Il divieto di non discriminazione per i contratti di lavoro: esistono eccezioni alla regola?

Il divieto di non discriminazione per i contratti di lavoro: esistono eccezioni alla regola?

Cassazione civ. – sentenza 21 febbraio 2018 n. 4223

a cura di Paola D’Abbrunzo

L’art. 34 del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 – “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro” definisce il contratto di lavoro intermittente come quel contratto che “ (…) può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale” e che, “In via sperimentale il contratto di lavoro intermittente può essere altresì concluso anche per prestazioni rese da soggetti in stato di disoccupazione con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età che siano stati espulsi dal ciclo produttivo o siano iscritti alle liste di mobilità e di collocamento.”.

La Corte di Cassazione è stata, recentemente, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento predisposto nei confronti di un giovane lavoratore ad opera della società datrice di lavoro, la quale, al compimento del 25° anno di età del giovane, decideva di interrompere unilateralmente il contratto di lavoro intermittente stipulato tra le parti.

L’occasione è diventata, anche grazie all’incidentale rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, terreno fertile per un’ulteriore chiarificazione dei presupposti, delle caratteristiche e delle finalità di tale tipologia contrattuale, che ha fatto il suo ingresso, nel mercato del lavoro italiano, nel 2003.

Sin da subito, nella risoluzione del caso in esame, si è avvertita la necessità di districarsi su di un doppio binario normativo, quello offerto dalla vigente legislazione interna e quella europea.

Vi era da scongiurare, infatti, un contrasto con il principio generale di non discriminazione sancito dal diritto dell’Unione e concretizzato, per la materia che ci occupa, nella Direttiva 2000/78 del Consiglio Europeo, che sancisce la non discriminazione basata sul requisito dell’età, nonché nell’art.21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, assunta, con il Trattato di Lisbona, a rango dei Trattati Istitutivi. 1

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Milano riformava l’ordinanza del Tribunale di Milano che aveva dichiarato improponibile il ricorso proposto dal giovane lavoratore, con il quale si deduceva l’illegittimità per discriminazione in ragione dell’età del contratto di lavoro intermittente a tempo determinato stipulato in data 14 dicembre 2010 e convertito a tempo indeterminato in data 10 gennaio 2012 e del relativo licenziamento intimatogli al raggiungimento del venticinquesimo anno di età avvenuto il 26 luglio 2012; la Corte, accoglieva, pertanto, la domanda e condannava la società a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno nella misura della retribuzione – da agosto 2012 alla data della sentenza – calcolata secondo la media mensile percepita nel corso del rapporto di lavoro.

Secondo la Corte di appello di Milano, il rapporto di lavoro doveva considerarsi a tempo indeterminato con orario part – time ed il fatto che lo stesso si fosse concluso in esclusiva ragione dell’età, rendeva illegittimo il licenziamento.

Avverso questa sentenza la società proponeva ricorso in Cassazione, deducendo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 34, comma 2, del D.Lgs n.276 del 2003, della Direttiva 2000/78/CE, nonché del principio generale di diritto eurounitario inerente il divieto di discriminazione in ragione dell’età e violazione del principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno; con un’altra censura, sempre la società datrice di lavoro, denunciava la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 34, comma 2, del il D.lgs n.276 del 2003, nella parte in cui assume che la invalidità del contratto di lavoro intermittente o a chiamata possa essere sanzionata con il risarcimento del danno e non con la conversione del rapporto a tempo indeterminato.

La Corte di Cassazione, anzitutto, ha sostenuto che il contratto di lavoro intercorso tra le parti in causa veniva stipulato proprio ai sensi del secondo comma dell’art. 34 del D.lgs n.276 del 2003 che, all’epoca dei fatti, prevedeva la possibilità che il contratto di lavoro intermittente potesse essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età.

Considerato, poi, che il D.lgs n.276 del 2003 di “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n.30”, al secondo comma dell’art. 34 stabiliva che “ il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età”; ritenuto che il richiamato secondo comma di cui all’art. 34 del D.lgs n.276 del 2003 poteva porsi, stante lo specifico e caratterizzante riferimento all’età, in conflitto con il principio di non discriminazione in base all’età che deve essere considerato (Cfr. sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07 Kücükdeveci) un principio generale del diritto dell’Unione (Cfr. sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold), cui la Direttiva 2000/78 dà espressione concreta (Cfr. sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne), la Corte di Cassazione disponeva ” ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE” di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea se la normativa nazionale di cui all’art. 34 del D.lgs n.276 del 2003, secondo la quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, fosse contraria al principio di non discriminazione in base all’età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 21) e sospendeva il giudizio sino alla definizione delle suddetta questione pregiudiziale.

