Il diritto di libertà religiosa nelle pronunce delle Corti e degli altri Organi sovranazionali. Profili di tutela, nuove tensioni e prospettive per il futuro

Il diritto di libertà religiosa nelle pronunce delle Corti e degli altri Organi sovranazionali. Profili di tutela, nuove tensioni e prospettive per il futuro

La libertà religiosa viene oggi declinata attraverso nuove formule giuridiche ricche di molteplici e, a volte, contrastanti contenuti[1].  Essa viene  definita dalla dottrina come il “frutto complessivo della civiltà connaturato al diritto alla coscienza che eleva la cultura delle persone”[2], il cui effetto è destinato a ripercuotersi non soltanto sullo Stato, ma anche su tutti i cittadini, anche se non aderenti ad un qualche credo religioso[3]. Tale liberta ha saputo rinnovarsi con il passare del tempo e arricchirsi di tematiche sempre più ampie, slegate dall’originario significato positivo (ormai limitato ad una veste pietrificata) dalle quali discende una tensione evolutiva innegabile, portatrice di una ventata fresca di atipiche declinazioni. Di contro vi è il rischio di limitare tale liberta alla mera sfera teorica e di principio, slegandola dai casi concreti ai quali invece e strettamente connessa, per i quali, e impellente fornire concrete soluzioni[4]. In effetti, la problematicità di fondo alla quale si va incontro è quella derivante dalla difficile interpretazione del concetto di liberta religiosa stessa, la quale ad una prima e rapida lettura appare essere portatrice di una serie di concetti secolari dall’univoco significato, ma che invece nasconde una difficile declinazione, derivante dalle variabili delle quali essa si compone, tutt’altro che chiare e coerenti. Si tratta dunque di un concetto solo apparentemente semplice, invece ricco di molteplici connessioni e foriero di svariate combinazioni di situazioni eterogenee tra di loro[5]. Del resto, appare impossibile definire «come propriamente giuridica l’essenza della libertà religiosa»[6], dovendosi ritenere, che la libertà religiosa «si presenta sempre, anzitutto ed essenzialmente, non come un istituto ontologicamente giuridico, ma propriamente come un valore»[7]: un valore religioso, indubbiamente, filosofico, etico e al contempo politico che «si riconnette, geneticamente e strutturalmente, alla concezione dell’uomo e della società che ha accompagnato»[8]; un valore che «non è di per se stesso né assoluto, né universale, ma si rivela essenzialmente come valore storico, relativo ad una cultura data, analizzabile e intelligibile unicamente nella sua connessione col sistema di valori proprio di ogni cultura»[9]. Sin dai tempi più antichi, infatti, è stato affermato con forza il «diritto intangibile della coscienza individuale alla dulcissima libertas […] di professare quella fede, in cui effettivamente si creda e che spontaneamente si sia eletta al di fuori di ogni ingerenza e pressione della autorità e senza incontrare alcuna coartazione o repressione da parte dello Stato»[10]. La libertà religiosa, è quella sottilissima linea che sta in mezzo e che si propone di tutelare, non il bene della fede in sé, che in quanto tale è personalissima e legata ai propri convincimenti verso il trascendente, bensì il diritto del singolo o dei gruppi di assumere gli orientamenti che ritengano più consoni ai propri convincimenti, in relazione alla manifestazione esterna di quella personalissima fede religiosa. Al riguardo deve essere sottolineato che il graduale processo di mescolanza di culture, fedi ed etnie, coattivamente chiamate ad integrarsi su un territorio divenuto d’un tratto multietnico e multiculturale ed il progressivo innalzamento di una barriera d’incomprensioni tipica di quella che la dottrina chiama “l’età della diversità”[11], ha generato un rinnovato interesse da parte dell’ordinamento giuridico internazionale il quale è chiamato a rispondere, seppur con tardività, alle nuove esigenze non più soltanto culturali ma anche religiose della popolazione.

Per quanto attiene, poi, alle pronunce in ambito sovranazionale in materia di libertà religiosa vi è da dire che esse appaiono numerose e assai variegate[12]. Molte di esse, ad esempio, richiamano ed applicano la dottrina del margine di apprezzamento[13].

Del resto, la previsione di restrizioni al godimento dei diritti di libertà riconosciuti dagli art. 8, 9, 10 e 11 della CEDU consente l’individuazione di “una vera e propria sfera di discrezionalità nella quale ogni Stato determina il rapporto tra diritti collettivi e diritti individuali”, ossia l’individuazione dell’esistenza di un “margine statale di apprezzamento” nelle valutazioni che attengono da una parte alla “necessarietà” della misura restrittiva del diritto di libertà convenzionale e, dall’altra, alla “proporzionalità” tra tale misura e lo scopo legittimo perseguito. Il conferimento di un “margine di apprezzamento” alle autorità nazionali europee è tuttavia affiancato dall’operatività di tre clausole di garanzia previste nei succitati articoli, “legalità, necessità e democraticità” (della misura restrittiva statale), la qual cosa rende necessaria un’applicazione equilibrata della previsione del margine statale di apprezzamento, affinché sia evitata un’ingiustificata sofferenza nella fruizione delle libertà garantite dal dettato convenzionale.

Alla luce di ciò, da un lato spetta alle pubbliche potestà nazionali il compito di valutare il possibile concretarsi di situazioni di pericolo in relazione alla tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale, della salute, della morale e di altri diritti e libertà fondamentali; dall’altro la Corte di Strasburgo (Corte EDU) è tenuta, se adita, a fornire una valutazione del rispetto del principio di necessità e proporzionalità da parte delle misure restrittive nazionali, tale da contenere il pericolo di un uso disinvolto ed eccessivo – per il perseguimento di finalità nazionali specifiche – della clausola derogatoria autorizzante eventuali limitazioni all’esercizio delle libertà garantite dalla CEDU. Di qui l’esistenza da ultimo di un “doppio margine di apprezzamento”, ossia quello riconosciuto alle autorità statali e quello competente alla Corte di Strasburgo[14].

La dottrina del “doppio margine di apprezzamento” è una costruzione teorica formulata dalla Corte EDU compiutamente già nel caso Handyside c. Regno Unito[15]e considerando non solo le previsioni degli articoli 8, 9, 10 e 11 della CEDU, bensì anche “il principio di sussidiarietà” inteso nell’accezione tipica del diritto dell’U.E., quella legata al criterio delle competenze di attribuzione, piuttosto che nell’accezione di sussidiarietà che informa il sistema della Convenzione europea, quella di obbligo degli Stati di tutelare in prime cure i diritti convenzionali. In effetti il principio di sussidiarietà dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea esprime una ratio analoga a quella rintracciabile nella previsione del “doppio margine di apprezzamento” da parte della CEDU nel contesto del Consiglio d’Europa, ossia rendere puramente sussidiario, possibile solo ove strettamente necessario ai fini della realizzazione degli obiettivi di tutela interessanti l’Organizzazione Internazionale di specie, l’intervento degli organi sovranazionali all’interno dei singoli Stati membri, sì da favorire nella maggior misura possibile la libertà di autoregolamentazione degli Stati ed il rispetto delle peculiarità storiche, sociali, culturali di ciascuno di essi nell’adozione dei provvedimenti interni volti a realizzare obiettivi internazionalmente convenuti.

Con specifico riguardo alla libertà di religione, nel sistema giuridico dell’UE, la presenza del principio di sussidiarietà (che possiamo considerare “l’equivalente”, in questo sistema, del principio del “doppio margine di apprezzamento” scaturente dalla CEDU) e della previsione di cui all’art.17 del TFUE[16] («l’Unione rispetta e non pregiudica lo statuto di cui beneficiano, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose negli Stati membri») fa sì che si debba tener conto delle singolarità di ciascun Paese e consente che gli Stati disciplinino con ampia libertà le relazioni fra i poteri pubblici e le confessioni religiose e che essi dispongano di un sistema proprio, quello che si è affermato nel passato storico di ciascuno di essi; sicché viene configurato solo come secondario ed eccezionale l’intervento dei competenti organi europei nelle scelte operate all’interno dagli Stati, in attuazione delle norme dell’UE in materia religiosa[17]. Nel sistema di diritto del Consiglio d’Europa, l’esistenza della dottrina del doppio margine di apprezzamento con riguardo alla materia di religione, fa sì che la Corte EDU, in particolare, riconosca agli Stati-parti della Convenzione un certo margine di apprezzamento nel giudicare dell’esistenza e dell’estensione della necessità di un’ingerenza statale nelle esternazioni della libertà di religione, individuali e collettive, previste dalla CEDU; qui il margine di apprezzamento statale va di pari passo con un controllo europeo che, tenendo conto della specifica posta in gioco ossia della necessità di mantenere un reale pluralismo religioso, inerente alla nozione di società democratica, si appunta sulla legge interna dello Stato e sulle decisioni che la applicano per verificare che l’una e le altre realizzino un’ingerenza statale che risponde ad un «bisogno sociale imperioso» e che è «proporzionata al fine legittimo perseguito», come richiesto dal par.2 dell’art.9 CEDU.

Quanto alla dottrina del doppio margine di apprezzamento va altresì segnalato che poggia sulla convinzione che, in linea di principio, le autorità nazionali siano meglio posizionate rispetto alla Corte di Strasburgo per valutare in prima istanza il «bisogno sociale pressante» che dà corpo al requisito della “necessarietà” e per valutare la sussistenza di “proporzionalità” tra quella (la necessarietà) e la misura che s’intende adottare. Di conseguenza, è agli Stati che competono in prima istanza tali valutazioni; tuttavia poiché il riconoscimento di una piena discrezionalità su questi punti alle autorità nazionali, priverebbe la Convenzione di ogni efficacia, alla Corte compete a sua volta un secondo margine di apprezzamento che incide sul medesimo oggetto e comporta un sindacato sulla valutazione operata dallo Stato convenuto in giudizio davanti alla Corte[18]. L’esigenza sottesa alla costruzione di tale dottrina è, da un lato, quella di garantire un equilibrio tra la tutela delle libertà convenzionali e il rispetto delle caratteristiche degli ordinamenti giuridici nazionali, dall’altro sembra essere anche quella di consentire alla Corte di espletare il proprio controllo senza essere sempre costretta a una puntuale e rigorosa motivazione in alcuni casi nei quali ritiene “consigliabile” avallare la condotta statale.

Attraverso le varie sentenze della Corte nelle quali essa ha richiamato ed applicato la dottrina del doppio margine di apprezzamento, è possibile rinvenire alcuni parametri di cui si è servita per determinare l’ampiezza del margine di apprezzamento riconoscibile alle autorità statali nella limitazione di specifiche libertà convenzionali. Tali parametri si differenziano a seconda delle peculiarità della fattispecie giudicanda e non costituiscono un numero chiuso, cosicché alla Corte è consentito individuarne volta a volta di nuovi. Fin qui dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sono distinguibili i seguenti parametri: -che la Corte non è disposta a riconoscere agli Stati alcuna discrezionalità quando si tratti di restrizioni generali, indiscriminate e automatiche apportate a diritti convenzionali di importanza vitale; -che le libertà convenzionali sono ordinate dalla Corte secondo una gerarchia che ne riflette la diversa natura “materiale”, cosicchéa seconda del diritto coinvolto il margine tende a restringersi o ad ampliarsi; -che alcuni «scopi legittimi», più di altri, hanno la capacità di estendere il perimetro di azione della discrezionalità statale quando invocati a sostegno delle misure restrittive; che nelle questioni che coinvolgono le relazioni tra Stati e organizzazioni religiose il margine tende ad essere più ampio di quello che opera quando si tratti di disciplinare diritti di libertà dell’individuo che non attingono al piano di quei rapporti; – che il margine di apprezzamento statale si riduce quando i «diritti e le libertà altrui» per la cui protezione vengono applicate misure restrittive alle posizioni giuridiche convenzionali, non siano, a loro volta, protetti dalla Convenzione (mentre tende a riallargarsi quando il giudizio di bilanciamento è “intraconvenzionale”); -che, in materia di non discriminazione, il margine è più stretto quando l’elemento sul quale fà perno la differenza di trattamento giuridico contestata sia compreso nell’elenco contenuto nell’art.14 Conv.; -che quando si tratti di obbligazioni di “non fare” che la Convenzione pone in capo agli Stati, impedendo loro di frapporre ostacoli alla libera estrinsecazione dei diritti di libertà, il margine di apprezzamento tende a restringersi;- che quando sussiste un consenso più o meno diffuso a livello europeo in ordine alla questione di volta in volta esaminata ne deriva una maggiore o minore restrizione del margine di apprezzamento, più precisamente la Corte tende ad allargare o restringere il margine di apprezzamento statale in misura inversamente proporzionale all’ampiezza del consenso registrabile tra i Paesi del Consiglio d’Europa.

Il ricorso a quest’ultimo parametro, a partire dalla sentenza in cui per la prima volta si è profilata la dottrina del margine di apprezzamento, la sent. Handyside c. Regno Unito, è divenuto una costante nella giurisprudenza di Strasburgo e talvolta la Corte si è spinta a considerare un’area di consenso più vasta di quella del Consiglio d’Europa, riferendosi anche ad esempio al consenso sussistente tra i Paesi dell’U.E. o tra Paesi firmatari di altri atti di diritto internazionale pattizio. L’impiego di tale elemento di valutazione desta qualche preoccupazione perché si teme che possa assumere un peso determinate nelle decisioni della Corte laddove invece quest’ultima non dovrebbe lasciare l’ultima parola nell’interpretazione dei diritti fondamentali, alle voci della politica rappresentativa – che negli ultimi tempi ha dimostrato di essere più attenta alla soddisfazione di (malintese e strumentali) esigenze di sicurezza sociale, che non alla tutela dei diritti dell’uomo – ma rivendicare la sua funzione ontologica di interprete-mediatore di ultima istanza. Si teme che, soprattutto in questo momento storico, in cui vari fattori hanno messo in crisi il progetto d’integrazione europea e si lamenta da più parti una carenza di “effettività” della tutela internazionale dei diritti umani, la Corte anziché “far leva sulla sua posizione unica di voce collettiva sopranazionale di ragione e di moralità, rinunci all’imposizione di standards autenticamente internazionali, vanificando così la propria missione di custode esterno contro la tirannia delle maggioranze” (S. Mancini, 2010), venendo altresì meno al suo ruolo di forza motrice della coesione regionale ed assumendo invece quello di spettatrice passiva della disgregazione della compagine politica-giuridica europea.

Le pronunce della Corte EDU in materia di libertà religiosa nelle quali si è fatto ricorso alla dottrina del margine di apprezzamento statale sono numerose e in molte di esse la Corte ha utilizzato la dottrina in questione per impedire che le ragioni storiche o le motivazioni politiche di un Paese conducessero a lesioni della libertà di religione. L’esempio più rappresentativo è il caso Chiesa metropolitana di Bessarabia e altri c. Moldavia, in cui la Corte, a seguito di una dettagliata analisi delle circostanze del caso, rifiutò che semplici ipotesi, supposizioni o manifestazioni (ritenute rilevanti dalla Stato convenuto) potessero giustificare una restrizione della libertà di religione. Anche nei casi Kokkinakis c. Grecia e Manoussakis c. Grecia la Corte decise che le misure restrittive del diritto di propagare la fede o di stabilire luoghi di culto, adottate dal governo greco, erano contrarie alla Convenzione e dunque in questi due casi il margine di apprezzamento non diede luogo a restrizioni della libertà di religione dei gruppi minoritari presenti in Grecia. In taluni casi invece l’applicazione della dottrina del margine di apprezzamento presenta profili critici. Nel caso Leyla Sahin c. Turchia la Corte di Strasburgo, in nome del margine di apprezzamento statale, ha ritenuto proporzionata alla tutela del principio costituzionale turco di laicità (integrativo dell’ordine pubblico), inteso nell’ordinamento giuridico turco come principio di neutralità e asetticità dello Stato da qualsivoglia elemento religioso, la misura restrittiva disposta dal governo turco di vietare l’uso del foulard alle donne di fede islamica all’interno delle università pubbliche. Una tale pronuncia sembra aver dato eccessivo spazio al margine statale di apprezzamento ed aver sacrificato i contenuti della libertà di religione, come sancita dalla CEDU, alla peculiare interpretazione del principio di laicità promossa dallo Stato turco. Infatti non dovrebbe essere consentita nel contesto di vigenza della CEDU, un’interpretazione della laicità dello Stato tale da impedire la manifestazione pacifica della libertà religiosa individuale (o collettiva), anche negli spazi pubblici, da parte di privati poiché tale tipo di manifestazione rientra nella sfera di tutela della Convenzione. Anzi, proprio alla Corte competerebbe garantire un insieme di facoltà riconducibili alla libertà di religione (qual diritto di ogni persona che non può essere subordinato alle decisioni o alle “particolari congiunture” di ciascun Paese) e porre sotto la propria tutela questo spazio di libertà comune, facendo operare al di là di esso il margine statale di apprezzamento e la libertà degli Stati di optare per sistemi di relazione Chiesa-Stato diversificati. Anche nel caso Refah Partisi c. Turchia la Corte si dimostra incline a conferire un’ampia possibilità di espansione al margine statale di apprezzamento, arretrando di fronte alle scelte politiche, legislative e giudiziarie effettuate dalle autorità nazionali. Essa nell’esercizio del suo potere di controllo rispetto alla proporzionalità della misura applicata dalle autorità nazionali turche nel perseguimento del fine della conservazione degli assetti democratici nazionali, convalida le scelte di tutela preventiva effettuate dal governo turco, quelle di sciogliere un partito politico che sosteneva un progetto in contraddizione coi principi democratici e con i diritti fondamentali della persona umana e che si riteneva avesse concrete possibilità di implementare le sue aspirazioni eversive e di instaurare da ultimo uno Stato teocratico. Tuttavia la Corte anche in quest’occasione sembra aver giustificato un’eccessiva discrezionalità statale la quale determinava nel caso di specie una non trascurabile lesione di altri valori fondamentali nel sistema CEDU e per di più costituenti i pilastri strutturali di un sistema giuridico pluralista, democratico e laico, quali la libertà d’azione, d’espressione e di religione.

