della Corte risultò necessario. Più specificatamente, osservando i casi decisi dalla Corte, si può notare che questa è stata chiamata a sciogliere controversie dove la prestazione sanitaria non era richiesta da un lavoratore, che era soggetto alla normativa del Regolamento 1408/71/CEE, bensì da individui estranei al campo d’applicazione di quest’ultimo. La prima decisione rilevante ai fini dell’evoluzione della disciplina sulle cure transfrontaliere è costituita dai casi riuniti Luisi & Carbone[6], in cui parti della controversia erano due cittadini italiani i quali si erano recati all’estero, in particolare in Germania, oltre che per ragioni turistiche anche per ricevere cure mediche. Sulla base della normativa nazionale vigente all’epoca, che poneva un limite alla somma di denaro con cui era permesso attraversare la frontiera, i due turisti risultarono in violazione della stessa poiché furono trovati al confine con una somma superiore al limite consentito[7]. Il caso fu portato di fronte alla Corte, allegando una violazione delle regole del Trattato CEE inerenti alla libertà di circolazione dei servizi. Con una sentenza del tutto innovativa la Corte stabilì che “che la libera prestazione dei servizi comprende la libertà, da parte dei destinatari dei servizi, di recarsi in un altro Stato membro per fruire ivi di un servizio, senza essere impediti da restrizioni, anche in materia di pagamenti, e che i turisti, i fruitori di cure mediche e coloro che effettuano viaggi di studi o d’affari devono essere considerati destinatari di servizi”[8]. Questa è la prima volta in cui la Corte si pronuncia sulla natura delle prestazioni sanitarie nell’ordinamento europeo, e le definisce come servizi ai sensi dell’allora art. 60 (ora 57 TFUE) del Trattato CEE. Tale orientamento venne poi ribadito in una successiva sentenza, il caso Grogan[9] dove, a differenza del precedente in cui l’oggetto della domanda principale non concerneva direttamente la mobilità transfrontaliera per motivi medici, per la prima volta vennero applicate a casi inerenti a tale forma di mobilità le norme sulla libera circolazione riconosciute dal Trattato CEE. Il caso concerneva l’attività di informazione compiuta da un’associazione studentesca irlandese che avvisava le donne sulla possibilità di viaggiare verso il Regno Unito al fine di richiedere l’aborto. Al sollevarsi delle proteste, in particolare dell’altra parte della controversia, The society for the protection of unborn children Ireland, il caso venne portato di fronte la Corte la quale ritenne che “l’interruzione della gravidanza, così come lecitamente praticata in diversi Stati membri, è un’attività medica normalmente fornita dietro retribuzione e che può essere praticata nell’ ambito di una libera professione. In ogni caso, la Corte ha già dichiarato nella sentenza 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone, punto 16 che le attività mediche rientrano nel campo di applicazione dell’art. 60 del Trattato”[10]. Con tali decisioni la Corte imposta un filone giurisprudenziale sulla base del quale le prestazioni sanitarie, e coloro che si spostano per riceverle, sono considerati soggetti alla normativa dei Trattati relativa alla libera circolazione dei servizi. Nel corso del tempo il numero di casi risolti dalla Corte si arricchisce e molti di questi interessano anche più direttamente la normativa del Regolamento 1408/71/CEE in tema di mobilità transfrontaliera per motivi medici. I primi casi in cui è possibile rinvenire nuovi spunti sono le sentenze Kohll[11] e Decker[12]. In entrambi le controversie alla Corte venne richiesto di pronunciarsi sull’applicazione del Regolamento 1408/71/CEE e delle regole dei Trattati, ora concernenti la libera circolazione dei servizi[13], ora delle merci[14], alle norme nazionali relative alla previdenza sociale. In particolare, nel caso Kohll, la Corte reiterò la sua precedente posizione per cui le prestazioni sanitarie costituiscono servizi ai sensi dell’art. 60 del Trattato CE e dunque, applicando la sua costante giurisprudenza relativa alle libertà di movimento tutelate dal diritto primario europeo, ha riconosciuto che ogni forma di limitazione, anche potenziale, di tali libertà costituisce una violazione delle regole del Trattato CEE[15]. In entrambi i casi, le norme nazionali che i Giudici del Lussemburgo erano chiamati a valutare, se conformi alle regole dei Trattati, erano quelle relative alle tutele previdenziale ed in entrambe le controversie la Corte ha stabilito che, nonostante la natura particolare di suddette norme, ciò non esclude l’applicazione delle regole relative ora alla libera circolazione delle merci, ora dei servizi, di cui agli artt. 30 e 60 del Trattato