Nell’ambito della causa C-143/16, la Corte di giustizia dell’Unione è stata chiamata a valutare, per la prima volta 2, una misura nazionale che introduce condizioni specifiche per i lavoratori più giovani riguardo l’accesso ad un particolare tipo di contratto di lavoro flessibile dal punto di vista della discriminazione in base all’età e la sua compatibilità rispetto alla direttiva 2000/78/CE.

In realtà, il divieto di discriminazione in base all’età è un principio generale del diritto dell’Unione codificato dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta. La direttiva 2000/78/CE rappresenta un’espressione specifica di tale principio nell’ambito dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. Per tale ragione, quando una situazione ricade nell’ambito di applicazione della direttiva, è quest’ultima – in quanto strumento più specifico – a rappresentare il contesto di analisi primario3.

Questa prevede che «il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione e la promozione della diversità nell’occupazione. Tuttavia in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate e richiedono pertanto disposizioni specifiche che possono variare secondo la situazione degli Stati membri. È quindi essenziale distinguere tra le disparità di trattamento che sono giustificate, in particolare, da obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale, e le discriminazioni che devono essere vietate».

Ai fini della presente direttiva, anzitutto è utile chiarire che per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 (discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali) ed al contrario, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga.

Ebbene, il punto risolutivo della questione pregiudiziale è offerto dalla stessa richiamata direttiva, nella parte in cui ammette una deroga al principio di non discriminazione, necessaria in funzione del raggiungimento di una finalità legittima. Nello specifico, le disparità di trattamento, secondo la Corte di giustizia dell’Unione, sono superabili quando siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.4

Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione; c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento».

Con la sentenza, pubblicata in CGUE, C-143/2016, del 19 Luglio 2017, la Corte di giustizia ha affermato il seguente principio di diritto: “l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/Ce del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione, quale quella di cui si sta parlando, che autorizza un datore di lavori a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.

Questo, pertanto, è stato il quadro normativo ed interpretativo che veniva consegnato dalla Corte di giustizia alla Corte di Cassazione. E, in effetti, la Suprema Corte italiana, nel recepire quei dettami, stabiliva, nella sentenza in esame, n.4223/2018, che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscono discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate da una finalità legittima. Dopo di che, nell’accogliere la seconda censura mossa dalla società ricorrente, cassava per quella parte la sentenza di secondo grado e rinviava, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, la controversia.

Emerge, sin da ora, la necessità di alcune considerazioni.

La questione pregiudiziale di cui la Corte di giustizia dell’Unione si è dovuta occupare a seguito del rinvio operato dalla Corte di Cassazione italiana, concerne la fattispecie dell’assunzione e del licenziamento. Non vi è dubbio che una disposizione come quella oggetto del procedimento principale riguardi le «condizioni di accesso all’occupazione» e le «condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento». Pertanto, essa rientra pienamente nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva suindicata.

Per quanto attiene all’ambito di applicazione della direttiva – soggetto a verifica fattuale definitiva da parte del giudice nazionale – esso è pacifico dal momento che il giovane lavoratore italiano può sicuramente essere considerato un lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione. Le condizioni di lavoro di una persona che ha stipulato un contratto di lavoro intermittente, infatti, non escludono la qualifica del medesimo come lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione 5.

Vero è, che per la maggior parte del procedimento dinanzi ad essa, l’analisi condotta dalla Corte di giustizia ha assunto la Direttiva 2000/78/CE come ambito di analisi principale, nonostante il richiamo, operato dalla stessa società ricorrente, anche all’art. 21 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione. Tutto ciò, però, non ha precluso in alcun modo la contestuale applicabilità dello stesso. Il rapporto tra l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e la direttiva 2000/78/CE non è, infatti, di reciproca esclusione. Si tratta piuttosto di un rapporto di attuazione e complementarietà, dato che la direttiva rappresenta una specifica espressione del principio generale sancito dalla Carta.

Chiarito questo aspetto, potrebbe apparire più spinosa la questione della potenziale applicabilità diretta dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e della direttiva 2000/78/CE che ne è diretta espressione, poiché, nello specifico, alla Corte di giustizia veniva chiesto di pronunciarsi direttamente sulla compatibilità di una disposizione nazionale, valutata in abstracto, a prescindere dalla sua applicazione nei rapporti verticali od orizzontali, con il diritto dell’Unione. Il giudice del rinvio non ha chiesto di pronunciarsi sulle conseguenze derivanti dall’eventuale non conformità della disposizione interna in esame con la direttiva, ma addirittura, ha richiesto una sorta di giudizio di merito, sulla legittimità stessa della normativa interna, quando questa, come nel caso di specie, deve essere applicata direttamente nei confronti di un privato.