Da ultimo il caso Lautsi c. Italia ha rappresentato una curiosa vicenda applicativa della dottrina del margine d’apprezzamento statale, in primis poiché avvenuta “in seconda battuta” ossia soltanto nella sentenza della Grande Chambre, successiva alla sentenza di prima istanza della Seconda Sezione della Corte; in secundis poiché l’applicazione di una tal dottrina è valsa a ribaltare l’esito del giudizio della Corte di Strasburgo sulla compatibilità o meno con il principio di laicità europea[19] dell’obbligo (sancito nell’ordinamento giuridico italiano) di esposizione nelle scuole pubbliche del crocifisso ed (è altresì valsa) a garantire l’esercizio della libertà di religione negli spazi pubblici; in terziis poichè a fronte del riconoscimento dell’esistenza per l’Italia (e per ogni altro Stato vincolato dalla CEDU) di un’obbligazione positiva, ex art. 2 del I Protocollo addizionale alla CEDU, “a promuovere il rispetto delle scelte dei genitori sull’educazione e l’istruzione dei lor figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche”, nella pronuncia relativa al caso di specie, si afferma dalla Corte che la previsione dell’obbligo del crocifisso nelle aule scolastiche da parte dell’Italia è pienamente in linea con tale obbligazione e che, anzi, non sussistendo un ampio consenso degli Stati membri del Consiglio d’Europa nella materia di specie, ossia “il diritto all’istruzione nel rispetto della propria libertà di religione”, allora fosse da riconoscere all’Italia un ampio margine di apprezzamento su come eventualmente limitare l’esercizio di un tal diritto, per una delle ragioni imperative ex art.9 della CEDU[20].

Uno degli aspetti della libertà religiosa che necessità di particolare tutela e che è stata oggetto di diverse pronunce della giurisprudenza sovranazionale è certamente quella che attiene alla sua dimensione individuale. Nell’ambito della tutela della libertà religiosa individuale infatti i giudici si trovano a dover bilanciare il diritto di libertà religiosa con gli interessi pubblici o con i diritti dei terzi, divergenti di caso in caso. L’ampia e multiforme casistica ed un numero assai diversificato di fini perseguibili dai vari attori sociali, obbliga le Corti ad analizzare il problema della “identità religiosa in uno Stato pluralista”, sotto vari punti di osservazione, cosa che complica notevolmente l’attività interpretativa delle disposizioni sovranazionali consacranti la libertà di religione.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha generalmente esaminato e giudicato le questioni concernenti la libertà di religione individuale ponendo a confronto il principio di autodeterminazione dell’individuo, da un lato, e le istanze di ordine pubblico e i diritti dei terzi, dall’altro, e cercando un punto di equilibrio tra loro.

Un primo gruppo di sentenze della Corte mette in rilievo l’interpretazione piuttosto restrittiva da essa adottata in relazione alla libertà di religione e di coscienza di cui all’art.9 CEDU con specifico riguardo alla libertà di manifestare il proprio credo mediante pratiche. La Corte ha inteso il termine pratiche come non inclusivo di tutte le azioni motivate o influenzate da una religione o un credo ed in particolare ha rifiutato di estendere la protezione dell’art.9 a quelle manifestazioni della libertà religiosa individuale “non convenzionali” ossia non consistenti in attività di insegnamento religioso né in specifiche pratiche cerimoniali. Da tali sentenze si evince altresì la distinzione promossa dalla Corte tra misure limitative statali con effetti diretti e con effetti indiretti sulla libertà religiosa, da cui la Corte ha desunto che solo le prime, ossia solo le misure statali “direttamente” finalizzate a limitare la manifestazione della propria religione o credo, determinano un’interferenza dello Stato nell’esercizio del diritto di libertà religiosa o di coscienza e che solo in questi casi la Convenzione impone agli Stati di provare che le misure restrittive adottate siano “giustificate” alla luce dell’art. 9 par.2, cioè necessarie in una società democratica, volte a perseguire uno scopo legittimo e proporzionate alla realizzazione dello stesso. Diversamente le leggi statali c.d. “neutrali”, cioè finalizzate a realizzare scopi legittimi nell’interesse delle istituzioni o della comunità politica, che eventualmente collidano con gli obblighi moral-religiosi disciplinanti la vita di alcuni individui e che limitino “indirettamente” il diritto di libertà religiosa individuale, non rappresenterebbero una forma di restrizione statuale del diritto di libertà religiosa perciò non opererebbe la protezione offerta dall’art.9 CEDU ai comportamenti religiosamente motivati e non si richiederebbe allo Stato di provare la compatibilità della propria legge con i limiti imposti dal par.2, art.9 CEDU.

In particolare la Corte di Strasburgo ha applicato l’interpretazione e gli schemi di ragionamento suesposti nei casi Kokkinakis e Buscarini, in cui ha ravvisato la ricorrenza di misure statali “direttamente limitative” della sfera religiosa individuale, e Kjeldsen, Efrstratiou e Valsamis nei quali ha riconosciuto l’emanazione di misure statali “indirettamente limitative” della libertà di religione e credo.

Nel caso Kokkinakis c Grecia, 25 maggio 1993, riguardante la vicenda di un testimone di Geova condannato dai giudici greci per aver violato il divieto assoluto di proselitismo religioso posto dalla legge penale greca e condannato tuttavia senza che vi fossero sufficienti prove dell’“illiceità” della sua attività di proselitismo ossia che fosse stata svolta con ricorso a mezzi abusivi o fraudolenti per diffondere il proprio credo, la Corte EDU ha evidenziato puntualmente che la legislazione greca sul divieto di proselitismo si configurava come una misura “direttamente limitativa” della libertà di religione – per questo soggetta alle prescrizioni di cui al par.2, dell’art. 9 CEDU – e che la sua applicazione “in modo indiscriminato” – senza distinguere tra chi effettuasse il proselitismo con mezzi illeciti e chi lo effettuasse con mezzi leciti – equivaleva a “limitare senza giusta motivazione” la libertà di manifestazione della propria religione o credo.

Nel caso Buscarini et al. c. San Marino, 18 febbraio 1999, la Corte adotta la medesima ratio decidendi impiegata nel caso Kokkinakis. Nella controversia di specie i ricorrenti al giudice europeo, parlamentari neo-eletti della Repubblica di San Marino, lamentavano la violazione della libertà di professare e praticare la propria religione o credo, per aver dovuto apprestare, necessariamente ossia sotto pena di perdere il proprio seggio parlamentare, giuramento alla Costituzione sul Vangelo, così essendo stati obbligati a giurare fedeltà a una particolare religione. La Corte in questo caso ha ritenuto che la legge elettorale statale che conteneva l’imposizione del giuramento religioso ai neo-parlamentari sotto pena di perdere l’incarico, era “direttamente limitativa” della libertà di religione nonchè contraria all’art.9 della CEDU poichè esso «implica, inter alia, la libertà (absoluta) di aderire o meno ad un credo religioso e la libertà di praticare o meno una religione» mentre la misura del caso di specie non consentiva la (assolutamente) libera adesione ad una religione bensì equivaleva ad imporre l’obbligazione di dichiarare il proprio credo in una religione che non era necessariamente la propria; tal misura è infine giudicata dalla Corte come «non necessaria in una società democratica» .

Nel caso Kjeldsen, Busk Madsen and Pedersen c. Danimarca,7 dicembre 1976, concernente l’opposizione di alcuni genitori all’insegnamento obbligatorio dell’educazione sessuale nella scuola pubblica secondaria frequentata dai propri figli, in ragione della propria convinzione che competesse alla famiglia e non alla scuola impartire una tale educazione data la sua importanza e le sue implicazioni morali, la Corte scorge nella normativa statale volta ad organizzare il sistema scolastico e a fissare il programma di studi delle scuole pubbliche, un provvedimento c.d. “neutrale” cioè solo “indirettamente limitativo” della libertà di religione o convinzione e del correlato diritto dei genitori di scegliere l’educazione religiosa o filosofica dei propri figli; pertanto la Corte non ha riconosciuto operatività nel caso di specie all’art. 9 della CEDU ed ha applicato secondo un’interpretazione restrittiva il diritto dei genitori di scegliere l’educazione dei propri figli, di cui all’art. 2 del Primo Protocollo della CEDU. Più precisamente la Corte ha affermato che ai fini del rispetto del suddetto diritto dei genitori, lo Stato ha un solo obbligo specifico nell’ambito scolastico pubblico, quello di non favorire attività di indottrinamento degli studenti contro la volontà dei genitori; d’altro canto il diritto dei genitori di scegliere l’educazione più congrua per i propri figli non conferisce loro un diritto di richiedere allo Stato l’esenzione dei loro figli dall’insegnamento di quelle materie del programma di studi scolastici che, per motivi di coscienza, disapprovino.

Relativamente ai casi Efstratiou c. Grecia e Valsamis c. Grecia, entrambi del 18 dicembre 1996, si parla di “sentenze gemelle” poichè i testi delle due decisioni sono quasi identici così come i fatti di causa alla loro base. Nei due casi controversi sono venuti in rilievo i fatti di due studenti testimoni di Geova, frequentanti le scuole secondarie, rifiutatisi per motivi religiosi di prendere parte ai cortei scolastici che furono organizzati in occasione della festa nazionale commemorativa dello scoppio della guerra, nel 1940, tra la Grecia e l’Italia fascista; nonostante il non accoglimento da parte della scuola della richiesta di poter assentarsi dal corteo, i due studenti greci si assentarono lo stesso e la loro mancata partecipazione fu punita con un giorno di sospensione. La Corte in questi casi, analogamente alla vicenda Kjeldsen e al., ravvisa nei provvedimenti dell’autorità scolastica statale relativi al corteo e alla sua organizzazione, misure “neutrali” cioè solo indirettamente limitative della libertà di religione ed in quanto tali non interferenti con il diritto dei ricorrenti di manifestare la propria religione o credo, dunque irrilevanti per l’art. 9 della CEDU nonché per l’art. 2 del Primo Protocollo, ove è sancito il diritto dei genitori all’educazione dei figli secondo le proprie credenze (religiose e non) ed il diritto all’istruzione; la Corte non ravvisa nulla che potesse costituire un’offesa alle convinzioni pacifiste degli studenti ricorrenti, né nello scopo del corteo né nella sua organizzazione, e non riconosce una privazione del diritto all’istruzione nella punizione inflitta agli studenti, data la mitezza della stessa; inoltre a proposito della sanzione disciplinare applicata agli studenti, richiamando un’affermazione della Commissione europea, afferma che «l’art.9 non conferisce un diritto ad essere esonerati da norme disciplinari che sono applicate in via generale e in modo neutro»[21].

Un secondo gruppo di sentenze della Corte EDU si fonda su un’interpretazione peculiare – diversa da quella avallata nelle precedenti pronunce relative alla dimensione collettiva della libertà religiosa – del principio di “neutralità” statale e del concetto di “pluralismo”, che ha spinto la Corte a ritenere legittime determinate limitazioni apposte dagli Stati alla manifestazione della libertà religiosa individuale. La Corte per tenere conto delle particolarità istituzionali di alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa, segnatamente della loro peculiare concezione della laicità dello Stato (ossia come assenza di ogni traccia religiosa negli spazi pubblici) e della ricomprensione di una tal concezione nei principi di ordine pubblico, avalla un’accezione “negativa” di neutralità dello Stato (esclusione della religione da certe sfere della vita pubblica, in particolare dal comparto scolastico, sicché qualsiasi posizione ideologica o filosofica può essere visibile purché non di natura religiosa) ed un’accezione di pluralismo “mutilante” per esso, poichè lo priva della sua piena natura che è inclusiva di ogni posizione, religiosa o no, esistente nella concreta realtà sociale. Tuttavia è anche distinguibile un terzo gruppo di sentenze della Corte nelle quali essa non ha appoggiato le summenzionate nozioni sui generis di neutralità e di pluralismo, che sembrano deformanti e lontane dal vero significato dei due termini, e nelle quali ha escluso che tali accezioni siano le sole accettabili. In tali sentenze è stata riaffermata la concezione di pluralismo derivante dalle passate pronunce[22], quale riconoscimento e rispetto «veritables de la diversitè et de la dynamique des traditions culturelles, des identitès ethniques et culturelles, des convictions religieuses»[23] ed è stata pure riaffermata la connessa concezione “positiva” di neutralità dello Stato, quale apertura di esso al pluralismo religioso e filosofico al proprio interno, ossia negli spazi pubblici. L’adozione della diversa prospettiva sul pluralismo e sulla neutralità dello Stato porta altresì la Corte ad inquadrare differentemente il problema della presenza di segni di religiosità individuale nello spazio pubblico, cioè come una questione non precipuamente coinvolgente la laicità dello Stato bensì, propriamente, la libertà di manifestare, professando e praticando, la propria religione o credo in pubblico[24]. Di qui la Corte perviene ad una soluzione della suddetta questione che risulta effettivamente capace di protezione verso quell’aspetto della libertà di religione esplicitamente previsto dall’art. 9 CEDU, consistente nel diritto degli individui ad esprimere le proprie convinzioni religiose mediante pratiche cioè adeguando la propria condotta ai propri dettami morali, sia nella sfera privata che nel contesto pubblico, e sempre che si tratti di condotta lecita.

Nel secondo gruppo di sentenze sono riconducibili in particolare quelle inerenti ai casi Dahlab, Dogru e Kervanci,Leyla Sahin e la prima sentenza della Corte EDU sul caso Lautsi; nel terzo gruppo s’inseriscono invece la sentenza sul caso Ahmet Arsalan nonchèla sentenza della Grande Chambre della Corte EDU sul caso Lautsi.

Nel caso Dahlab c. Svizzera, 15 febbraio 2001, concernente l’imposizione ad un’insegnante convertitasi all’Islam del divieto d’indossare il tradizionale velo durante le ore d’insegnamento, inforza di una legge cantonale volta a preservare il carattere laico delle scuole pubbliche, la Corte di Strasburgo nella sua dichiarazione d’irricevibilità del ricorso proposto dall’insegnante si spinge ad una valutazione di merito della questione ed afferma che la legge cantonale svizzera ha effetti limitativi diretti sulla libertà di religione e perciò deve risultare “validamente giustificata” dallo Stato ai sensi del par. 2, art. 9 CEDU, ma allo stesso tempo riconosce una tal giustificazione alla legge contestata, tenuto conto del concetto di neutralità/laicità fatto proprio dallo Stato svizzero, in grado di legittimare alcune restrizioni del diritto dei funzionari pubblici a manifestare la propria religione o credo, specialmente nel settore scolastico, nel quale si è riconosciuto che gli studenti possono subire facilmente pressioni psicologiche e che la pace religiosa deve essere pertanto protetta con estrema cura. Nella pronuncia non è ben chiarito il nesso causale tra l’utilizzo di simboli religiosi (il velo islamico, in ispecie) e la lesione della pace religiosa; inoltre è avallata quella concezione di neutralità/laicità dello Stato funzionale a una fittizia irreligiosità del personale scolastico piuttosto che al realistico pluralismo religioso e filosofico proprio della società.