CE. Successivamente la Corte è passata ad analizzare l’applicazione del Regolamento relativamente a queste norme, già ritenute soggette agli effetti del Trattato CEE, in quanto esse costituiscono l’oggetto primario della sua disciplina. In particolare ha dovuto esaminare in che relazione questo si ponesse rispetto alle norme dei Trattati definite poc’anzi applicabili. Per chiarire tale aspetto è necessario, tuttavia, evidenziare i fatti dei due casi analizzati dalla Corte. In entrambi non era stato invocato il diritto dei cittadini a spostarsi per ricevere cure mediche ai sensi del Regolamento, bensì si era solo richiesto il rimborso delle spese sostenute all’estero così da ottenere il rimborso di costi che, se sostenuti nel Paese d’origine, sarebbero stati a carico dello Stato d’affiliazione. Dunque, la Corte valuta che tali casi s’inseriscono al di fuori del campo d’applicazione ratione materiae del Regolamento 1408/71 e stabilisce che “si deve esaminare la compatibilità di una normativa nazionale come quella oggetto della causa principale con le disposizioni del Trattato”[16] ora relative alla libera circolazione delle merci, ora dei servizi. Con tale conclusione la normativa europea relativa alle cure transfrontaliere giunge ad un bivio molto importante, difatti sembra prender forma una giurisprudenza, composta dai casi sinora analizzati, in cui le regole applicate non sono tanto quelle del Regolamento 1408/71, che implementa le regole del Trattato CE sulla libera circolazione degl’individui, quanto quelle sulla libera circolazione dei servizi, in quanto tali sono considerate le prestazioni sanitarie. Tale mutamento relativo alla disciplina di riferimento produce una conseguenza di indubbia rilevanza sull’evoluzione del diritto dei pazienti a ricevere cure transfrontaliere. Del Regolamento 1408/71 è interessata in modo particolare la sua disciplina, altresì controversa nei casi Decker e Kohll, secondo la quale un cittadino può recarsi in un diverso Stato Membro per ricevere cure mediche quando soddisfa specifiche condizioni. Tra queste è previsto che egli sia “autorizzato dall’istituzione competente a recarsi nel territorio di un altro Stato membro per ricevere le cure appropriate al suo stato”[17]. Come anticipato, nei casi Kohll e Decker era controverso il loro diritto di ricevere il rimborso delle spese mediche sostenute all’estero, anche se questi non avevano ricevuto l’autorizzazione prevista nel Regolamento. Poiché però la Corte ha ritenuto, in entrambi i casi, che i fatti dei due casi dovessero essere giudicati ai sensi delle regole del Trattato CE relative alla libertà di circolazione nel mercato interno, la norma nazionale, che implementa il Regolamento e che prevede l’autorizzazione preventiva, è stata giudicata alla stregua della giurisprudenza relativa a suddette regole invece di quella facente capo al Regolamento. E dunque la Corte, come sovente avviene in casi in cui sembrano essere in contrasto una norma nazionale e le regole sulla libertà di movimento nel mercato interno, ha applicato la c.d. Dassonville formula[18]. L’esito di tale giudizio costituisce un momento cruciale nella sua giurisprudenza relativa alla mobilità transfrontaliera per ragioni mediche. La Corte ha difatti sostenuto che “gli artt. 59 e 60 del Trattato ostano a una normativa nazionale la quale subordina all’autorizzazione dell’ente previdenziale dell’assicurato il rimborso, secondo le tariffe dello Stato d’iscrizione, delle prestazioni di cure dentarie fornite da un dentista stabilito in un altro Stato membro”[19]. Analoga conclusione, ma relativa alle regole sulla libera circolazione delle merci, è stata assunta nel caso Decker[20]. Con tali decisioni la Corte apre alla possibilità dei cittadini di ricevere cure transfrontaliere senza una previa autorizzazione, come invece è previsto dal Regolamento 1408/71, a spese dello Stato d’affiliazione. Il tutto in forza delle regole del Trattato CE relative alla libera circolazione dei servizi le quali includono le prestazioni mediche nel lor campo d’applicazione. Nei casi successivi la Corte ha avuto modo di specificare meglio i contenuti innovativi stabiliti nelle sentenze sopracitate e soprattutto di ampliare la nozione di servizi così come interpretata. Nello specifico la Corte ha fatto rientrare ogni forma di prestazione medica all’interno della nozione di servizio stabilita all’art. 60 Trattato CE, per cui ha ritenuto che non facesse differenza il fatto che le cure fossero dispensate in un contesto ospedaliero ovvero non-ospedaliero[21], né tantomeno il fatto che l’elemento remunerativo, a fronte del quale un servizio viene erogato, fosse pagato direttamente dal paziente ora in natura ora tramite