Il caso Leyla Sahin c. Turchia, 10 novembre 2005, è stato deciso dalla Corte in continuità con la nozione di neutralità dello Stato adottata nel caso Dahlab. Ancora una volta la Corte è stata adita per il divieto dell’uso del velo islamico, in tal caso imposto dall’autorità universitaria turca a tutte le studentesse di fede islamica, al fine di ridurre la visibilità dell’Islam e così garantire lo spirito laico (come concepito dalla Turchia) all’interno dell’università pubblica. La studentessa Leyla Sahin avendo rifiutato di vestirsi in modo non conforme a quello che lei percepiva come un dovere religioso e morale, aveva subito la prevista sanzione disciplinare consistente nel divieto d’accesso agli esami scritti e nella sospensione dall’università per un semestre; di qui il ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Quest’ultima sia nella decisione della Camera che nella successiva decisione della Grande Camera riconosce tuttavia giustificazione al provvedimento direttamente restrittivo della libertà religiosa adottato dall’università turca, ove era volto a garantire un principio di ordine pubblico quale la laicità dello Stato, intesa dal governo turco come eliminazione del religioso dallo spazio pubblico principalmente in funzione di salvaguardia contro ogni possibile espansione del fondamentalismo islamico in Turchia, nonchè volto a creare un clima di tolleranza e ad evitare pressioni sociali nei confronti delle studentesse che rifiutavano di indossare il velo. Entrambe le sentenze della Corte hanno ricevuto forti critiche per aver concesso un eccessivo margine di apprezzamento statale all’autorità turca circa le limitazioni di cui all’art. 9 par. 2 CEDU e per aver appoggiato un ragionamento con il quale, senza avere prove concrete del nesso esistente tra l’uso del velo e la creazione del clima d’intolleranza o di pressioni sociali (nei confronti di studenti di altro orientamento), quindi in mancanza di un evidente «bisogno sociale imperativo»[25] del divieto dell’uso del simbolo religioso di specie, si è “presunto” che un clima di tolleranza e rispetto potesse essere raggiunto attraverso l’intolleranza verso un particolare modo di esprimere la propria appartenenza religiosa.

La costruzione logica, le considerazioni e i principi espressi dalla Corte nella sentenza Leyla Sahin sono stati anche successivamente impiegati per risolvere casi sostanzialmente legati all’uso del velo islamico da parte di insegnanti o studenti nell’ambito di scuole pubbliche. Tra questi anche il caso Dogru c. Francia e Kervanci c. Francia, entrambi del 4 dicembre 2008, concernenti l’espulsione di due studentesse dodicenni frequentanti scuole pubbliche francesi che si erano rifiutate di togliere il velo durante le ore di educazione fisica, nonostante il divieto vigente in materia all’interno degli istituti scolastici. La Corte ha ritenuto “giustificata” la misura restrittiva della libertà di religione (divieto dell’uso del velo) adottata dalle scuole francesi e “proporzionata” la misura disciplinare applicata nei confronti delle due studentesse non adeguatesi al divieto, in quanto rispondenti (la misura restrittiva e la misura disciplinare) all’esigenza di garantire la laicità nello spazio scolastico pubblico e dunque di preservare il clima di neutralità al suo interno, volto a tutelare i diritti di tutti coloro che vi operano, siano essi docenti, personale amministrativo o studenti. Anche rispetto a questa sentenza sono state avanzate critiche dalla dottrina per avere la Corte rinunciato a qualsiasi verifica sull’applicazione del margine d’apprezzamento da parte statuale e in particolare per non aver verificato se le scuole chiamate in causa avessero adottato le restrizioni della libertà religiosa secondo equi principi come quello della “misura meno restrittiva” o della “misura meno pregiudizievole, meno invasiva” ove inevitabile. A loro volta queste due sentenze hanno spiegato la loro influenza sulla giurisprudenza successiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, in una serie di vicende giudiziarie[26] e fino alla causa Lautsi c. Italia, 3 novembre 2009. Quest’ultimo caso giudiziario concerne la contestazione della presenza del crocifisso, simbolo religioso cristiano, nelle aule delle scuole pubbliche italiane. La prima pronuncia della Corte EDU relativamente ad esso è stata ispirata dalla nozione di neutralità statale avallata a partire dai casi Dahlab e Leyla Sahin – neutralità come “eliminazione della visibilità” dell’elemento religioso nella sfera pubblica – ed è valsa a riconoscere la necessità, ai fini di un’organizzazione neutrale del sistema scolastico, dell’eliminazione di tutti i simboli religiosi visibili ed in particolare del crocifisso dall’ambiente scolastico, in segno di rispetto delle convinzioni laiche di taluni genitori o studenti. Fortunatamente, questa pronuncia della Camera europea che mal si concilia con i concetti di neutralità e laicità statale fatti propri dall’ordinamento giuridico italiano, è stata ribaltata dalla pronuncia successiva della Grande Camera, intervenuta nel 2011. Con quest’ultima sentenza la Grande Camera ha escluso che la nozione di neutralità negativa sia la sola accettabile ed ha chiarito che la neutralità può essere garantita anche in un ambiente scolastico che sia aperto a tutte le “espressioni visibili” delle religioni o visioni del mondo, di maggioranza o minoranza che esse siano[27].

La Corte di Strasburgo ha evitato di legittimare misure statali volte ad eliminare la visibilità della religione negli spazi pubblici anche nel caso Ahmet Arsalan et al. c. Turchia, 23 febbraio 2010. Nell’ambito di quest’ultima vicenda giudiziaria i ricorrenti erano membri di un gruppo islamico, radunatisi da varie regioni della Turchia per partecipare ad una cerimonia religiosa nella moschea di una città turca ed arrestati perché passeggiavano per la città indossando gli indumenti caratteristici della loro comunità religiosa (turbante, pantaloni larghi, tunica, tutti di colore nero ed un bastone in memoria del Profeta venerato). La Corte EDU, in questo caso pur riconoscendo l’importanza del principio di laicità per l’ordinamento turco (qual valore di ordine pubblico), non riteneva proporzionata allo scopo di tutela dell’ordine pubblico la misura statale che vietava l’uso di indumenti religiosi nelle pubbliche piazze e vie a cittadini ordinari, privi di incarichi pubblici, che percepivano come obbligatorio un certo abbigliamento secondo i dettami del loro credo. La Corte precisava inoltre che la circostanza che gli abiti religiosi fossero stati indossati, nel caso di specie, fuori dalle istituzioni scolastiche fungeva da discrimine rispetto a casi precedenti come la vicenda Leyla Sahin c. Turchia e giustificava l’adozione di una diversa decisione.

Dall’analisi dell’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali della Corte EDU si evince che essa è pervenuta a due importanti avanzamenti:  – l’affermazione di un altro concetto di neutralità, “positiva”, cioè volta a favorire il pluralismo e la sua percepibilità, visibilità in ogni luogo pubblico anche nella scuola – che è vero, è un contesto “delicato” per la formazione degli studenti ma è anche luogo eletto per l’apprendimento della realtà e tanto più istruttivo quanto più ne consente la manifestazione nel suo essere variegata, composta da anime con caratteristiche plurime, diverse ;  -l’ apposizione di argini di contenimento alle politiche strettamente laiche o “laiciste”[28] promosse da alcuni Stati europei. Con riguardo poi alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea[29] in tema di libertà religiosa individuale, essa vanta un numero di pronunce assai inferiore rispetto a quello riconducibile alla Corte EDU e risulta ispirata per molti aspetti alle sentenze di quest’ultima Corte.

In particolare, la prima pronuncia della Corte di Giustizia in cui si può ravvisare la tutela specifica della libertà religiosa nei confronti di un individuo è quella relativa al caso Prais c. Conseil (Consiglio delle Comunità europee), 27 ottobre 1976. Nel suddetto caso la ricorrente lamentava il mancato rispetto delle proprie esigenze religiose da parte dell’autorità comunitaria citata in giudizio poiché quest’ultima non aveva tenuto conto della richiesta, avanzata per motivi religiosi dalla ricorrente, in ordine allo spostamento della data d’esame per il concorso di accesso alla funzione pubblica comunitaria. La Corte, sebbene riconobbe soccombente la ricorrente per aver comunicato le sue esigenze religiose quando era ormai troppo tardi cioè quando la data d’esame era già stata fissata e comunicata agli altri candidati, ebbe modo di affermare, nella sentenza relativa al caso di specie, che esiste un “ragionevole” dovere di presa in considerazione, nella fissazione delle date per i concorsi di accesso alla funzione pubblica (comunitaria o nazionale) dell’appartenenza religiosa di un’aspirante candidato come elemento il cui rispetto s’impone anche alla luce del principio comunitario di uguaglianza e di non discriminazione; pertanto ove il candidato informi l’autorità di riferimento che non potrà presentarsi agli esami ad una certa data, l’autorità dovrà cercare di non porre in quella data la prova d’esame, al fine di evitare che il candidato abbia ad infrangere un precetto religioso. Con questa giurisprudenza, ribadita anche in pronunce successive si è detto dalla dottrina[30] che la Corte avrebbe affermato il principio della “autonomie religieuse raisonnable appliquèe à l’individu” (alias “libertà di religione individuale”).

Un’altra pronuncia che ha suscitato interesse poichè è la prima con cui la Corte di Giustizia ha dettato i criteri per il bilanciamento tra due fondamentali libertà dell’UE, quali sono la libertà di religione e la libertà d’impresa, e che è inoltre espressiva degli orientamenti più recenti della Corte in materia di libertà religiosa individuale, è quella relativa al caso Samira Achbita c. G4S Secure Solutions NV, 14 marzo 2017. La controversia di specie concerne il licenziamento di una dipendente di religione mussulmana, impiegata presso un’impresa privata, che aveva manifestato la volontà di continuare ad indossare il velo sul luogo di lavoro, a fronte dell’introduzione nel regolamento aziendale di una nuova norma che prevedeva «il divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi». La Corte è stata chiamata (nell’ambito di un rinvio pregiudiziale) a valutare se il divieto previsto dal regolamento aziendale si configurasse come una “discriminazione diretta” per motivi religiosi, ai sensi della direttiva 2000/78/CE. Nel pronunciarsi essa ha innanzitutto riconosciuto nel caso di specie un’ipotesi in cui sorgeva un conflitto tra la libertà di religione e la libertà d’impresa e s’imponeva un bilanciamento tra queste; in secondo luogo rispetto al quesito postole affermava che la normativa interna, imponendo “in modo generale ed indiscriminato”, a tutti i dipendenti, una neutralità nell’abbigliamento, non costituiva una “discriminazione diretta” fondata su motivi religiosi o convinzioni personali, ai sensi della direttiva 2000/78. Da ultimo la Corte, oltre a rispondere allo specifico quesito, ha svolto ulteriori valutazioni che potessero fornire al giudice nazionale elementi interpretativi utili alla decisione della causa di specie; così ha richiamato l’attenzione sulla nozione di “discriminazione indiretta” ed ha sollecitato il giudice nazionale a verificare se la normativa aziendale non costituisse una “discriminazione indiretta”, tenendo conto di alcuni criteri indicatigli e per lo più desunti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quali: l’esistenza di una normativa giuridica interna espressamente contenente la limitazione religiosa e non discriminatoria tra gli uni e gli altri individui; la legittimità dell’obiettivo perseguito dalla limitazione religiosa (in considerazione del “tipo” [fondamentale o meno] di interesse tutelato dalla limitazione, nel bilanciamento con altro/i interesse/i parimenti tutelato/i dall’UE[31]); la proporzionalità della limitazione rispetto alla finalità legittima da realizzare (in considerazione della “idoneità” e della “necessità” della limitazione[32], derivabili: la prima, dall’uso di criteri quali “l’applicazione uniforme della normativa limitativa”, “la vistosità del simbolo religioso sanzionato”, “l’incidenza del simbolo sulla prestazione lavorativa”; la seconda, dall’uso di criteri come “l’adozione della misura meno restrittiva” o “della misura con il minor numero di inconvenienti ed il maggior numero di benefici”). Questa pronuncia della Corte è particolarmente significativa ed è destinata a rimanere tale poiché, da una parte contiene l’implicito invito rivolto al giudice nazionale a cercare di risolvere nella maniera più ragionevole la controversia lavorativa, ossia mediante la reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro, con nuove mansioni; dall’altra contiene delle linee guida di portata generale quanto mai utili, in una società sempre più multiculturale ed esposta ad un crescente pluralismo religioso, ai giudici nazionali nel dirimere controversie implicanti una ponderazione di interessi sensibili e socialmente rilevanti, come la libertà di religione individuale e la libertà d’impresa.

Da quanto precedentemente detto risultano chiari i principi fondamentali in materia religiosa espressi dagli orientamenti giurisprudenziali della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Al riguardo l’art. 9 par.1 della CEDU garantisce esplicita tutela oltre che al profilo individuale della libertà religiosa anche alla sua dimensione collettiva ed istituzionale che, come hanno ben evidenziato le Corti europee nel corso delle loro varie pronunce[33], abbisogna di essere tutelata poiché funzionale alla soddisfazione delle esigenze religiose individuali, all’esercizio della libertà religiosa individuale. Le sentenze delle Corti europee sin qui intervenute in materia di libertà religiosa collettiva, nel loro complesso considerate, sono valse a consacrare il principio dell’autonomia religiosa di Chiese e gruppi religiosi in generale, avente come sue implicazioni: la libertà delle organizzazioni religiose di agire nella vita sociale, la libertà di avere ragionevole accesso alle risorse che ogni Stato mette normalmente a loro disposizione (ad es. accesso alla personalità giuridica per beneficiare di alcuni diritti reali o patrimoniali previsti dal diritto privato), la libertà di poter aprire un luogo di culto e di incontro, la libertà nell’amministrazione dei propri organi e nell’esercizio delle proprie attività (nomina dei ministri di culto, rapporti con le altre organizzazioni religiose, selezione del personale investito di funzioni religiose e di culto). In linea generale le Corti non hanno incontrato particolari difficoltà nel risolvere le controversie coinvolgenti la libertà religiosa dei gruppi, poiché in tali frangenti hanno potuto basarsi sempre sull’applicazione di un principio semplice e diretto, quello che per lo Stato tutte le confessioni sono ugualmente libere davanti alla legge e che esso deve mostrarsi neutrale ed imparziale nei confronti di ogni forma organizzata o collettiva di fenomeno religioso.

Nella giurisprudenza della Corte EDU emerge con chiarezza che lo Stato deve agire come un arbitro neutrale ed imparziale nei rapporti con le varie organizzazioni confessionali, non identificandosi con nessuna di esse e dando spazio e udienza a ciascuna ugualmente, in quanto un simile atteggiamento è funzionale al pluralismo, inteso come coesistenza delle diversità e specificità, a sua volta indispensabile alla democrazia. Le prime pronunce in cui il giudice di Strasburgo si occupa, benché solo di riflesso, del profilo collettivo della libertà di religione sono rappresentate dalle sentenze inerenti ai casi Manoussakis e a. c. Grecia,26 settembre 1996, e Serif c. Grecia, 14 dicembre 1999. I principi elaborati in tali sentenze sono stati tesorizzati dalla Corte e poi applicati da essa alla specifica dimensione collettiva ed istituzionale della libertà religiosa, nell’ambito di sue pronunce successive, tra le quali le sentenze: Ramo moscovita dell’Esercito della salvezza c. Russia, 5 ottobre 2006; Membri della Congregazione dei Testimoni di Geova di Gldani c. Georgia, 3 maggio 2007; Santo Sinodo della chiesa ortodossa bulgara e a. C. Bulgaria, 22 gennaio 2009.

Nel caso Manoussakis c. Grecia, riguardante la condanna penale disposta nei confronti di alcuni membri della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova perché privi dell’autorizzazione amministrativa necessaria per istituire un luogo di culto, la Corte aveva sottolineato che «il diritto alla libertà religiosa, come inteso dalla Convenzione europea, esclude qualsivoglia apprezzamento da parte statale circa la legittimità delle credenze religiose [di un gruppo confessionale] o le modalità di espressione delle stesse[34]». Quest’interpretazione è stata confermata nella sentenza successiva Ramo moscovita dell’Esercito della salvezza c. Russia, inerente al caso di un’organizzazione religiosa che in occasione della presentazione alle competenti autorità statali e religiose, rispettivamente, della richiesta di riconoscimento della personalità giuridica e di iscrizione negli albi ufficiali, era stata valutata sotto il profilo dei contenuti teologico-religiosi della dottrina da essa professata. La Corte infatti in quest’ultimo caso ravvisava un’illegittima interferenza dello Stato nella sfera di libertà organizzativa e di funzionamento della comunità religiosa ricorrente, in contrasto con i principi di imparzialità e neutralità, fondamenti dell’agire statale nei confronti dei gruppi religiosi.