il sistema contributivo del Paese d’affiliazione[22]. Le conseguenze di un siffatto allargamento della nozione di servizio sono di rilevanza non solo giuridica, ma anche politica. Difatti la Corte non ha ritenuto rilevante, ai fini della definizione delle prestazioni sanitarie come servizi, il tipo di organizzazione che lo Stato Membro abbia voluto prevedere per il proprio sistema sanitario. Notoriamente i sistemi sanitari si differenziano in due differenti modelli: il modello Beveridge ed il modello Bismarckiano. Il primo, ideato dal famoso economista britannico nel 1942[23],  è caratterizzato per l’accesso universale e gratuito alle cure mediche che vengono erogate da strutture sanitarie poste all’interno di un sistema di prevalente organizzazione statale. Il suo finanziamento proviene dalla fiscalità generale, per cui l’accesso alle cure è garantito ad ogni cittadino in forza dei loro contributi[24]. Il modello Bismarckiano invece prende il nome dal Cancelliere tedesco della metà dell’Ottocento che operò numerose riforme della normativa sul lavoro in vigore nella Germania del XIX secolo. Visto il variare dei mezzi di produzione e degli strumenti di lavoro, che da un modello agricolo passano ad uno industriale, in Germania come in molte altre zone dell’Europa continentale, dai cittadini vennero richieste numerose tutele sociali tra cui, quindi, anche quelle sanitarie[25]. Tuttavia Bismarck, a differenza di William Beveridge, concepisce un sistema basato prevalentemente sull’assicurazione sociale in forza della quale si ha diritto all’ottenimento delle tutele sociali previste dal sistema previdenziale. Così facendo, “i cittadini tedeschi possono scegliere fra tre indennità sanitarie, finanziate sia dal datore di lavoro che dal lavoratore: l’assicurazione sanitaria, l’assicurazione per gli infortuni e l’assicurazione per l’assistenza a lungo termine (o long-term care)”[26]. Il tutto è gestito dalle casse mutue alle quali vengono corrisposti i versamenti delle varie assicurazioni che compongono la modalità di finanziamento del sistema sanitario, e ivi si nota la grande differenza dal sistema Beveridge in cui il finanziamento proviene dalla tassazione dei cittadini. Nonostante le peculiari caratteristiche che differenziano questi due modelli d’organizzazione sanitaria, la nozione di servizi interpretata dalla Corte, che si basa principalmente sull’elemento della retribuzione[27], quando analizzata in relazione alle prestazioni sanitarie, è capace di ricomprendere le cure erogate in ogni sistema sanitario, vale a dire sia in un modello come quello Beveridge che Bismarck. Dunque, nessun sistema sanitario nazionale è risultato immune dalla portata delle decisioni, e delle aperture, operate dalla Corte nei casi appena citati e ciò ha una rilevante conseguenza politica in quanto, così facendo, il diritto europeo è stato capace di permeare e influenzare un settore, come quello della sanità pubblica, in cui le competenze organizzative e di gestione spettano esclusivamente agli Stati Membri[28]. Tutto ciò ha creato non poche preoccupazioni agli Stati Membri in quanto la novella disciplina che la Corte sembrava propensa ad applicare poneva le sue radici nella sola attività ermeneutica dei giudici e non vi era alcuna codificazione che potesse definire chiaramente i confini entro i quali si limitasse il contenuto del diritto dei cittadini a ricevere cure mediche transfrontaliere così come la Corte lo stava configurando. Gli unici limiti applicabili alla portata delle regole sulla libera circolazione dei servizi sono le cause di giustificazione previste dallo stesso Trattato CE, che gli Stati possono invocare e che sono ben definite e tra queste rientrano i motivi di sanità pubblica[29]. La Corte in numerose occasioni ha riconosciuto che la richiesta di una previa autorizzazione, come prevista dal Regolamento 1408/71, in quanto costituisse un limite alla libera circolazione dei pazienti che sono destinatari di servizi, poteva essere giustificata da ragioni di sanità pubblica, e tali ragioni sono state anche debitamente identificate nel corso della sua produzione giurisprudenziale[30]. Poiché però anche questo limite rimaneva soggetto all’attività ermeneutica della Corte, le incertezze degli Stati Membri non si sono affievolite ed era pressante l’esigenza di disciplinare questi approdi giurisprudenziali in un unico testo innovativo. Il documento nel quale tale codificazione è stata realizzata è la Direttiva 2011/24/UE che va a recepire quelle differenze normative, in materia di mobilità transfrontaliera per motivi medici, che la Corte ha ritenute appartenere non tanto alla disciplina del Regolamento 1408/71 quanto alla libera circolazione dei servizi.

Il Regolamento 883/04/CE. Il Regolamento 883/04/CE costituisce uno dei primi risultati dell’evoluzione giurisprudenziale della Corte relativamente al tema della mobilità transfrontaliera per motivi medici. Esso va ad aggiornare la precedente disciplina costituita del sopracitato Regolamento 1408/71 il quale, come visto, è stato in più riprese analizzato dalla Corte che ne ha messo in luce gli aspetti più farraginosi che necessitavano una modernizzazione. Per quanto concerne l’obiettivo principale che il Regolamento 883/04 mira a realizzare esso è il medesimo del precedente, vale a dire la coordinazione dei sistemi previdenziali degli Stati Membri e perciò esso ancora risponde agli obiettivi di libera circolazione delle persone, in particolare dei lavoratori. Difatti, i soggetti interessati dalla disciplina del Regolamento, elencati all’art. 2, sono i lavoratori sia dipendenti privati che pubblici, i familiari dei lavoratori nonché gli apolidi o profughi residenti presso uno degli Stati Membri. All’interno di questo contesto le prestazioni sanitarie, in quanto costituiscono un aspetto specifico dei sistemi previdenziali nazionali, sono disciplinate dalla normativa, in particolare dall’art. 20 il quale ha sostituito l’art. 22 del Regolamento 1408/71. La disposizione stabilisce le condizioni che una volta soddisfatte permettono ad un cittadino di spostarsi per ricevere cure in un altro Paese. Innanzitutto, è previsto che tali cure siano necessarie per lo stato di salute dell’individuo, dunque che il caso clinico di quest’ultimo le renda indispensabili. Altresì esse devono essere incluse tra quelle che il paziente avrebbe diritto a ricevere nel suo Stato d’affiliazione[31]. Come seconda condizione l’art. 20 stabilisce che lo Stato Membro conceda un’autorizzazione al paziente a spostarsi per ricevere cure mediche. Quest’ultimo punto, come anticipato, costituisce l’aspetto più controverso della disciplina in quanto l’autorizzazione preventiva funge da deterrente della libertà di circolazione, e dunque, anche se stabilita dalla stessa normativa europea, è teoricamente contraria alle norme del Trattato. La sua presenza nel Regolamento però ha una motivazione ben precisa ed è legata alla competenza che gli Stati hanno in materia di sanità pubblica e di gestione e pianificazione sanitaria. Per comprendere meglio tale aspetto è necessario leggere congiuntamente l’art. 20 con l’art. 35 del Regolamento. Vedendo quanto prevede la prima disposizione, una volta che un paziente soddisfi le condizioni sopracitate, egli “ha diritto alle prestazioni in natura erogate, per conto dell’istituzione competente, dall’istituzione del luogo di dimora o di residenza secondo le disposizioni della legislazione che essa applica, come se fosse ad essa iscritto”.[32] L’art. 35 invece stabilisce che “le prestazioni in natura erogate dall’istituzione di uno Stato membro per conto dell’istituzione di un altro Stato membro in base al presente capitolo danno luogo a rimborso integrale. Il rimborso di cui al paragrafo 1 è determinato e effettuato ai sensi delle norme previste nel regolamento di applicazione, previa giustificazione delle spese effettivamente sostenute […]”. La lettura congiunta di suddette norme svela un aspetto molto importante della disciplina che è costituito dal meccanismo di rimborso delle spese mediche transfrontaliere sostenute, le quali sono calcolate sulla base delle tariffe applicate nello Stato in cui esse sono state effettivamente erogate. Ciò implica che una volta rilasciata l’autorizzazione ad un paziente, le spese che questo è costretto a sostenere, presso lo Stato di dimora in cui si reca, sono costi che sfuggono al controllo economico dello Stato d’affiliazione il quale legittimamente può cercare di escludere “un rischio di grave alterazione dell’equilibrio finanziario del sistema di previdenza sociale”[33]. La Corte ha ritenuto che tale esclusione possa essere realizzata con il mantenimento di un meccanismo di previa autorizzazione a spostarsi per ricevere cure mediche. Ciò, quindi, legittima la sua presenza nel Regolamento il quale altresì implementa nella novella formula dell’art. 20 gli approdi giurisprudenziali della Corte relativamente a tale elemento. Difatti, l’art. 20 al II comma prevede i casi secondo i quali il rilascio dell’autorizzazione non possa essere negato, cercando così di contenere i rischi alla limitazione della circolazione. Le condizioni previste sono due. Nella prima è previsto che la terapia richiesta rientri tra quelle cui il paziente avrebbe diritto nello Stato in cui è affiliato. La seconda invece stabilisce che l’autorizzazione non possa essere negata quando le cure di cui il paziente avrebbe bisogno non gli possono essere