Nel caso Serif c. Grecia, inerente alla condanna di un cittadino greco nominato qual ministro di culto dai fedeli mussulmani della regione greca di Rodope e considerato dal governo come un usurpatore dell’incarico per essere stato eletto dopo che il Presidente greco aveva già nominato altri come ministro di culto del Rodope, la Corte si è pronunciata affermando che in una situazione di conflitto tra due o più enti ecclesiastici (nel caso di specie i due ministri di culto incaricati l’uno dalla comunità religiosa interessata, l’altro dal Presidente greco) appartenenti alla stessa confessione religiosa o Chiesa, lo Stato non deve intervenire in difesa di una delle parti, bensì esercitare ancor più rigorosamente la sua neutralità rispetto ai “contendenti”, consistente nell’accettare e comprendere le possibili tensioni interne alle confessioni (o anche tra queste) e nel facilitare l’esame della lite da parte dell’autorità giudiziaria; il ruolo dello Stato non deve consistere quindi nel soffocare il pluralismo anzi nel promuoverlo, semmai interloquendo con i vari gruppi religiosi concorrenti affinché possano tollerarsi reciprocamente. Le conclusioni appena esposte sono state formulate dalla Corte anche nel caso giudiziario Santo Sinodo della chiesa ortodossa bulgara e a. C. Bulgaria.

Da ultimo con la sentenza Membri della Congregazione dei Testimoni di Geova di Gldani c. Georgia, la Corte ha avuto modo di sviluppare ulteriormente il significato del dovere di neutralità spettante agli Stati ed ha aggiunto che esso comporta, a fianco al dovere di non ingerenza dello Stato nelle controversie interne ai/tra gruppi religiosi, anche, ove ricorrano particolari circostanze, un dovere di intervenire, di compiere “azioni positive” per rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio della libertà religiosa e per riportare un clima di tolleranza e di rispetto reciproco tra i differenti gruppi confessionali. Nel caso Gldani la Corte riconosceva una violazione del dovere di neutralità da parte delle autorità georgiane per essere rimaste indifferenti al conflitto scaturito tra diversi gruppi religiosi nella città di Gldani e per non esser intervenute con prontezza per proteggere e l’integrità fisica e l’esercizio della libertà religiosa dei membri del gruppo confessionale attaccato da un altro gruppo religioso presente nella cittadina georgiana.

Riguardo poi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea in materia di libertà religiosa collettivamente esercitata, essa annovera pronunce direttamente ispirate dalle affermazioni di principio effettuate dalla Corte di Strasburgo che, invero, è stata la prima ad isolare e sviluppare la tutela dell’autonomia confessionale, inizialmente ragionando sulla dimensione collettiva del diritto di libertà religiosa, poi sulla sua dimensione istituzionale e, da ultimo, sul fenomeno delle comunità religiose organizzate. Anche la Corte di Lussemburgo ha dunque riconosciuto il principio dell’autonomia confessionale e le sue principali implicazioni quali, da un lato, il diritto delle chiese di darsi regole organizzative in conformità al proprio sistema di credenze, dall’altro, il dovere di neutralità (non solo dell’Unione europea, ma soprattutto) degli Stati nei confronti di comunità, gruppi, organizzazioni religiose, dovere che esclude ogni ingerenza ingiustificata dello Stato in tali comunità, gruppi, organizzazioni, segnatamente, nelle loro regole strutturali e nel loro sistema di credenze[35]; essa ha affermato il principio – anch’esso già affiorato nella giurisprudenza di Strasburgo – che la garanzia di autonomia confessionale non implica, di per sé, la legittimità delle prescrizioni delle chiese e delle loro organizzazioni circai rapporti di lavoro interni ad esse, perciò tali prescrizioni sono pienamente assoggettabili ad un controllo giurisdizionale per verificare che realizzino un corretto bilanciamento tra le esigenze religiose delle organizzazioni e le esigenze di non discriminazione e di tutela dei lavoratori.

Particolarmente interessanti per quest’ultimo aspetto dell’autonomia confessionale, dei suoi “limiti” e più precisamente della necessità che nel provvedere alla propria libera organizzazione interna, gli enti con finalità religiose[36] adottino regolamentazioni dei rapporti di lavoro legittime, sono le sentenze della Corte di Giustizia – peraltro definite “gemelle”, per l’identità delle affermazioni di principio rese dalla Corte sul rapporto tra autodeterminazione degli enti religiosi e diritti dei lavoratori in essi operanti – relative ai casi Egenberger c. Evangelisches Werk für Diakonie und Entwicklung e V, 17 aprile 2018, e IR c. JQ, 11 settembre 2018.

La vicenda giudiziaria Egenberger concerne la contestazione della mancata assunzione all’interno di un’organizzazione evangelica (l’Opera della Chiesa evangelica per la Diaconia e lo Sviluppo) per un incarico comportante anche la rappresentanza all’esterno dell’organizzazione, da parte di una donna che riteneva di essere stata discriminata per ragioni religiose, ove si richiedevano ai candidati i requisiti religiosi-ideologici dell’appartenenza a una chiesa evangelica e dell’identificazione con la missione assistenziale-caritatevole dell’organizzazione.

La vicenda IR riguarda invece il licenziamento di un primario cattolico che lavorava in un ospedale soggetto alla vigilanza dell’Arcivescovo di Colonia, avvenuto a causa del fatto che il primario si era risposato civilmente dopo aver divorziato, così trasgredendo il precetto canonico dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e perdendo il requisito religioso-ideologico di “fedeltà all’etica cattolica”, richiesto dall’ente ospedaliero di tendenza religiosa-cattolica ai suoi dipendenti cattolici ed aventi funzioni direttive.

In entrambe le sentenze relative ai casi presentati, la Corte di giustizia riconosce la ricorrenza in fatto di situazioni di conflitto tra il diritto all’autonomia delle chiese e delle organizzazioni la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ed il diritto dei lavoratori a non essere discriminati; pertanto ravvisa la piena operatività della Direttiva 2000/78/CE – richiamata dai giudici nazionali nel rinvio pregiudiziale alla Corte – come strumento preposto a garantire un giusto equilibrio tra i diritti in questione e, di qui, sancisce il principio della necessità di promuovere un “controllo giurisdizionale effettivo delle ragioni confessionali” per verificare il rispetto dei criteri dettati dalla Direttiva menzionata. I criteri evidenziati dalla Corte attengono alla sussistenza di determinate caratteristiche per il “requisito ideologico e/o religioso” richiesto dall’organizzazione di tendenza ai propri dipendenti, ossia: l’esser “indispensabile” per l’attività da svolgere a tutela dell’etica dell’organizzazione, “legittimo” dunque non utilizzato per fini estranei a tale etica, “giustificato” dunque effettivamente proteso ad evitare un serio rischio di lesione dell’etica dell’ente, infine “proporzionato” dunque non al di là di quanto necessario al conseguimento delle finalità etiche dell’organizzazione. Altresì è indicato dalla Corte il criterio della sussistenza di un “nesso diretto oggettivamente verificabile” tra l’“attività da svolgere” ed il “requisito ideologico e/o religioso” richiesto al lavoratore, tenendo conto possibilmente sia della “natura” dell’attività lavorativa richiesta che del “contesto” di svolgimento della stessa.

Da queste affermazioni di principio la Corte, nel caso Egenberger, guardando al ruolo assegnato al lavoratore soprattutto sotto il profilo del “contesto lavorativo”, ha convenuto sulla sussistenza del “nesso diretto” tra attività da svolgere e requisito ideologico richiesto dall’organizzazione di tendenza; nel caso IR la Corte ha invece ragionato essenzialmente sulla “natura” dell’attività richiesta al primario ossia quella, principale, di prestazione in ambito ospedaliero di cure mediche e consulenze e di gestione del reparto di medicina interna e quella, (solo) secondaria, di rappresentanza dell’ente all’esterno presso terzi, pervenendo al non riconoscimento di un “nesso diretto” tra l’attività da svolgere ed il requisito ideologico richiesto, inoltre spingendosi alla valutazione del requisito ideologico stesso come “non indispensabile” per l’attività professionale in questione (salvo poi precisare che spettasse comunque al giudice del rinvio verificare i caratteri del requisito ideologico nel singolo caso concreto).

Infine un’altra sentenza ancora è degna di nota tra quelle emanate dalla Corte di Giustizia sulla tutela da riservare alla libertà di religione collettivamente manifestata, in particolare da taluni gruppi religiosi, se del caso minoranze. Trattasi della sentenza sulle cause riunite Germania c. Y e Germania c. Z , 5 settembre 2012, con cui la Corte ha messo in risalto un’altra specifica forma di tutela da apprestare alla libertà di religione, individuale e collettiva, la tutela dalla persecuzione per motivi religiosi, ricompresa tanto nella garanzia generale prevista dalle norme di cui all’art.10 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE ed all’art. 9 CEDU (operante all’interno della Carta dell’UE per via del disposto dell’art. 52 CEDU), quanto negli altri obblighi di diritto internazionale vincolanti l’Unione europea in materia di concessione di asilo per motivi di persecuzione religiosa.

Nell’ambito di questa sua pronuncia la Corte afferma che: «la libertà di religione rappresenta uno dei cardini di una società democratica e costituisce un diritto umano fondamentale. La violazione del diritto alla libertà di religione può presentare una gravità tale da essere assimilata ai casi di violazione dei diritti umani fondamentali inderogabili in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU»; (che) gli atti che possono essere considerati una persecuzione religiosa (alla luce della Direttiva europea 2004/83/CE, richiamata) riguardano la religiosità nel complesso delle sue manifestazioni «pubbliche o private, collettive o individuali» e devono configurarsi come «atti gravi che colpiscono la libertà […] non solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo pubblicamente»; (che) può costituire un atto “sufficientemente grave ai sensi della direttiva” e, quindi, “una persecuzione”, il divieto di partecipare a cerimonie pubbliche o di culto, singolarmente o in comunità, qualora la sua trasgressione comporti un rischio effettivo di essere perseguitati o anche di essere sottoposti a trattamenti o a pene disumane o degradanti, nel proprio Paese d’origine; (che) «la valutazione di un tale rischio implicherà che l’autorità competente tenga conto di una serie di elementi sia oggettivi sia soggettivi. [Ad esempio] La circostanza soggettiva che l’osservanza di una determinata pratica religiosa in pubblico, colpita dalle restrizioni contestate, sia particolarmente importante per l’interessato al fine di conservare la sua identità religiosa, costituisce un elemento pertinente nella valutazione del livello di rischio»; (che) «l’ambito di tutela del motivo di persecuzione collegato alla religione comprende tanto le forme di comportamento personale o in comunità che la persona ritiene necessarie per se stessa, ossia quelle “fondate su un credo religioso”, quanto quelle imposte dalla dottrina religiosa, ossia quelle “prescritte [dal credo religioso]”». In tal modo la Corte ha fornito indicazioni idonee ad assicurare un ampio spettro di tutela alla libertà di religione dei perseguitati che chiedano asilo nel territorio degli Stati dell’Unione europea, sì da contribuire ad una effettiva garanzia di tale libertà nelle diverse situazioni di vita, ordinarie ed extraordinarie (come la richiesta di asilo ad uno Stato europeo per motivi di persecuzione religiosa), in cui sia rivendicata.

In un quadro così articolato in tema di tutela della libertà religiosa in ambito sovranazionale merita di essere ricordato anche il ruolo del Comitato sui diritti civili e politici dell’Onu. Infatti, a fronte dell’incapacità molto spesso manifestata dagli Stati della comunità internazionale nell’assicurare in ogni situazione il rispetto dei diritti umani nei confronti degli individui sottoposti alla propria giurisdizione – talora per la debolezza interna delle istituzioni statali che le rende incapaci di assurgere ad un ruolo di garanzia, talora perché le istituzioni stesse si rendono protagoniste di violazioni dei diritti individuali – sono state numerose le comunicazioni fatte pervenire da individui al Comitato sui diritti civili e politici dell’ONU con riguardo alle violazioni dei diritti umani sanciti dai Patti delle Nazioni Unite, poste in essere dagli Stati di loro appartenenza vincolati da tali Patti.

Tra le violazioni più gravi portate all’attenzione del Comitato s’inscrivono fenomeni di discriminazione, anche su base religiosa, perpetrati all’interno degli Stati membri dell’ONU e per lo più manifestatisi nei rapporti tra privati. Con specifico riferimento agli atti discriminatori per motivi religiosi, dunque alle violazioni della libertà di coscienza e di religione, dai rapporti dei Relatori Speciali dell’ONU emerge che, oggi, tali violazioni sono commesse per lo più da attori non statali e con maggior frequenza proprio all’interno delle comunità religiose. In considerazione di questi fatti tanto i Relatori speciali quanto il Comitato sui diritti civili e politici dell’ONU hanno messo in rilievo che a ciascuno Stato firmatario del Patto sui diritti civili e politici, incombe l’obbligo di cui all’art. 26 ossia la garanzia dell’uguaglianza di tutti gli individui dinanzi alla legge, da cui discende che lo Stato debba impedire tutte le forme di discriminazione al proprio interno, sia nell’ambito dei rapporti tra soggetto pubblico e privato, sia nell’ambito dei rapporti tra privati, dovendo anche intraprendere azioni positive a tal fine e, per quanto attiene alle forme di discriminazione religiosa tra privati, dovendo attivarsi, sia adottando misure legislative, che predisponendo strumenti giurisdizionali ricorribili per prevenire o rimuovere gli ostacoli all’esercizio della libertà religiosa. Tuttavia il Comitato ha mantenuto ferma l’interpretazione secondo la quale il Patto è rivolto solo agli Stati e dunque non ricrea obblighi e responsabilità diretti in capo ai soggetti privati, di tal che non sarebbe idoneo a spiegare il cosiddetto horizontal effect (obblighi giuridici direttamente operanti nei rapporti tra privati). Alla luce di ciò un’importante pronuncia adottata dal Comitato, valsa a scandire chiaramente che “i Paesi contraenti [il Patto sui diritti civili e politici] hanno un obbligo generale [di cui all’art. 2] di assicurare il godimento dei diritti agli individui sottoposti alla propria giurisdizione” – per cui è di loro competenza provvedere affinchè sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali anche nell’ambito di rapporti privatistici – è la decisione relativa alla comunicazione Arenz c. Germany, N° 1138/2002.

Nel caso di specie alcuni cittadini tedeschi, membri della Chiesa di Scientology, erano stati espulsi dal partito politico d’originaria appartenenza, per la ritenuta incompatibilità con i valori perseguiti dal partito delle convinzioni alla base della suddetta Chiesa; i cittadini considerando leso il proprio diritto di associazione e di partecipazione alla vita politica e democratica del proprio Paese nonché la propria libertà di coscienza e religione o credo e non avendo ottenuto riconoscimento delle proprie ragioni da parte dei giudici nazionali, avevano fatto ricorso al Comitato dei diritti dell’ONU per denunciare le violazioni commesse dallo stesso Stato nel non aver garantito, con un’adeguata legislazione interna in materia di attività dei partiti politici, il principio di uguaglianza e non discriminazione su base religiosa (artt. 2 e 26 Patto) e conseguentemente nemmeno i diritti di associazione e partecipazione politica (art. 22 e 25) e la libertà di religione o credo (art. 18). Il Comitato rispetto a questo caso, limita il proprio intervento all’importante affermazione di principio di cui sopra e alla verifica che i giudici nazionali avessero compiuto un corretto bilanciamento tra gli importanti diritti coinvolti, dei singoli (i ricorrenti) e del gruppo (il partito), giungendo a ritenere appropriato il riconoscimento di preminenza al diritto del partito all’autonomia; il Comitato non si attarda invece (pur rientrando nelle sue facoltà) nella verifica della compatibilità della legislazione tedesca in materia di attività dei partititi, con le norme del Patto. In tal modo esso non chiarisce “entro quali limiti siano lecite”, da parte di gruppi come i partiti[37], discriminazioni basate sulla religione o convinzioni di coscienza.