prestate in un tempo accettabile, tenuto conto del suo stato clinico. Su questi due aspetti la Corte ha dedicato grande attenzione nel corso delle sue decisioni, specificando in quali casi siano soddisfatti e definendo sempre meglio i confini della normativa e, nello specifico, i limiti della possibilità degli Stati Membri di rifiutare il rilascio di suddetta autorizzazione. La prima delle due condizioni ha evidentemente una relazione molto forte con l’oggetto del Regolamento, vale a dire il sistema previdenziale. Difatti, una terapia rimborsabile non è altro che una cura di cui il paziente avrebbe diritto in quanto appartenente al sistema previdenziale dello Stato. Si vede, dunque, come la competenza degli Stati Membri di organizzare il proprio sistema sanitario, che prevede il potere di definire quali terapie siano incluse in quelle fornite dal sistema stesso, entri in contrasto con il diritto, di matrice europea, alla mobilità per motivi medici. La seconda condizione invece viene soddisfatta quando una terapia che presento lo stesso grado di efficacia per il paziente non può essere erogata in sostituzione di quella richiesta[34]. Per valutare l’elemento relativo al grado d’efficacia, la Corte ha fornito importanti indicazioni che orientano nell’applicazione della disciplina, ed ha stabilito che “ per valutare se un trattamento che presenti lo stesso grado di efficacia possa essere ottenuto in tempo utile nello Stato membro di residenza, l’istituzione competente è tenuta a prendere in considerazione l’insieme delle circostanze che contraddistinguono ogni caso concreto, tenendo nel dovuto conto non solamente il quadro clinico del paziente nel momento in cui è richiesta l’autorizzazione e, all’occorrenza, il grado del dolore o la natura dell’infermità di quest’ultimo, che potrebbe, ad esempio, rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di un’attività professionale, ma anche i suoi antecedenti”[35]. Se tali condizioni sono entrambe soddisfatte allora lo Stato Membro non ha alcuna possibilità di rifiutare il rilascio dell’autorizzazione preventiva e dunque il paziente, per via della sua condizione medica, può recarsi presso uno Stato Membro diverso per l’ottenimento della cura necessaria. Come la Corte ha stabilito, “agli assicurati sono così conferiti diritti che essi altrimenti non possederebbero, in quanto tali diritti, comportando la presa a carico da parte dell’istituzione del luogo di dimora secondo la normativa che applica quest’ultima, non potrebbero essere, per definizione, garantiti ai detti assicurati in forza della sola normativa dello Stato membro competente”.[36]

La Direttiva 2011/24/UE. La Direttiva 2011/24/UE, come anticipato, codifica la giurisprudenza della Corte in materia di cure transfrontaliere, in particolare quella visione che sembrava attrarre “tutti i tipi di cure sanitarie […]  nell’ambito di applicazione del TFUE”[37] e nello specifico nella nozione di servizi di cui all’art. 57 TFUE. Dunque, una prima differenza rispetto al Regolamento è già visibile e concerne l’obiettivo della disciplina la quale non ha ad oggetto i sistemi previdenziali nazionali quanto l’offerta sanitaria. In particolare, la Direttiva mira alla liberalizzazione di tale porzione del mercato in cui i cittadini sono destinatari dei servizi e dunque “a garantire la mobilità dei pazienti conformemente ai principi sanciti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia”[38]. Con tali presupposti è evidente che i destinatari della disciplina siano una platea di soggetti più ampia di quelli interessati dall’art. 2 del Regolamento 883/04, andando ad includere chiunque sia iscritto ad uno dei sistemi sanitari degli Stati Membri. Questo respiro più ampio che la disciplina della Direttiva possiede è evidentemente il frutto dell’apertura sopradescritta della giurisprudenza della Corte. Quest’ampiezza si può ben vedere in particolare in due aspetti rilevanti del diritto alla mobilità transfrontaliera, altresì più volte ripresi nel corso dei suoi casi dalla stessa Corte. Si tratta del meccanismo di rimborso delle spese sanitarie ed il regime della previa autorizzazione più volte messo in discussione dai Giudici del Lussemburgo. Le regole relative al rimborso sono disciplinate all’art. 7 IV comma. Questo stabilisce che “i costi relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera sono rimborsati o direttamente pagati dallo Stato membro di affiliazione in misura corrispondente ai costi che il sistema avrebbe coperto se tale assistenza sanitaria fosse stata prestata nello Stato membro di affiliazione, senza che tale copertura superi il costo effettivo dell’assistenza sanitaria ricevuta”. A differenza di quanto previsto dal Regolamento, leggendo congiuntamente gli artt. 20 e 35, nel caso della Direttiva gli Stati Membri sono posti al riparo da gravi squilibri finanziari del sistema sanitario, in cui potrebbero cadere se, come nel caso della prima normativa, i costi sfuggissero alla loro pianificazione, in particolare il loro tariffario dei prezzi. La ragione alla base della scelta di includere una siffatta disposizione è da rinvenirsi sempre nella giurisprudenza dalla Corte. Come detto precedentemente, quello di un grave squilibrio finanziario del sistema è un legittimo motivo per cui uno Stato può prevedere un meccanismo di previa autorizzazione come strumento per tenere sotto controllo l’eventuale generarsi di costi imprevisti. Dato che la Direttiva, però, mira a facilitare lo spostamento dei pazienti tra i diversi Stati Membri, tale rischio, capace di permettere agli Stati di invocare un meccanismo limitante la libertà di circolazione dei servizi, era necessariamente da scongiurare, e costruendo in tal modo le regole del rimborso l’equilibrio economico dei sistemi sanitari nazionali viene tutelato. Queste regole relative al rimborso dei costi sostenuti dal paziente si legano a quelle riguardanti il meccanismo dell’autorizzazione preventiva. Sovente è stato detto che la Corte, nell’interpretare il contenuto del Regolamento ai sensi delle regole sulla libera circolazione dei servizi, abbia ribadito la teorica contrarietà di suddetto meccanismo rispetto alle norme del Trattato, ancorché giustificabili. Il rischio di grave alterazione finanziaria, che può costituire una legittima giustificazione, è ridimensionato da come è costruita la disciplina della Direttiva, dunque la presenza di un meccanismo di previa autorizzazione doveva necessariamente essere ripensato, rispetto al Regolamento, che ha anche diversi obiettivi. Difatti, la Direttiva prevede che un paziente può circolare liberamente per ricevere cure mediche in altri Stati Membri ed il suo diritto al rimborso delle spese sostenute non è soggetto ad alcuna previa autorizzazione. Tuttavia, poiché l’autorizzazione si è vista essere anche un utile strumento di gestione sanitaria, da parte degli Stati, la Direttiva prevede dei casi, riportati all’art. 8 II comma, in cui è ammessa la sua imposizione. A tal riguardo si dicano i principi che governano il regime autorizzativo della Direttiva, per cui esso “è limitato a quanto necessario e proporzionato all’obiettivo da raggiungere, e non può costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o un ostacolo ingiustificato alla libera circolazione dei pazienti”[39]. Le motivazioni invece che contenute al II comma sono di natura prettamente medica e riguardano l’assistenza sanitaria che è di particolare rilevanza e che, tra gli altri, comporta il ricovero del paziente in questione per almeno una notte o richiede l’utilizzo di un’infrastruttura sanitaria o di apparecchiature mediche altamente specializzate e costose; richiede cure che comportano un rischio particolare per il paziente o la popolazione ovvero è erogata da un prestatore di assistenza sanitaria che susciti preoccupazioni quanto alla qualità o alla sicurezza dell’assistenza. Oltre a limitare i casi in cui l’autorizzazione può essere richiesta, la Direttiva stabilisce anche quando, all’interno di tale ambito oggettivo, lo Stato può effettivamente rifiutare il rilascio della stessa. La natura delle situazioni che legittimano il rifiuto, al pari delle precedenti appena viste, è squisitamente medica e si dispiega in quattro ipotesi tassative. Il rifiuto può avvenire quando “a) in base ad una valutazione clinica, il paziente sarà esposto con ragionevole certezza a un rischio per la sua sicurezza […]; b) a causa dell’assistenza sanitaria transfrontaliera in questione, il pubblico sarà esposto con ragionevole certezza a notevoli pericoli per la sicurezza; c) l’assistenza sanitaria in questione è prestata da un prestatore di assistenza sanitaria che suscita gravi e specifiche preoccupazioni quanto al rispetto degli standard e orientamenti relativi alla qualità dell’assistenza e alla sicurezza del paziente, […]; d) l’assistenza sanitaria in questione può essere prestata sul suo territorio entro un termine giustificabile dal punto di vista clinico, tenendo presente lo stato di salute e il probabile decorso della malattia di ogni paziente interessato”[40]. Con tali disposizioni l’operatività dell’autorizzazione preventiva è già molto ridotta rispetto al Regolamento 883/04 poiché il suo utilizzo è circoscritto a casi ben definiti i quali, dato che la Direttiva codifica in larga parte la giurisprudenza dalla Corte, corrispondono a quelle motivazioni riconducibili al concetto di salute pubblica che costituisce una legittima