Nella pronuncia del 1990 relativa al caso W.E. Delgado Paez v. Colombia il Comitato è intervenuto anche sulla materia del rapporto tra un fedele e le autorità religiose presso cui il primo presti servizio. Nello specifico il ricorrente, insegnante di religione e morale presso un istituto scolastico pubblico, dichiara di essere stato sospeso per la revoca del gradimento da parte dell’autorità cattolica (preposta alla valutazione dell’idoneità al ruolo dell’insegnante di religione) e di essere stato vessato con minacce ed atti persecutori da parte delle locali autorità cattoliche, di tal che egli lamenta presso il Comitato che, sia la sospensione, sia gli atti minatori e persecutori siano avvenuti in ragione della sua appartenenza al movimento della Teologia della liberazione e che il governo colombiano abbia consentito una tal situazione di mancata tutela della libertà di coscienza e religione di cui all’art.18 del Patto. Il Comitato affermava che non era ravvisabile una lesione della libertà di religione dell’insegnante nell’aver (lo Stato) ritenuto accettabile la sua sospensione dall’incarico, poiché quest’ultima risultava giustificata dal prevalente interesse dell’autorità cattolica ad un certo modo d’impartire la propria dottrina religiosa da parte di un insegnante; esso affermava invece che il governo fosse responsabile di altra violazione del Patto nei confronti del ricorrente, quella dell’art. 2, ossia dell’obbligo di assicurare all’interno del proprio territorio i diritti fondamentali e, nel caso di specie, il governo non aveva garantito il diritto alla sicurezza della persona e ad un’effettiva tutela giurisdizionale poiché aveva consentito, nel Concordato concluso con la Chiesa cattolica, ai Vescovi cattolici il cd. “privilegio del foro” ossia la possibilità di essere giudicati, anche per imputazioni di illeciti penali, da un giudice ecclesiastico e non statale, il che esautorava lo Stato nella tutela dei propri cittadini.

Il Comitato è stato anche destinatario dei rilievi messi in luce dal Relatore Speciale dell’ONU nel rapporto del 2004 sulla libertà religiosa, circa la necessità che favorisca attraverso le sue pronunce un equo contemperamento dei due diritti, parimenti fondamentali e facilmente destinati ad entrare in conflitto, della libertà d’opinione e della libertà di religione. Al Comitato è stato indicato di interpretare ciascun diritto di libertà in modo da non ridurre la portata o derogare ad altro diritto fondamentale sancito dai Patti. E’ stata infine affermata la necessità – a fronte dei fenomeni d’incitamento all’intolleranza religiosa e di diffamazione nei confronti delle comunità religiose, soprattutto quelle islamiche – di verificare che la libertà di espressione, particolarmente da parte dei media, che hanno un ruolo importante nella promozione della cultura della tolleranza e della libertà religiosa, sia esercitata with responsability, cioè non esternando opinioni potenzialmente offensive nei contenuti o nei toni. Con riguardo a questa tematica, sono pervenute all’attenzione del Comitato vicende concernenti la manifestazione e divulgazione da parte di taluni individui di opinioni consistenti nel negare lo stermino degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e l’esistenza delle camere a gas, come nel caso Faurisson[38], oppure nell’adottare posizioni antisemite in difesa della religione cattolica contro quella ebraica, come nel caso Malcolm Ross[39], o consistenti in idee apertamente razziste e antisemite diffuse ad ampio raggio mediante messaggi telefonici registrati e inviati ai cittadini di tutto lo Stato come nella vicenda J.R.T. and W.G. Party[40]. In tutti questi casi il Comitato ha dichiarato l’inammissibilità ratione materiae delle comunicazioni dei ricorrenti per incompatibilità delle stesse con le norme dei Patti ed ha ritenuto ogni volta giustificati i provvedimenti adottati dalle autorità statali nei confronti dei ricorrenti, affermando che: nel caso Faurisson le tesi negazioniste sostenute dal ricorrente si configurassero come una violazione del diritto della comunità ebraica ad essere tutelata contro un indiretto incitamento all’antisemitismo e che nel bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti private (libertà d’opinione del professore e diritto alla non discriminazione della comunità ebraica) lo Stato avesse il diritto-dovere di operare un bilanciamento e di riconoscere la preminenza del diritto della comunità ebraica di non vivere in un clima di diffuso antisemitismo; (affermando che) nel caso Malcolm Ross, ugualmente, lo Stato dovesse salvaguardare la comunità ebraica da ogni forma di incitamento all’odio religioso, sottolineando altresì la necessità che ciò accadesse nell’ambito di una scuola (in cui insegnava il professor M. Ross) in virtù del diritto degli alunni ad un’educazione libera dal pregiudizio e dall’intolleranza (diritto per il quale la libertà d’espressione implica la doverosa assunzione di obblighi e responsabilità soprattutto da parte di un insegnante); (affermando che) infine nel caso J.R.T. and W.G. Party le idee concepite e le azioni commesse dai ricorrenti avessero chiara natura discriminatoria e di incitamento all’odio razziale e religioso.

Si configurano come significative anche le pronunce emanate dal Comitato in tema di obiezione di coscienza al servizio militare. Sin dagli anni ’80, in sede di dibattito con i delegati degli Stati membri dell’ONU, il Comitato affermava che l’obiezione di coscienza fosse da considerarsi come una componente della libertà di coscienza e religione, come garantita dall’art. 18 par. 3 del Patto sui diritti civili e politici. Nel corso delle decisioni adottate in risposta a comunicazioni individuali, il Comitato compie una serie di passi che lo inducono dapprima al riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza e poi a conferirgli una tutela sempre più compiuta.. Il primo caso nel quale esso è investito della questione in discorso è quello Paavo Muhonen v. Finland, 1990, concernente un cittadino finlandese che contestava il rifiuto oppostogli dall’autorità statale di essere esentato dal servizio militare per ragioni morali e di poter apprestare servizio civile; il Comitato riconosceva la ricorrenza di una questione attinente alla libertà di coscienza e religione, protetta dall’art. 18, ma non pronunciava alcun parere sul merito, cioè in tal caso sulla effettiva mancata apprestazione da parte del ricorrente (sostenuta dal governo finlandese) di adeguate prove dell’esistenza di serie convinzioni etiche che gli impedissero di svolgere il servizio militare. In varie altre pronunce successive il Comitato, con orientamento costante, si limita a riconoscere il venire in rilievo della questione morale-religiosa per taluni individui nei casi di richiamo al servizio militare e la necessità per essi di provare l’effettiva sussistenza di motivazioni morali al proprio rifiuto di prestare il servizio di leva, poichè afferma, ad un tempo, che l’art. 8 par. 3, lett. c del Patto consente agli Stati di istituire “un servizio militare obbligatorio”. Tuttavia con l’adozione del General Comment del 1993 il Comitato cambia la propria precedente impostazione e perviene all’affermazione che, benché non esplicitamente menzionato dall’art. 18 del Patto, si dovesse considerare da esso implicitamente riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza, quale conseguenza del ben probabile conflitto che può scaturire tra la libertà di coscienza e di manifestare le proprie convinzioni e l’uso della forza contro vite umane proposto dal servizio militare. Questo fondamentale mutamento d’interpretazione dell’art. 18 del Patto (il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza come legittimo esercizio della libertà di coscienza e religione) conduce il Comitato ad assumere in tutte le sue successive pronunce posizioni di tutela dei ricorrenti che lamentavano il rifiuto opposto dai loro governi alla possibilità di prestare servizio civile in sostituzione di quello militare “per motivi di coscienza” e precisa che il diritto all’obiezione di coscienza può essere esercitato da chiunque, indipendentemente dalla natura delle sue convinzioni, siano esse religiose oppure morali, etiche, umanitarie, purché connesse alla ragione di fondo del “rifiuto di usare la forza a costo delle vite umane”[41]. Di qui, nell’ambito di alcune pronunce, nega che sia legittimo l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza per ragioni (altre) quali il semplice rifiuto della disciplina in sé, o della condizione di soggezione a vincoli gerarchici o delle limitazioni alla libertà personale derivanti dal servizio militare[42]. Infine gli ultimi orientamenti espressi dal Comitato in materia di diritto all’obiezione di coscienza hanno riguardato la legittimità della maggior durata del servizio civile rispetto a quello militare prevista dalla legislazione nazionale di alcuni Stati. Nella pronuncia risalente al 1990 relativa al caso Aapo Jarvinen v. Finland, il Comitato, a fronte della contestazione del ricorrente, per contrarietà all’art. 26 del Patto, della normativa nazionale che prevedeva una durata del servizio civile doppia rispetto a quella del servizio militare, riconosceva tuttavia come non irragionevole, nè repressiva la maggior durata del servizio civile in base alla considerazione che lo svantaggio ricreato agli obiettori veniva compensato in pieno dal fatto di esimerli dal dover provare dinanzi all’autorità statale la serietà delle proprie motivazioni. Alcuni anni più tardi, nella pronuncia Frederic Foin v. France del1999, il Comitato accogliendo la contestazione promossa dal ricorrente, che lamentava la natura discriminatoria e punitiva verso gli obiettori di coscienza della normativa statale che assumeva la maggior durata del servizio civile (di due anni) come criterio per la valutazione della genuinità o meno delle motivazioni del richiedente, giungeva a riconoscere pure che, benché sia legittimo stabilire una maggiore durata del servizio civile rispetto a quello militare ove si basi su criteri ragionevoli ed obiettivi (come quello di sgravare l’obiettore dell’onere di provare la serietà delle proprie ragioni di coscienza), non è ragionevole ritenere la durata del servizio civile come l’unico mezzo per verificare la serietà delle convinzioni dell’obiettore, anzi ciò integra effettivamente un trattamento statale discriminatorio e dunque contrario all’art. 26 del Patto.

Per quanto riguarda, invece, la tutela della libertà religiosa[43] nel mondo arabo islamico deve essere ricordato che il Comitato arabo dei diritti dell’uomo, istituito dalla Carta araba[44] e fin qui rappresentante l’unico organo preposto a realizzare una qualche forma di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali a livello sovranazionale regionale, tra i Paesi arabo-islamici firmatari della Carta araba[45], non ha finora reso noto alcun proprio documento (raccomandazione, rapporto annuale) che faccia riferimento a presunte violazioni della libertà di religione, come garantita dalla Carta Araba, da parte di alcuno degli Stati firmatari della stessa[46]. Pertanto non è possibile condurre un’analisi sul livello di garanzia effettiva apprestata alla libertà di religione da parte di un’istituzione internazionale, qual è il Comitato, che opera nello specifico contesto arabo-islamico per promuovere il raggiungimento effettivo degli obiettivi di tutela prefissati dalla Carta nel caso che, dai rapporti indirizzati ad esso dagli Stati, si evinca la mancanza o insufficienza di misure interne di effettiva protezione dei diritti umani. Il fatto che un tale organo sovranazionale sia rimasto fin qui silenzioso sulla questione religiosa, inoltre, induce inevitabilmente a considerare la peculiare situazione caratterizzante i Paesi arabo-islamici, ossia la forte interconnessione della loro struttura e del loro diritto statale con la religione islamica, che ricrea un habitat per gli individui conformato dalla nascita alla religiosità di matrice islamica e al quale questi ultimi non potranno più di tanto fare opposizione, contrapporre le proprie ragioni religiose pena la violazione del diritto statale, il rasentamento dell’illecito, o, nel migliore dei casi, “la drammatica emarginazione sociale attraverso l’uso di strumenti come la pressione psicologica e l’intimidazione”[47].

Rivolgendo uno sguardo all’interno degli ordinamenti degli Stati arabo-islamici, ci si imbatte in un modello di diritto in cui l’islam è ufficialmente riconosciuta come religione di Stato ed in cui, in alcuni casi, la legge religiosa islamica (shari’a) è specificamente indicata come fonte principale dell’intera legislazione statale. Le Costituzioni di Paesi come il Bahrain, il Quatar e l’Arabia Saudita qualificano espressamente ciascuno di essi come «Stato islamico»; la Costituzione della Siria pur non proclamando specificatamente l’Islam come religione di Stato, afferma che «l’Islam deve essere la religione del presidente della Repubblica»; in Algeria, Giordania e Marocco le Costituzioni dichiarano l’Islam religione di Stato e specificano che il capo di Stato deve essere un musulmano; inoltre in questi ultimi Paesi ed in Egitto, Libia, Arabia Saudita, la legge islamica religiosa (shari’a) rappresenta «la principale fonte legislativa». In Libano non vi è alcuna religione ufficialmente riconosciuta come credo di Stato ma nella Costituzione si è previsto un sistema che divide il potere esecutivo e quello legislativo tra le due principali comunità religiose del Paese, quella cristiana e quella musulmana; pertanto si prevede un presidente cristiano, un primo ministro musulmano sunnita e un presidente della Camera dei deputati musulmano sciita ed infine nel Parlamento nazionale sono riservati seggi alle tre comunità (compresa la minoranza drusa). Tra tutti il Paese a maggiore caratterizzazione islamica è l’Arabia Saudita la cui Costituzione presenta continui riferimenti all’Islam, alla legge islamica e afferma che «il Santo Corano e la Sunna sono la base legale dello Stato» e che il Corano e la Sunna regolano «la presente [Costituzione] e tutte le altre leggi dello Stato». In tutti questi sistemi giuridici gli organi giudiziari interni sono chiamati ad applicare una legge statale che è sempre più o meno permeata dagli insegnamenti religiosi musulmani e poi, nei casi in cui la legge religiosa islamica è espressamente eletta qual principale fonte normativa interna, i giudici nazionali sono chiamati ad applicare la legge statale “stringentemente” nel rispetto di quanto prescritto dal Corano e dalla Sunna.

La situazione che perciò oggi si può rilevare dall’osservazione della configurazione “interna” ed “esterna” dei Paesi arabo-islamici è quella di uno sfasamento o comunque di un non ancora avvenuto coordinamento tra le politiche umanitarie interne ed internazionali (regionali e universali), il che potrebbe far presagire tanto uno scenario prossimo positivo, quale la progressiva traduzione vera all’interno, da parte di ciascuno Stato arabo, dei contenuti e della portata dei diritti per come da ciascuno assicurati a livello normativo giuridico internazionale; quanto uno scenario negativo, quale lo sfruttamento dell’apparato istituzionale e giuridico internazionale (regionale ed universale), fin qui istituito o partecipato, come semplice facciata o paravento per poter, senza attirare l’attenzione degli altri organi di garanzia internazionali, condurre innanzi la propria tradizionale impostazione giuridica interna che tuttavia non è propriamente e pienamente garantista delle posizioni di diritto individuali e collettive in materia di libertà personale e segnatamente religiosa. Solo la considerazione degli atti concreti con cui il Comitato arabo eserciterà il proprio ruolo di supervisore e ammonitore sovranazionale, imparziale ed indipendente[48], nonché (la considerazione) della condotta interna degli Stati arabi di realizzazione o meno dei cambiamenti necessari a dare effettivo spazio ai diritti umani, nell’ampiezza per essi definita a livello giuridico internazionale, sia universale che regionale, ci consentirà di sapere a che grado di sviluppo è giunto davvero il processo di tutela internazionale della libertà di religione, con riguardo a una delle aree del mondo più restie a sganciarsi da assetti consolidati di organizzazione sociale e a lasciarsi compenetrare da elementi estranei alla cultura islamica, benché siano, come in tal caso, “figli” di una cultura umanistica e pertanto funzionale all’onnicomprensività e alla non esclusione di alcuna cultura, men che meno quella islamica, bensì al più capaci di arricchire quest’ultima della spinta a nutrire una visione più ampia dell’umanità, che tenga conto della pluralità e diversificazione connotanti gli esseri umani.

Va infine segnalato che la realtà appena descritta è quella attualmente caratterizzante l’area mediterranea “musulmana” (dei Paesi a maggioranza musulmana) ma non in via esclusiva, poiché a fianco a Paesi mediterranei quali l’Algeria, la Libia, la Giordania, la Palestina e la Siria che s’inquadrano nei tipi di sistemi di diritto (nazionale e sovranazionale) sopra descritti e connotanti i vari Paesi della Lega Araba, si pone un’altra parte di Paesi mediterranei, anch’essi “musulmani” ossia dotati di popolazione a maggioranza islamica, i quali tuttavia hanno sviluppato un altro modello di regolamentazione interna del rapporto dello Stato con la religione, non accordando nessuno status speciale all’islam e alla legge islamica. Tra questi l’Albania e la Turchia. In Albania vige una Costituzione che la qualifica come uno Stato laico nel quale il diritto alla libertà di religione è pienamente assicurato; inoltre le persecuzioni religiose avvenute in Albania durante il regime comunista sembrano essere ormai parte del passato e la religione, in tempi recenti, ha conosciuto nuovi spazi di libertà. La Turchia è quasi completamente musulmana ma dal 1926 l’islam ed il diritto islamico non trovano alcun riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico.

Per quanto riguarda poi la tutela della libertà religiosa nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) si deve sottolineare che dagli interventi esplicati su questioni relative alla libertà di religione dalla Commissione e dalla Corte interamericana – i due organi internazionali di tutela dei diritti fondamentali, istituiti dal Pacto de San Josè o Convenzione Interamericana dei diritti dell’uomo – traspare chiaramente che tale libertà è percepita come un diritto fondamentale con carattere di norma imperativa o di jus cogens[49]. Esemplificative della concezione della libertà di religione come valore di fortissima importanza, perchè intrinsecamente connesso alla dignità umana, nonché esemplificative dell’alta considerazione riservata ad una tale libertà dai popoli dell’America latina e dai loro organi di diritto sovranazionale sono le pronunce adottate dalla Commissione e dalla Corte interamericana nei casi: La ùltima tentaciòn de Cristo vs. Cile, 5 febbraio 2001 e Masacre Plan de Sànchez vs. Guatemala, 29 aprile 2004.

Nel primo caso controverso, a fronte del ricorso proposto – previa esaurimento dei ricorsi di giustizia interni allo Stato – da un gruppo di cittadini cileni di religione cristiana, dinanzi alla Commissione interamericana,per denunciare la violazione del proprio diritto alla libertà di religione da parte del Cile, i cui organi giudiziari avevano dichiarato illegittima la proiezione del film “L’ultima tentazione di Cristo” per le persone maggiori di diciotto anni, la Commissione si è pronunciata a favore del riconoscimento della violazione degli artt. 12 e 13 della Convenzione Interamericana, preposti rispettivamente alla tutela della libertà di coscienza e di religione da un lato, di pensiero e di espressione dall’altro. La Commissione ravvisava la violazione della libertà religiosa specificamente nel fatto che le persone ricorrenti erano state private della possibilità di assistere alla proiezione del film afferente alla religione cristiana. La Corte interamericana, successivamente chiamata a pronunciarsi sulla vicenda di specie, ha adottato una decisione con la quale non ha, da ultimo, riconosciuto la violazione della libertà di religione nel caso, ma la sola violazione della libertà di pensiero e di espressione sancita dall’art. 13 della Convenzione. Tuttavia la Corte proprio in occasione di questa sua pronuncia non ha esitato ad affermare che: «Este derecho [la libertà di religione e di coscienza] es uno de los cimientos de la sociedad democratica. En su dimension religiosa, constituye un elemento trascendental en la protección de las convicciones de los creyentes y en su forma de vida.[50]». Pertanto essa ha qualificato la libertà religiosa come uno dei pilastri della società democratica e, in un ulteriore punto di questa sua sentenza, nel giungere a conclusione che la proibita proiezione del film in questione non privava, nè minava la libertà di religione di nessuna persona, si è soffermata a rimarcare i contenuti di questa libertà ossia la facoltà di professare, conservare, cambiare la religione o il credo, nonchè la facoltà di svolgere attività di propaganda e di proselitismo[51].

Nella vicenda Masacre Plan de Sànchez vs. Guatemala, i familiari delle vittime della strage avvenuta nel villaggio di Plan de Sànchez, il 18 luglio 1982, per mano di un commando militare guatemalteco che uccise 268 persone di etnia maya (donne, bambini e ragazze) e stuprò ragazze di età compresa tra i dodici e i venti anni, avevano presentato ricorso alla Commissione Interamericana dei diritti umani, nel 1996, per chiedere giustizia delle gravi violazioni imputabili allo Stato del Guatemala in ordine a diritti umani fondamentali sanciti dal Pacto de san Josè, quali il diritto alla vita e all’integrità psico-fisica delle vittime della strage nonchè il loro diritto proprio alla libertà di religione, impedita nel momento in cui era stata negata loro la libertà di onorare con cerimonie religiose funebri i propri defunti. La Commissione, espletata la verifica dei fatti venuti a sua conoscenza, ha riconosciuto l‘effettività delle violazioni del Pacto de San Josè lamentate dai ricorrenti nei confronti del Guatemala e di qui il ricorso è stato proposto innanzi alla Corte Interamericana nel 2002. Nel processo innanzi alla Corte, lo Stato del Guatemala dopo l’iniziale proposizione di tre eccezioni preliminari, riconosceva la propria responsabilità per i crimini commessi e ritirava le eccezioni preliminari. La Commissione e i ricorrenti accettavano la dichiarazione di responsabilità dello Stato e di conseguenza la Corte si pronunciava con una risoluzione, nella quale prendeva atto delle dichiarazioni del Guatemala, le accettava e metteva in luce la violazione degli articoli 12 (par. 2 e 3) e 13 (par. 2 e 5) del Pacto de San Josè «per non aver lo Stato garantito la libertà di manifestare le credenze religiose, spirituali e culturali dei parenti delle vittime e dei membri della Comunità[52]» ove in effetti «i membri della comunità di Plan de Sànchez avevano potuto eseguire solo la sepoltura di alcuni dei loro parenti secondo le cerimonie maya legate alle loro convinzioni e religiosità e solo a partire dal 1994[53]». La Corte dunque ha riconosciuto nella fattispecie la ricorrenza di una particolare forma di lesione del diritto alla libertà di religione delle persone di etnia maya, inerente ad un delicato profilo di questa libertà, quello di avere la possibilità di onorare i propri defunti assicurando loro degna sepoltura, nel rispetto delle proprie credenze, conservandole e manifestandole. E’ in questa sentenza che, in modo particolare, la Corte esprime la propria concezione della libertà di religione qual diritto umano fondamentale rientrante nella categoria dello jus cogens internazionale, infatti nel responso motivato di uno dei giudici della Corte si legge che «la prohibiciòn […] del irrespeto del honor y creencias personale (inclusive las relaciones de los vivos con sus muertos), es en nuestros dìas absoluta y universal, pues pertence al dominio del jus cogens internacional.[54]».

Come si è visto, le pronunce finora intervenute in ambito internazionale con riguardo a questioni direttamente o indirettamente coinvolgenti la libertà di religione o credo sono ascrivibili ad organi operanti a livello sovranazionale come garanti del rispetto dei diritti umani quali, ad esempio, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di giustizia dell’Unione europea, la Corte interamericana nonché un organo paragiurisdizionale, anch’esso orientativo delle condotte degli Stati della comunità internazionale quale il Comitato sui diritti umani dell’Onu. Il livello di tutela effettiva assicurato fin qui alla libertà di religione dagli organi internazionali tramite le proprie pronunce è da valutarsi in linea generale positivamente tenendo conto oltre che del contenuto, delle affermazioni di principio rese con tali pronunce, anche del superamento avvenuto nel tempo delle posizioni più controverse assunte originariamente dagli organi internazionali in relazione all’esercizio della libertà di religione. Da una valutazione complessiva dei contenuti delle pronunce finora espresse dagli organi sovranazionali emerge lo sforzo compiuto da tali organi, nei particolari casi concreti, per promuovere un corretto bilanciamento della libertà di religione con altre libertà o valori fondamentali, parimenti tutelati nell’ordinamento internazionale, confliggenti con essa. Da un tale bilanciamento la Corte Edu, in particolare, ha desunto di volta in volta la misura del legittimo esercizio o meno di quel “margine statale di apprezzamento” che la Convenzione europea riconosce a ciascuno Stato ai fini dell’apposizione di “taluni limiti” all’esercizio della libertà di religione, quei limiti che siano “necessari, legali e democratici” nonché “proporzionati” ad uno scopo legittimo perseguito (art. 9, 2 CEDU).

Allo stesso modo risulta evidente la volontà di riconoscere l’illegittimità delle misure restrittive statali che conculcavano aspetti della libertà di religione quali il diritto di propagare la fede o di costruire luoghi di culto (come nelle pronunce della Corte Edu sui casi Kokkinakis e Manoussakis c. Grecia) nonché, in altri casi, il riconoscimento della legittimità di restrizioni statali che erano intese a tutelare valori di ordine pubblico quali “la laicità dello Stato” (nella sua accezione negativa) e l’“ordine democratico” (come nelle pronunce della Corte Edu sui casi Leyla Sahin e Refah Partisi c. Turchia)[55]. Proprio gli orientamenti degli organi sovranazionali volti a riconoscere legittimità a talune misure restrittive statali hanno suscitato notevoli critiche della dottrina internazionalistica e così promosso ulteriori riflessioni ed innovativi orientamenti successivi degli organi sovranazionali su talune questioni inerenti alla libertà di religione o credo. Lo sforzo di promuovere l’evoluzione dei propri orientamenti, specialmente quelli più controversi, è percepibile in modo particolarmente evidente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa alla libertà di religione individuale. A tal proposito sono individuabili tre gruppi di sentenze della Corte susseguitisi nel tempo attraverso i quali si appalesa un mutamento di vedute della Corte funzionale ad un accrescimento della tutela della libertà di religione o credo. Con un primo gruppo di sentenze ha affermato che tale libertà può essere lesa solo da misure statali “direttamente limitative” della libertà di manifestazione della propria religione o credo e non anche da quelle indirettamente limitative, che ne costituisce legittimo esercizio “l’attività di proselitismo purché condotta senza ricorso a mezzi abusivi o fraudolenti” (caso Kokkinakis v. Grecia), che consiste nella “libertà assoluta di aderire o meno ad un credo religioso e nella libertà di professare e praticare la religione o credo di propria libera scelta” (caso Buscarini c. San Marino), che il diritto dei genitori di scegliere l’educazione religiosa o filosofica dei propri figli, correlata alla libertà di religione o convinzione, ricrea “l’obbligo dello stato di non favorire attività d’indottrinamento degli studenti contro la volontà dei genitori nell’ambito scolastico pubblico” (caso Kjieldsen e a. c. Danimarca). Con un secondo gruppo di sentenze, fondando su un’accezione negativa del principio di “neutralità statale” e riduttiva del concetto di “pluralismo”, ha ritenuto legittime misure limitative della manifestazione della religiosità individuale quali “i divieti adottati dalle autorità turche e francesi (rispettivamente nei casi Leyla Sahin e Dogru) in ordine all’uso del velo islamico in ambienti scolastici pubblici”, poiché ritenute misure necessarie e proporzionate alla tutela della laicità dello Stato intesa “come estromissione di ogni traccia religiosa dallo spazio pubblico, segnatamente quello scolastico”.

Con un terzo e più recente gruppo di sentenze, tuttavia, la Corte Edu distaccandosi dalle nozioni precedentemente avallate di neutralità e pluralismo, escludendo che fossero le sole accettabili ed abbracciandone una concezione “positiva”, giunge al diverso inquadramento della questione della presenza di segni di religiosità individuale nello spazio pubblico, cioè come una questione precipuamente coinvolgente non la laicità dello Stato ma propriamente la libertà di manifestare, professando e praticando, la propria religione o credo in pubblico. Di qui avalla una soluzione, ad esempio nella sent. della Grande camera sul caso Lautsi c. Italia, di rottura rispetto a precedenti sue pronunce, volta a consentire la manifestazione della libertà religiosa individuale nello spazio pubblico, anche scolastico, soluzione funzionale ad un reale pluralismo; – assicurare una tutela sempre più compiuta e capace di un equo contemperamento di contrapposte esigenze parimenti tutelate dal diritto internazionale, alla dimensione istituzionale e collettiva della libertà di religione. Le Corti europee hanno sottolineato che la libertà religiosa collettiva deve essere tutelata poiché funzionale all’effettivo godimento della libertà religiosa individuale, da parte dei membri delle comunità ed organizzazioni religiose.

In particolare la Corte Edu ha riconosciuto allo Stato il dovere di agire come “arbitro neutrale ed imparziale nei rapporti con le varie organizzazioni confessionali, non identificandosi con nessuna e dando spazio a ciascuna ugualmente, al proprio interno”, specificando che tale dovere comporta non solo “la non ingerenza” dello Stato nelle controversie interne ai/tra gruppi religiosi, ma anche un dovere di “compiere azioni positive” per rimuovere ostacoli all’esercizio della libertà di religione, spronando al dialogo ed alla tolleranza reciproca i diversi gruppi/ elementi interni ai gruppi. Nella giurisprudenza della Corte Gue riecheggiano tutti gli orientamenti della Corte Edu volti a riconoscere l’“autonomia di Chiese e gruppi religiosi con tutte le sue implicazioni”; inoltre in due recenti sentenze della Corte, del 2018, sui casi dei ricorrenti Egenberger e IR, sono stati individuati alcuni “limiti” dell’autonomia confessionale, limiti che s’impongono agli enti con finalità religiose o etiche nel determinare la propria interna organizzazione e precisamente nel determinare il requisito religioso-ideologico richiesto a propri dipendenti, cosicché non risulti discriminatorio per motivi religiosi-ideologici; -far emergere specifici profili della libertà religiosa giuridicamente rilevanti e soltanto impliciti al dettato normativo-giuridico degli strumenti di diritto internazionale. Tra questi profili vi è, ad esempio, “il diritto delle comunità religiose presenti sul territorio statale ad essere salvaguardate da ogni forma d’incitamento all’odio razziale” (emerso dalle affermazioni del Comitato sui diritti umani dell’Onu); oppure il “diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare per motivi religiosi o etici” (anch’esso emerso dalle pronunce del Comitato in cui esso ha riconosciuto l’obiezione di coscienza come “una componente” della libertà di religione, benchè non esplicitamente menzionata nell’art. 18 del Patto); oppure “il diritto di asilo per motivi di persecuzione religiosa subita nel proprio Paese di provenienza”, ben emerso nella

pronuncia della Corte Gue nella sent. sulle cause riunite Germania v. Y e Germania v. Z, in cui la Corte dell’UE ha riconosciuto tale diritto come implicito al diritto di libertà religiosa; – promuovere il riconoscimento della dignità di ius cogens internazionale – diritto internazionale vincolante la totalità degli Stati della comunità internazionale e mai derogabile, da alcun patto internazionale, da nessuno Stato, per nessuna ragione – alla libertà di religione, attraverso le pronunce quali la sent. relativa al caso Masacre Plan de Sanchez della Corte interamericana e la sent. sulle cause riunite Germania c. Y e Z della Corte Gue.

Tuttavia, la situazione attuale, palpabile nella gran parte dei contesti nazionali del mondo, particolarmente nell’Occidentale, è quella di un pluralismo culturale e religioso caratterizzato dalla diffusione anche nello spazio pubblico delle tante e diverse religioni e culture rimaste a lungo localizzate ognuna nella propria “terra d’origine”[56]. Come è stato opportunamente evidenziato, «il mondo non è mai stato religiosamente omogeneo e la diversità religiosa è sempre esistita”. Oggi però è intervenuto un elemento nuovo: attraverso i mezzi di comunicazione e le migrazioni la diversità religiosa è entrata in casa nostra”[57]. Sono stati in particolare i movimenti migratori intensificatisi in questi ultimi anni – principalmente in conseguenza di situazioni di “invivibilità” interna ai Paesi di emigrazione – a favorire la grande circolazione di religioni e culture lontane dall’immaginario collettivo o comunque mai in sostanza “saggiate” da gran parte degli abitanti del nostro pianeta, segnatamente dalla comunità umana dell’Occidente. Al contempo attraverso i mezzi di comunicazione è divenuto sempre più facile rendere visibili a livello globale e far rientrare nella percezione collettiva contesti culturali, tradizioni religiose, modelli di organizzazione della vita sociale non solo fisicamente ma anche intrinsecamente “distanti” da altri, poiché suffragati da un’altra storia che in particolare, per quel che qui ci interessa, ha generato peculiari modelli di libertà religiosa che solo oggi riusciamo a vedere chiaramente e con i quali, ora, i sistemi di regolazione della libertà di religione nati in seno al mondo occidentale stanno venendo effettivamente in contatto. L’incontro, che le condizioni ricreatesi nel nostro tempo hanno propiziato, tra le differenti concezioni e pratiche della libertà di religione, le une appartenenti alla realtà occidentale, le altre sviluppatesi al di fuori di quest’ultima, ha fatto emergere un dato che impinge direttamente sul modello di tutela della libertà di religione a cui si sono vincolati a livello internazionale, universale e regionale, i vari Paesi del mondo. Il dato (critico) emerso è che i vari Paesi che oggi si ripropongono di tutelare la libertà di religione secondo obblighi comuni di diritto internazionale, di portata universale e regionale, non muovono da un comune concetto di libertà religiosa. Si è appalesata così la “fragilità” del modello di tutela offerto dal sistema di diritto internazionale concernente i diritti umani, fragilità insita nella sua genesi che è totalmente avvenuta tra l’Europa e la rimanente parte dell’Occidente[58], di tal che i Paesi delle altre parti del mondo hanno acquisito questo modello dall’esterno, per via d’importazione anziché svilupparlo attraverso un processo endogeno. A ragion di ciò si ha che, per i Paesi di metà del mondo, il modello di tutela internazionalmente sancito per la libertà di religione, d’ispirazione occidentale, è venuto a sovrapporsi a categorie filosofiche e teologiche che hanno ispirato le loro culture e civiltà per un periodo di tempo assai più lungo di quello in cui hanno avuto dominante circolazione i modelli politici e giuridici dell’Occidente (il tempo degli ultimi tre secoli); dunque nei suddetti Paesi il modello di tutela internazionale della libertà di religione si configura come una sorta di “crosta sottile che ricopre (e nasconde) concezioni filosofiche e teologiche della libertà religiosa diverse e, in qualche caso, fin antitetiche rispetto a quelle che sono espresse dalle convenzioni internazionali [nonchè dalle costituzioni interne] che questi Paesi hanno sottoscritto”[59]. Questa particolare situazione attualmente constatabile si configura come il primo fattore di tensione individuabile all’interno del sistema di tutela internazionale fin qui elaborato in materia di libertà religiosa e richiede di essere considerata e superata affinché non si traduca in un definitivo intralcio all’effettiva e piena tutela della libertà di religione nei rapporti internazionali e da parte degli organi preposti a garantire la tutela internazionale della libertà religiosa.