giustificazione della libertà di movimento e, quindi, dell’esistenza di un meccanismo di autorizzazione preventiva. Al pari del Regolamento, anche nella Direttiva sono individuate delle condizioni che, se soddisfatte, non permettono alle autorità sanitarie di uno Stato di rifiutare il rilascio dell’autorizzazione. Come nella prima disciplina, anche in questo caso, “lo Stato membro di affiliazione non può rifiutarsi di concedere un’autorizzazione preventiva quando il paziente ha diritto all’assistenza sanitaria in questione, ai sensi dell’articolo 7 della presente direttiva, e quando l’assistenza sanitaria in questione non può essere prestata sul suo territorio entro un termine giustificabile dal punto di vista clinico, sulla base di una valutazione medica oggettiva dello stato di salute del paziente, dell’anamnesi e del probabile decorso della sua malattia, dell’intensità del dolore e/o della natura della sua disabilità al momento in cui la richiesta di autorizzazione è stata fatta o rinnovata”[41]. La disciplina dell’autorizzazione preventiva come descritta nella Direttiva possiede dunque due tipi di limiti, uno positivo ed uno negativo. Con il primo s’identificano i casi in cui la richiesta, nonché il possibile rifiuto, dell’autorizzazione preventiva sono legittimi. Con il secondo invece sono definite le fattispecie in cui quest’ultima non può essere negata. I confini, ben definiti, della disciplina sono la risposta all’incertezza degli Stati Membri di fronte all’apertura della giurisprudenza della Corte relativamente alla mobilità transfrontaliera dei pazienti, i quali erano considerati destinatari dei servizi. Dunque, oltre a ribadire la puntuale opera di codificazione che è operata dalla Direttiva 2011/24/UE relativamente agli approdi giurisprudenziali della Corte, si dica anche dei motivi tramite i quali si è potuta inquadrare l’autorizzazione preventiva come sia stata resa uno strumento di extrema ratio. “Il rimborso previsto dall’articolo 7 della direttiva 2011/24 può quindi essere sottoposto a un doppio limite. Da un lato, è calcolato sulla base delle tariffe applicabili all’assistenza sanitaria nello Stato membro di affiliazione. Dall’altro, se il livello dei costi dell’assistenza sanitaria prestata nello Stato membro ospitante è inferiore a quello dell’assistenza sanitaria prestata nello Stato membro di affiliazione, tale rimborso non supera il costo effettivo dell’assistenza sanitaria ricevuta. Dal momento che il rimborso di tale assistenza sanitaria ai sensi della direttiva 2011/24 è soggetto a tale doppio limite, il sistema sanitario dello Stato membro di affiliazione non corre un rischio di costi supplementari legato alla copertura dell’assistenza sanitaria transfrontaliera”[42]. Gli Stati Membri, esonerati dai rischi finanziari che potrebbero discendere dalla liberalizzazione della mobilità transfrontaliera per motivi medici, si rendono guardiani della salute del singolo e della collettività nonché del diritto dei cittadini di recarsi in Stati diversi per ricevere cure mediche, di matrice squisitamente europea.

 

 

 

 

 


[1] Corte giust. eur., 29 ottobre 2020, A. v Vaselības ministrija.
[2] Regolamento (CE) n.883/2004 del Parlamento e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. Link
[3] Direttiva 2011/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2011 concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera. Link
[4] Regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità. Link
[5] Per maggiori approfondimenti si rimanda a W. Palm, I. A. Glinos, “Enabling patient mobility in the EU: between free movement and coordination,” In Health Systems Governance in Europe: The Role of European Union Law and Policy, Health Economics, Policy and Management, E. Mossialos, G. Permanand, R. Baeten, T. K. Hervey (eds.), Cambridge University Press, Cambridge, 2010.
[6] Corte giust. eur., 31 gennaio 1984, Luisi & Carbone.
[7] Si trattava dell’art.13 del Decreto-legge 6 giugno 1956, n. 476 convertito con modificazione dalla Legge 25 luglio 1956, n. 786.
[8] Corte giust. eur., 31 gennaio 1984, Luisi & Carbone, par. 16.
[9] Corte giust. eur., sentenza 4 ottobre 1991, The society for the protection of unborn children Ireland ltd V. Stephen Grogan e altri.
[10] Corte giust. eur., sentenza 4 ottobre 1991, The society for the protection of unborn children Ireland ltd V. Stephen Grogan e altri, par. 18.
[11] Corte giust. eur., sentenza 28 aprile 1998, Kohll.
[12] Corte giust. eur., sentenza 28 aprile 1998, Decker.
[13] Nel caso Kohll la normativa europea di riferimento era costituita dagli artt. 59 e 60 del Trattato CEE.
[14] Nel caso Decker la normativa europea di riferimento era costituita dagli artt. 30 e 36 del Trattato CEE.