Il secondo problema da considerare come causa di ostacoli all’effettiva garanzia di tutela alla libertà di religione a livello internazionale (dunque sempre nei rapporti tra Stati della comunità internazionale e negli interventi delle corti internazionali o di altri organi con poteri di controllo sul rispetto dei diritti umani) è la diversa declinazione del principio di laicità o la sua mancata attuazione da parte dei vari Stati, nei propri ordinamenti giuridici interni. Purtroppo la laicità[60] – che si configura come un carattere essenziale dello Stato affinché al suo interno ognuno possa sentirsi invero rispettato nelle proprie scelte di coscienza e religiose, affinché siano riguardati allo stesso modo e sia dato ugualmente spazio ai diversi orientamenti interiori di ciascun individuo e dei gruppi presenti all’interno dello Stato e, dunque, affinché vi sia un reale atteggiamento inclusivo e rispettoso delle diversità – non si è affermata in tutti i contesti statali oppure si è affermata ma è stata da alcuni Stati interpretata o in un senso meno garantista della manifestabilità della religiosità (ossia in senso “laicista”) o in un senso che risulta più garantista della manifestabilità religiosa legata ad una o alcune religioni soltanto. I Paesi arabo-islamici sono ascrivibili al primo gruppo (Stati in cui la laicità non si è affermata) in quanto essi non hanno un atteggiamento equidistante rispetto alle varie religioni e credi ma hanno improntato il diritto interno ai precetti e valori di una religione particolare, quella islamica, così inevitabilmente imponendo l’osservanza di una religione, di una visione ben precisa del mondo, a tutti i presenti al proprio interno; la peculiare attuazione del principio di laicità nel senso di un’ “eccessiva” equidistanza dalle religioni da parte dello Stato (“laicismo”), cioè di vietare l’esternabilità della religiosità negli spazi pubblici non rendendo effettiva quella facoltà di “manifestare la propria religione o credo, privatamente o collettivamente, individualmente o in gruppo”, ricompresa nella libertà di religione o credo come sancita dai vari strumenti internazionali, riguarda Stati come la Francia o la Turchia, per quel che attiene al contesto europeo. Tra i Paesi infine rientranti nel terzo gruppo, ai quali è additata un’attuazione della laicità “in positivo” – in quanto lo Stato non è condizionato da alcuna religione nel suo ordinamento e al contempo garantisce la manifestabilità della religiosità o del credo propri di ciascuno, in privato e in pubblico – e ai quali però è anche attribuita la tendenza a trattare con special riguardo una o alcune religioni, vi è invece l’Italia, per la quale viene in rilievo la peculiarità di prevedere nel proprio ordinamento giuridico, nella Costituzione, la disciplina dei rapporti con le confessioni religiose attraverso un meccanismo di contrattazione bilaterale che differenzia, comunque sia, la posizione della confessione cattolica da quelle acattoliche[61]. Anche la questione dell’attuazione o della corretta attuazione della laicità da parte degli Stati al loro interno merita una seria riflessione perché essa è strettamente funzionale ad una verace libertà religiosa e fa sì che la forza del potere pubblico possa essere considerata davvero al servizio e non più “in dialettica con la libertà dei privati, che potranno e sapranno autodimensionarsi senza l’intervento protettivo o repressivo degli Stati” i quali a loro volta “non saranno più costretti a schierarsi quali difensori di un culto magari, addirittura, a scapito di altri” [62].

Ancora altri due dati si pongono come limiti alla esplicazione delle loro potenzialità di tutela, per gli strumenti giuridici internazionali presidianti la libertà di religione e cioè: l’irrazionalità delle risposte spesso promananti dai singoli, nelle comunità interne ai vari Stati, all’accentuato pluralismo religioso odierno; nonchè, da ultimo, la mancata costituzione di corti internazionali a tutti i livelli regionali di tutela dei diritti umani, le quali, sul modello di corti già esistenti come la CEDU e la CGUE in particolare modo, possano predisporre meccanismi con cui consentire ai singoli e agli Stati di ottenere tutela, dinanzi ad un giudice sovranazionale (nel caso che non si sia ottenuta tutela all’interno di uno degli Stati della comunità internazionale), per le violazioni di diritti fondamentali (qual è anche la libertà di religione) subite. Quanto alla prima delle due ultime questioni segnalate, si vuole alludere a due forme di attentato alla libertà di religione che si registrano anche nel contesto dell’Europa e che sono state portate all’attenzione degli Stati europei dal Consiglio d’Europa nell’ambito di alcune sue risoluzioni[63]: “l’islamismo” ossia l’estremismo islamico, da una parte, e “l’islamofobia”, dall’altra. In una delle prime risoluzioni adottate dal Consiglio d’Europa in relazione a questi due fenomeni, ne è stata efficacemente sottolineata la contrarietà al rispetto dei diritti umani – che è alla base degli ordinamenti di tutti gli Stati europei membri del Consiglio d’Europa, nonchè dell’Islam e delle altre due religioni monoteiste attecchite in Europa, l’Ebraismo ed il Cristianesimo -, ne sono state evidenziate le potenzialità criminogene (ossia d’induzione a commettere crimini contro la persona umana) e tali fenomeni sono stati inquadrati esplicitamente come gli attuali problemi da risolvere dagli Stati membri, con un’azione concreta innanzitutto “interna” ad essi, che sia diretta a favorire il reale rispetto di quegli articoli della CEDU che sono violati dalle tendenze “islamista” ed “islamofoba” e che sono preposti alla garanzia dei diritti umani fondamentali quali, in modo particolare, la libertà personale, la dignità umana e la libertà di pensiero, coscienza e religione. Entrambi i tipi di atteggiamento possono essere ascritti ad una comune causa che in dottrina[64] è stata denominata “analfabetismo religioso” che alimenta atteggiamenti di intolleranza verso religioni sconosciute o semplicemente diverse dalla propria, i quali non si conciliano con la garanzia ad ognuno del diritto alla libertà di religione e devono essere perciò contrastati dagli Stati nello spazio europeo e al loro interno.

Infine la mancata operatività di Corti internazionali regionali in alcuni dei contesti in cui sono stati assunti precisi impegni internazionali ad un livello più circoscritto[65], ha segnato un depotenziamento della tutela internazionale dei diritti umani e in particolare della libertà di religione. Una corte internazionale infatti in primis costituisce l’opportunità di ottenere giustizia nonostante questa sia stata denegata dallo Stato che non abbia garantito adeguatamente al suo interno un diritto umano internazionalmente sancito; in secundis essa è la sede più appropriata per pronunciare un responso in materia di violazione di obblighi internazionali, potendo offrire le migliori garanzie in tema di conoscenza, interpretazione e applicazione del diritto internazionale; in ultimo giudici internazionali sono in condizione di essere perfettamente indipendenti ed imparziali, o almeno si presume possano essere più equanimi rispetto ai magistrati nazionali che possono trovarsi direttamente coinvolti nel contesto generale delle violazioni di diritti internazionalmente sanciti, su cui devono giudicare; in quarto luogo le corti internazionali possono garantire una certa uniformità nell’applicazione del diritto internazionale; infine promuovere l’instaurazione di processi a livello internazionale i quali hanno visibilità molto maggiore di quella di cui godono comunemente i processi interni, costituisce un indice significativo della volontà, da parte della comunità di Stati che istituiscono corti internazionali, di “tagliare con il passato”, favorendo la condanna di coloro che abbiano deviato in modo inaccettabile dagli standard di rispetto dei diritti umani e contribuendo a dissuadere coloro che operano all’interno degli apparati di governo statali dal commettere violazioni dei diritti umani (specie quando flagranti e sistematiche).

Dunque, da quanto appreso attraverso l’analisi qui proposta della tutela sovranazionale del diritto di libertà religiosa indubbiamente emerge che:- un grande lavoro di cooperazione internazionale è stato compiuto dagli Stati nel momento in cui hanno promosso l’adozione degli importanti atti normativi internazionali che proclamassero – e valessero come impegno solenne a tutelare – i diritti umani fondamentali e tra questi la libertà di religione; vi è una chiara intenzione di raggiungere nei fatti, col tempo e un passo alla volta, i principi giuridici riconosciuti nelle Carte internazionali; che le Corti e gli altri organi internazionali istituiti per esercitare un controllo sul rispetto dei diritti umani da parte degli Stati al loro interno, nei confronti dei singoli e dei gruppi, hanno operato proficuamente, cercando di far emergere i vari profili da tutelare della libertà di religione e di credo, impliciti nell’onnicomprensivo dettato normativo-giuridico previsto dagli strumenti internazionali, inoltre dando segnali di evoluzione nei loro orientamenti più controversi; che, infine, quelli che si configurano quali “fattori d’intralcio” all’esercitabilità della libertà di religione rappresentano le questioni che, oggi, i singoli governi nazionali e gli organi internazionali appositamente ricreati hanno il doveroso compito di affrontare e di risolvere nel modo che consenta di garantire in fatto quell’ampiezza di tutela giustamente disegnata dall’ordinamento internazionale in favore di un diritto fondamentale dell’uomo quale è la libertà di religione, da rispettarsi nei confronti di ogni individuo o gruppo, in ogni Stato ed in ogni tempo, di pace e di guerra.

In effetti, le questioni del “rinvenimento di un comune senso” della libertà di religione da parte dei vari Stati che s’inscrivono nella comunità internazionale, che valga a restituire effettiva unità di significato a questa libertà, nella frastagliata realtà culturale e religiosa oggi più che mai percepibile, da tutti e ovunque[66]; della realizzazione “della vera laicità giuridica”, quella che sia tale da garantire la convivenza in pace e armonia dei diversi orientamenti personali, religiosi e non, all’interno di ciascuno Stato; del contrasto dell’“analfabetismo religioso” a mezzo di un’opera efficace[67]; della creazione delle “mancanti Corti internazionali” che possano accrescere ulteriormente, a livello regionale, la protezione della libertà di religione e, in generale, di ogni altro diritto umano fondamentale, rappresentano le attuali sfide da vincersi – nel senso indicato dal diritto internazionale – dagli Stati e dagli organi sovranazionali, così che tali questioni non si tramutino da iniziali “fattori d’intralcio” in veri e propri impedimenti all’attuazione della tutela dei diritti fondamentali dell’essere umano. È tempo di spendere le proprie migliori energie – a livello di Governi nazionali ed Istituzioni sovranazionali, ma anche di semplici cittadini che intendano porsi come elementi positivi del proprio contesto culturale di provenienza – per recuperare il pieno senso dei diritti umani, per ripercorrere i fatti storici che hanno portato al loro fermo riconoscimento come punto di non ritorno e di lasciarsi guidare nell’oggi, nell’inquadramento della portata delle questioni odierne e nell’individuazione per esse della corretta risoluzione, dalla bussola i cui punti cardinali sono i diritti umani. Tali questioni sono pur sempre un “male” minore e tanto più vincibile di quel “male assoluto” rispetto al cui ripetersi l’unico argine opponibile è la preservazione e la migliore interpretazione ed attuazione delle nostre Carte dei diritti umani internazionali. Eppure, se si è potuto rilevare come sussistano tutti i presupposti e tutte le condizioni nel sistema internazionale affinché la libertà di religione o credo sia adeguatamente tutelata, è anche vero che, attualmente, ciò che in effetti attualmente frustra l’attuazione di una piena tutela della libertà di religione non risiede tanto nelle previsioni normativo-giuridiche rinvenibili negli strumenti di diritto internazionale in ordine alla libertà religiosa, che in sé considerate sono appropriate nell’offrire un’ampia tutela alla libertà in questione, né nell’operato degli organi internazionali, che hanno contribuito ad arricchire di significato le previsioni normativo- giuridiche internazionali ma, piuttosto:- nella non facile gestione da parte degli Stati al loro interno dell’incontro, avvenuto negli ultimi anni in modo brusco ed inaspettato per la portata tra culture e religioni molto diverse tra loro, incontro che a causa del diffuso “analfabetismo religioso” può dare adito a fenomeni di intolleranza religiosa, tra privati o anche tra privati e Stato; – nella inevitabile teorizzazione di molteplici e differenti modelli di libertà religiosa oltre a quella nota al mondo occidentale, soprattutto presso le popolazioni dei paesi africani ed asiatici, rendendo dunque necessario uno sforzo di comprensione reciproca per trovare valori veramente comuni ed indiscutibili per qualsiasi uomo; – e, infine, nella non attuazione o nella non piena attuazione del principio di laicità all’interno degli Stati[68].