[15] Si tratta della così detta Dassonville formula, coniata dalla Corte nel caso Dassonville (sentenza 11 luglio 1974, C-8/74), con la quale la Corte ha stabilito che ogni norma nazionale che, effettivamente o meno, limiti la libertà di circolazione nel mercato interno, è contraria alle regole dei Trattati. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a F. Weiss, C. Kaupa, European Union Internal Market Law, Cambridge University Press, 2014.
[16] Corte giust. eur., sentenza 28 aprile 1998, Kohll, par. 28.
[17] Art. 22 Regolamento 1408/71/CEE, par.1 lett. c)
[18] Si veda nota a piè di pagina 15.
[19] Corte giust. eur., sentenza 28 aprile 1998, Kohll, par. 54.
[20] Corte giust. eur., sentenza 28 aprile 1998, Decker, par. 46.
[21] Il tema riguardante la differenza delle cure erogate in ambito ospedaliero o non-ospedaliero è stato affrontato dalla Corte in Corte giust. eur., sentenza 12 luglio 2001, Smits e Peerbooms e Corte giust. eur., sentenza 13 maggio 2003, Müller-Fauré e van Riet.
[22] Corte giust. eur., sentenza 16 maggio 2006, Watts.
[23] Williamo Beverdige pose le sue idee per la riforma del sistema sociale inglese in un rapporto presentato nel 1942 al governo di Sua Maestà dal titolo “Social Insurance and Allied Services”.
[24] Questo tipo di organizzazione sanitaria è presente anche in Italia ed è stata realizzata con la riforma operata dalla Legge 23 dicembre 1978, n. 833.
[25] Per maggiori approfondimenti si veda I. Masulli, Welfare State e patto sociale in Europa. Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia 1945 – 1985, CLUEB, 2003.
[26] LUISS BUSINESS SCHOOL, L’evoluzione dei modelli sanitari internazionali a confronto per costruire il servizio sanitario nazionale del futuro, AIOP, 2016.
[27] Un servizio è tale quando è fornito a fronte di una retribuzione che viene riconosciuta al prestatore. Si veda art. 57 TFUE e per maggiori approfondimenti C. Barnard, The Substantive Law of the EU: the four freedoms, Oxford University Press, 2019.
[28] Art. 6 TFUE.
[29] Art. 46 TCE.
[30] La Corte ha identificato come giustificazioni alla limitazione di libertà di circolazione dei servizi degli interessi legittimi quali il rischio di grave alterazione dell’equilibrio finanziario del sistema di previdenza sociale e l’obiettivo di mantenere un servizio medico-ospedaliero equilibrato ed accessibile a tutti i cittadini in quanto miri a realizzare un elevato livello di tutela della salute umana (Corte giust. eur., sentenza 28 aprile 1998, Kohll; Corte giust. eur., sentenza 12 luglio 2001, Smits e Peerbooms; Corte giust. eur., sentenza 13 maggio 2003, Müller-Fauré e van Riet; Corte giust. eur., sentenza 16 maggio 2006, Watts; Corte giust. eur., sentenza 5 ottobre 2010 Elchinov).
[31] Corte giust. eur., 29 ottobre 2020, A. v Vaselības ministrija, punto 25.
[32] Art. 20 Regolamento 883/04, I comma, lett. c) n. i).
[33] Corte giust. eur., sentenza 5 ottobre 2010, Elchinov, par. 42 e giurisprudenza ivi citata.
[34] Così in Corte giust. eur., sentenza 12 luglio 2001, Smits e Peerbooms, par. 103; Corte giust. eur., sentenza 13 maggio 2003, Müller-Fauré e van Riet, par. 89; Corte giust. eur., sentenza 23 ottobre 2003, Inizan, par. 45; Corte giust. eur., sentenza 16 maggio 2006, Watts, par. 61; Corte giust. eur., sentenza 5 ottobre 2010 Elchinov, par. 64.
[35] Corte giust. eur., sentenza 29 ottobre 2020, A v Vaselības ministrija, punto 29 e giurisprudenza ivi citata.
[36] Corte giust. eur., 29 ottobre 2020, A. v Vaselības ministrija, punto 24 e giurisprudenza ivi citata.
[37] Considerando n. 6 Direttiva 2011/24/UE.
[38] Considerando n. 10 Direttiva 2011/24/UE.
[39] Art. 8 Direttiva 2011/24/UE, I comma.
[40] Art. 8 Direttiva 2011/24/UE, VI comma.
[41] Art. 8 Direttiva 2011/24/UE, V comma.
[42] Corte giust. eur., sentenza 243/19, A. v Vaselības ministrija, punti 74 e 75.

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