[1] Sulla ricostruzione progressiva del diritto alla libertà religiosa si vedano: F. RUFFINI, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Feltrinelli, Milano, 1911; ID, Corso di diritto ecclesiastico italiano. La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, ed. Il Mulino, Bologna, 1992; G. CATALANO, Il diritto di libertà religiosa, Cacucci, Milano, 1957; P. A. D’AVACK, Trattato di diritto ecclesiastico, I, Giuffrè, Milano 1978; A. VITALE, Regolamentazione della libertà religiosa, in Ius Ecclesiae, n. 2 del 1997; S. LARICCIA, Libertà religiosa: una nuova attuazione dell’art. 8, comma 3, Cost., in Foro Italiano, n.10/2000; G. CIMBALO, Il diritto ecclesiastico oggi: la territorializzazione dei diritti di libertà religiosa, Luigi Pellegrini, Cosenza, 2001; D. LOPRIENO, La libertà religiosa, A. Giuffrè, Milano, 2009; M. C. FOLLIERO, Diritto ecclesiastico. Elementi. Principi scritti principi non scritti regole. Quaderno 1. I principi non scritti, Giappichelli, Torino, 2007; A. FERRARI, La libertà religiosa in Italia un percorso incompiuto, Carocci, Roma,2012; M. MADONNA, Profili storici del diritto di libertà religiosa nell’Italia post unitaria, in Nuovi studi di diritto ecclesiastico e canonico, collana diretta da A. G. CHIZZONITI, La Libellula, Trecase, 2012; V. PACILLO, Buon costume e libertà religiosa. Contributo all’interpretazione dell’art. 19 della Costituzione italiana, Giuffrè, Milano, 2012; G. D’ANGELO, Libertà religiosa e diritto giurisprudenziale. L’esperienza statunitense, Giappichelli, Torino, 2015; M. TEDESCHI, I problemi attuali della libertà religiosa, Rubettino, Soveria Mannelli, 2002; G. DALLA TORRE, Considerazioni sullattuale problematica in materia di libertà religiosa”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), gennaio 2014.
[2] Cfr. C. CARDIA, La liberà religiosa tra ascese e crisi dei diritti umani, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n.22/2016.
[3] Tuttavia tale libertà nel corso degli anni non e stata declinata sempre allo stesso modo, ma anzi si è modificata anch’essa con il passare del tempo e con l’evoluzione storico-sociale. In particolare, con l’Unità d’Italia si è assistito ad una sua interpretazione limitata alla sola forma individuale, che poi è stata a sua volta compressa dallo Stato fascista e riammesso con l’avvento dei Patti Lateranensi e la Legge sui culti ammessi. Oggi, invece, non si può più prescindere da una libertà religiosa che sia esercitata anche a livello collettivo, anche grazie al superamento della concezione, ormai superata di certo, della perfetta sovrapposizione tra la religione e la coscienza, che limitava le scelte religiose e di fede ad un intimo convincimento interiore, non condivisibile con gli altri o con la collettività. Per un approfondimento sul tema della liberta di coscienza nel diritto canonico si rimanda a P. LO IACONO, Ulteriori considerazioni in tema di impegno politico, libertà di coscienza e tutela dei diritti nell’ordinamento canonico. Analizzando la documentazione relativa alle vicende di un parroco, in Diritto di famiglia e delle persone, vol. 37, n. 3/2008. Dello Stesso Autore, per un approfondimento sempre sul tema della libertà religiosa si rinvia a La tutela della libertà religiosa dei prigionieri di guerra, in M. TEDESCHI (a cura di) La liberà religiosa, tomo I, Rubbettino, Soveria Manelli, 2002.
[4] Cfr. M. TEDESCHI, I problemi attuali della libertà religiosa, in M. TEDESCHI (a cura di) La libertà religiosa, tomo I, Rubbettino, Soveria Manelli, 2002, p.12.
[5] A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Giuffre, Milano, 2005, p. 13
[6] L. GUERZONI, Libertà religiosa ed esperienza liberal-democratica, in AA.VV., Teoria e prassi delle libertà di religione, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 219
[7] Ivi, p. 234; cfr. F. RUFFINI, La libertà religiosa. Storia dell’idea, introduzione di ARTURO CARLO JEMOLO, Feltrinelli, Milano, 1967; P. A. D’AVACK, voce Libertà religiosa (dir. eccl.), in Enciclopedia del Diritto, XXIV, Milano, 1974, p. 598
[8] Ivi, p. 243.
[9] Ivi, p. 241.
[10] L. GUERZONI, Libertà religiosa ed esperienza liberal-democratica, in AA.VV., Teoria e prassi delle libertà di religione, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 219.
[11] F. ALICINO, La legislazione sulla base di intese. I test delle religioni “altre” e degli ateismi, Cacucci, Bari, 2013, p. 15.
[12] C. MORINI, “L’ evoluzione della libertà religiosa nel diritto internazionale”, in Eunomia. Rivista semestrale di storia e politica internazionale, rivista telematica (www.siba- ese.unisalento.it), n° 2/ 2016.
[13] A. BUGAN, La comunità internazionale e la libertà religiosa, Desclèe e c., Roma, 1965; M. D. EVANS, Religious Liberty and International Law in Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, p. 213 e ss.; M. LUGATO, La libertà religiosa secondo il diritto internazionale ed il conflitto globale dei valori, G. Giappichelli, Torino, 2015; S. MANCINI, La supervisione europea presa sul serio: la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti, in A.I.C., gennaio, 2010.
[14] P. VOYATZIS, “Pluralismo e libertà di religione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, in Diritto e religione in Europa, (a cura di) R. MAZZOLA, il Mulino, Bologna, pp. 103-114.
[15]Handyside c. Regno Unito (P), ric. 5493/72, sent. 7 dic. 1976.
[16] M. VENTURA, “L’articolo 17 TFUE come fondamento del diritto e della politica ecclesiastica dell’U.E.”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, rivista telematica (www.rivisteweb.it), fasc.2/ agosto 2014, pp. 293-304.
[17] Norme dell’UE in materia religiosa si rinvengono in particolare: nell’art. 10 della Carta di Nizza che sancisce la libertà di religione e, tramite la previsione dell’art. 52 della stessa Carta, rende operante nel diritto dell’UE la disciplina e l’interpretazione per essa prevista dalla CEDU e dalla Corte EDU; nell’art. 17 TFUE.
[18] P. TANZANELLA, “Il margine di apprezzamento”, in I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, (a cura di) M. CARTABIA, il Mulino, Bologna 2007, 2007, pp. 145 e ss.
[19]Gli elementi di riconoscimento della laicità europea sono il principio di separazione tra Stato e Chiese ed il conferimento alle autorità nazionali di un “discreto margine di apprezzamento“, cfr. P. ANNICCHINO, Tra margine di apprezzamento e neutralità: il caso «Lautsi» e i nuovi equilibri della tutela europea della libertà religiosa”, in R. MAZZOLA, Diritto e religione in Europa, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 179-193;
[20] S. E. LEOTTA, “La libertà di religione nell’art. 9 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo“, in Fogli di lavoro per il diritto internazionale, rivista telematica (www.lex.unict.it), vol. 1/ giugno 2014; F. MARGIOTTA BROGLIO, La protezione internazionale della libertà religiosa nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Giuffrè, Milano, 1967, pp. 11 e ss; F. MARGIOTTA BROGLIO, Libertà religiosa e diritti dell’uomo. Un piccolo passo nella direzione della garanzia internazionale specifica, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1984, pp. 159-165.
[21]Sent. Efratiou c. Grecia, par. 37; sent. Valsamis c. Grecia, par. 36.
[22] Ad esempio sent. Kokkinakis c. Grecia o la assai più recente sent. Gorzelik et autres c. Polonia, n°44158/98, 2004-I.
[23]Sent. Gorzelik et autres c. Polonia, par. 92, traduzione : «[rispetto e riconoscimento] vero della diversità e della dinamica delle tradizioni culturali, delle identità etniche e culturali, delle credenze religiose» .
[24] Come sottolineato anche dalla dottrina, M. TEDESCHII, Manuale di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, p. 124-125.
[25]Così la Corte EDU ha in pregresse sentenze interpretato il requisito della “necessità” previsto dal par.. 2, art. 9 CEDU, con riguardo alle limitazioni che lo Stato può apportare alla libertà dell’individuo e dei gruppi di manifestare la propria religione o credo.
[26]Sei casi concernenti studenti espulsi da diverse scuole francesi perché responsabili di aver continuato ad indossare abiti religiosi negli spazi scolastici, contravvenendo al divieto di portare simboli religiosi nelle scuole pubbliche, disposto dalla legge francese del 2004. I casi furono decisi nello stesso giorno, con sentenze del 30 giugno 2009.
[27]Cfr. Lautsi c. Italia, 18 marzo 2011, par. 74.
[28]Nel senso indicato dalla sentenza Lautsi 2011, par.58, cioè sbilanciate a favore di determinate “convinzioni filosofiche”.
[29] F. E. ADAMI, Il fenomeno religioso nei paesi dell’Unione europea, Quattroventi, Urbino, 2002
[30]L.L. CHRISTIANS, “Droit et religion dans le Traité d’Amsterdam: une étape decisive?”, in Y. LEJEUNE (a cura di), Le Traité d’Amsterdam. Espoirs et déceptions, Bruxelles, 1999, p.201 e ss.
[31]Sul punto è richiamato dalla CGUE il criterio di valutazione impiegato dalla CEDU nella sentenza Eweida e a. c. Regno unito, 15 gennaio 2013, con l’unica differenza che in quel caso la CEDU valutò la libertà d’impresa (perseguita dalla limitazione religiosa imposta dalla normativa aziendale) come un interesse “non fondamentale” rispetto alla libertà di religione su cui andava ad impingere e qualificata come “diritto fondamentale in una società democratica “ dalla Corte; invece la CGUE nel caso di specie configura la libertà d’impresa come una “libertà fondamentale” dell’ordinamento dell’Unione europea al pari della libertà di religione.
[32]Anche in questo caso sono richiamati i criteri impiegati dalla CEDU nella sent. Eweida e a. c. Regno unito.
[33]In particolare, la Corte EDU nella sent. Hasan e Chaush c. Bulgaria, 26 ottobre 2000, ha inteso la libertà religiosa confessionale come “essenziale perché funzionale all’effettivo godimento della libertà religiosa da parte dei membri delle comunità e organizzazioni religiose. E così ha voluto anche chiarire che la garanzia di autonomia delle chiese non potrebbe comunque mai travalicare quella dei diritti fondamentali della persona” (P. Floris, Organizzazioni di tendenza religiosa tra Direttiva europea, diritti nazionali e Corte di giustizia UE, in rivista telematica, www.statoechiese.it, 2019, n°12). Analoghe affermazioni di principio si hanno nelle sentenze Corte EDU: Obst c. Germania, ric. 425/03, sentenza 23 settembre 2010, nn. 44 e 58; Siebenhaar c. Germania, ric. 18136/02, sentenza 3 febbraio 2011, n. 41; Fernandez Martinez c. Spagna, (GC), cit., n. 80.
[34]Sentenza Corte EDU Manuossakis e a. c. Grecia, 26 settembre 2006, par. 47.
[35]Sent. CGUE Egenberger c. Evangelisches Werk für Diakonie und Entwicklung e V, 17 aprile 2018, ove la Corte GUE si è attenuta all’interpretazione del dovere di neutralità promossa dalla Corte EDU ossia ricavata dalla lettura dell’art.9 (sulla libertà di religione) alla luce dell’art.11 della CEDU (sulla libertà di riunione e di associazione). Inoltre la Corte GUE ha imputato la previsione di tale dovere direttamente all’art. 17 TFUE oltrechè agli artt. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e 9 della CEDU.
[36]Il discorso vale anche con riguardo all’autonomia degli enti con finalità etiche fondate su convinzioni personali ossia enti filosofici o non confessionali.
[37]Ad essi (ai partiti), secondo il Comitato (CCCP/C/SR. 206/ 1980) non si può chiedere di essere indifferenti alle opzioni politiche altrui, proprio in quanto associazioni di cittadini che condividono specifici orientamenti politici. Pertanto sarebbe dato loro di porre in essere entro una certa misura delle “discriminazioni” su base ideologica poiché un generale divieto di discriminazione nei loro confronti determinerebbe «the end of political freedom and the establishment of government machinery for comprensive control of the Life and the existence of citizens».
[38]Caso Faurisson v. Francia, N° 550/1993 (1996).
[39]Caso Malcolm Ross v. Canada, N° 736/1997 (2000).
[40]Caso J.R.T. and W.G. Party v. Canada, N° 104/1981 (1984).
[41]Cfr. decisione sul caso G.M. Brinkhof v. The Netherlands, Comm. N° 402/1990, (1993).
[42]Cfr. decisione sul caso Paul Westermann v. The Netherlands, Comm. N° 682/1996 (1999).
[43] S. BARBIROTTI, “Sistema arabo-islamico e diritti umani”, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, maggio-agosto 2001, p. 416-467.
[44] S. ANGIOI, “Le dichiarazioni sui diritti dell’uomo nell’Islam”, in I diritti dell’uomo, cronache e battaglie, 1998/1, p. 15 e ss.
[45]Paesi membri della Lega Araba quali: Algeria, Bahrein, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Palestina, Quatar, Arabia Saudita, Siria, Emirati Arabi Uniti, Yemen.
[46] M. R. PICCINNI, “Profili di tutela della libertà religiosa nella Costituzione dei Paesi della riva sud del mediterraneo e nelle Dichiarazioni arabo islamiche sui diritti dell’uomo”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), maggio 2007.
[47] C. B. CEFFA, “La libertà religiosa nell’Islam: la Carta araba dei diritti dell’uomo”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), luglio 2010;
[48]Art. 45 Carta araba, lett.b).
[49] P. TANZANELLA, “Il sistema regionale interamericano di protezione dei diritti umani nella prassi deilla Corte di San Josè”, in I diritti dell’uomo, rivista telematica (www.astrid-online.it), 2010, pp.12- 29.
[50]Traduzione: «Questo diritto [libertà di religione e di coscienza] è uno dei fondamenti della società democratica. Nella sua dimensione religiosa, costituisce un elemento trascendentale nella protezione delle convinzioni dei credenti e nel loro modo di vivere», par. 79 della sentenza del 5 febbraio 2001 (www.corteidh.or.cr).
[51]« En efecto, entiende la Corte que la prohibicion de la exhibición de la película “La Ultima Tentación de Cristo” no privò o menoscabo a ninguna persona su derecho de conservar, cambiar, profesar o divulgar, con absoluta libertad, su religión o sus creencias», Ibidem.
[52]Par.36 della sentenza del 29 aprile 2004, punto 4.
[53]Ibidem, par. 42.30.
[54]Traduzione: «il divieto […] della mancanza di rispetto dell’onore e delle convinzioni personali (comprese le relazioni dei vivi con i loro defunti) è ai nostri giorni assoluto e universale, poiché appartiene al dominio dellojus cogens internazionale», par.30 del voto motivato di Antonio Augusto Cancado Trindade accluso alla sentenza del 29 aprile 2004.
[55] C. CIANNITTO, R. BOTTONI, M. PARISI, “Laicità e sicurezza nel sistema costituzionale turco: il caso «Refah partisi (partito della prosperità) e altri c. Turchia»”, in Diritto e religione in Europa, (a cura di) R. MAZZOLA, il Mulino, Bologna, pp. 229-258.
[56] G. ANELLO, “Fratture culturali e terapie giuridiche. Un percorso giurisprudenziale tra multiculturalità e soluzioni interculturali”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), novembre 2009.
[57]S. Ferrari, La libertà di religione nell’epoca della diversità, in rivista telematica, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n°1, aprile 2018, p. 284.
[58]Secondo la ricostruzione proposta da H. Brunkhorst (2014) la genesi del concetto di libertà religiosa sarebbe avvenuta attraverso tre tappe evolutive che hanno determinato lo sviluppo di tre sue dimensioni, in esso ricomprese: la dimensione istituzionale (che si è tradotta giuridicamente nel principio di separazione tra la Chiesa e lo Stato), la dimensione individuale (che ha condotto alla concezione della libertà di religione come un diritto privato ed individuale, liberamente esercitabile con conseguente equiparazione delle scelte di coscienza religiose e non religiose) e la dimensione universale (di diritto umano, appartenente ad ogni essere umano, da riconoscere egualmente ad ogni uomo ai fini di liberamente ricercare e stabilire la propria verità personale, religiosa o non, senza che ciò infici il godimento dei diritti civili e politici).
[59]S. Ferrari, La libertà di religione nell’epoca della diversità, in rivista telematica, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n°1, aprile 2018, p. 287.
[60]«Lo Stato laico è tale solo perché non può essere condizionato da alcuna confessione (se si è autolimitato è dallo Stato confessionale), e perché proprio nella posizione di asetticità trova il giusto equilibrio tra le confessioni», M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 140.
[61]Più precisamente la contrattazione bilaterale con la Chiesa cattolica si fonda sui Patti, atti di diritto esterno da rendere esecutivi nel nostro ordinamento, mentre la contrattazione bilaterale con le altre confessioni si basa su intese, atti di diritto interno da recepire con una successiva legge di approvazione. Tuttavia la nostra Corte Costituzionale ha da ultimo riconosciuto ad entrambe le leggi di ricezione degli accordi con le confessioni (siano essi accordi di diritto internazionale, siano essi accordi di diritto interno) rango di leggi rinforzate rispetto alla legge ordinaria (possono essere modificate non unilateralmente con una successiva legge ordinaria, ma solo da altro accordo tra le parti debitamente recepito o da norme costituzionali o internazionali generali o ad esse equiparate (per es. norme diritto dell’U.E.).
[62] A. FUCCILLO, “Pace interreligiosa : alcuni spunti di riflessione a margine della World interfaith harmony week ed il possibile ruolo del diritto“, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), febbraio 2011.
[63]In particolare cfr. Risoluzione 1743 del 2010.
[64]R. Mazzola, Confessioni, organizzazioni filosofiche e associazioni religiose nell’Unione europea tra speranze disilluse e problemi emergenti, in rivista cartacea, Il diritto ecclesiastico, 2013.
[65]Livello funzionale a dare effettività a standards di tutela definiti ad un livello universale e generale.
[66]La dottrina (S. Ferrari, Casanova, Fabris, Novak) ha individuato una possibile strada da intraprendere a tal fine, ossia per rinsaldare il legame di tutti gli Stati della comunità internazionale attorno ad un’idea comune di libertà di religione, che sia idonea a garantire il rispetto della persona umana, della sua dignità con le sue proprie scelte personali, ed essa consiste nell’aprirsi (gli Stati occidentali) alla conoscenza delle realtà culturali-religiose diverse da quella occidentale e delle loro varie concezioni particolari dei diritti (ciascuna radicata in un contesto specifico) e nel promuovere proposte e soluzioni di inquadramento della libertà di religione che superino i limiti del singolo contesto ed acquistino potenzialmente valore universale.
[67] Ad esempio, come si è sostenuto dalla dottrina (R. Mazzola), promuovendo la trasmissione del sapere religioso negli Stati, da parte delle istituzioni scolastiche e culturali pubbliche, di tal che vi sia dialogo, un “comunicare per conoscersi”, e così superamento di ostilità, nella scoperta della necessità comune a tutti gli uomini consociati (di qualsiasi credo religioso e non) di salvaguardare i diritti umani e dunque di cooperare per elaborare una tavola di valori comuni e condivisi; è questo un modo, da ultimo, per puntare a ricreare in fatto un’Europa laica qual è quella delineata dal diritto dell’U.E., sempre più multietnica e pluralista in materia di religione e di credenze e solamente protesa alla protezione dei diritti umani.
[68] N.COLAIANNI, “La laicità al tempo della globalizzazione”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), giugno 2009.

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Avv. Alessandro Palma

Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali. E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali. E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.

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