Allo stesso tempo, è bene ricordare che anche le direttive, in quanto tali, per le caratteristiche intrinseche che le distinguono dai regolamenti, al netto di quelle particolarmente dettagliate, non si rivolgono ai cittadini degli stati membri, ma bensì agli stati stessi, e, in alcuni casi, solo ad alcuni di essi.

Allora, come può essere giustificato un rinvio, della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia dell’Unione, che ha per oggetto una pronuncia sulla compatibilità, ed, entrando nel merito, sulla legittimità, di una misura nazionale rispetto ad una fonte, assunta oggi a rango dei Trattati, come quella dell’art. 21 della Carta, le cui disposizioni, però, si “« (…) applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» 6?; ed ancora, rispetto ad una fonte di diritto derivato che non possiede la caratteristica dell’applicabilità self-executing, come la direttiva 2000/78/CE?

Ebbene, risolutiva, sotto questo aspetto, dovrebbe essere la circostanza per cui la direttiva 2000/78/CE è stata già recepita nel diritto interno7. L’importanza di tale aspetto dovrebbe essere espressamente sottolineata. Ciò significa, infatti, che l’obbligo di non discriminazione in base all’età non scaturisce soltanto dalla direttiva, o solo dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, ma anche da disposizioni nazionali intese a recepire tali norme di diritto dell’Unione nel diritto interno. È cosi che, in un contesto siffatto, il diritto dell’Unione dovrebbe in seguito trovare applicazione nei rapporti orizzontali, principalmente, attraverso l’interpretazione del divieto interno di discriminazione in base all’età, in conformità con le originarie (e poi parallele) disposizioni del diritto dell’Unione, come interpretate dalla Corte. Il riconoscimento di tale disposizioni permetterà di evitare malintesi circa la portata della potenziale applicabilità orizzontale diretta delle disposizioni della Carta e delle direttive. In pratica, effettuare tale constatazione permetterà di circoscrivere i casi in cui può essere contemplata una siffatta applicazione diretta delle disposizioni della Carta ai rapporti tra soggetti privati, a situazioni numericamente molto limitate e piuttosto straordinarie.

Un altro punto da analizzare riguarda il contenuto delle disposizioni risultanti dal D.Lgs 276/2003; c’è da chiedersi se quelle stesse disposizioni (nella formulazione applicabile ratione temporis, disposizione poi superata), possano considerarsi strumenti idonei, finalizzati ad incrementare l’occupazione, pur laddove si tratti di valorizzare un contratto “anomalo” che mira esclusivamente alla tutela della sua condizione di flessibilità, nel mercato del lavoro.

Per quanto concerne, in particolare, la categoria dei lavoratori di età inferiore ai 25 anni, la facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente «in ogni caso» e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età, trova l’indubbio bilanciamento, a favore dei lavoratori, nell’assenza di una richiesta esperienza professionale pregressa, che, in un mercato del lavoro in difficoltà come quello italiano, è di per sé un fattore che penalizza i giovani. La ratio dell’art.34 del D.lgs 276/2003, allora, dovrebbe essere ravvisata nella possibilità di entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo, da considerare quale trampolino verso nuove possibilità d’impiego. Pertanto, tale disposizione sarebbe relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro, quasi come momento preliminare rispetto alla fase di stabilizzazione dello stesso.

La promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e allo stesso modo, la Corte di giustizia dell’Unione ha dichiarato che l’obiettivo di favorire il collocamento dei giovani nel mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimento professionale e assicurare la protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE 8.

Anche i mezzi adoperati per il conseguimento di siffatte finalità dovranno essere considerati appropriati e necessari, nonostante tali parametri di giudizio non possano essere valutati in astratto o solo sulla base di studi ed analisi sugli sviluppi potenziali del mercato del lavoro. L’appropriatezza e la necessità dei mezzi dovranno essere obbligatoriamente valutate alla luce del tessuto sociale ed economico attuale degli stati, che è chiaramente eterogeneo a livello europeo. In questo senso, il mercato del lavoro italiano, vivendo da alcuni anni una stasi preoccupante, ha visto nel contratto di lavoro intermittente ex art. 34 del D.lgs 276/2003, una sicura boccata d’aria. È facilmente immaginabile, infatti, che le aziende possano essere sollecitate dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e, quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d’impiego proveniente da giovani lavoratori.

È consequenziale, però, considerare che gli stati membri dispongono, diversamente da come si è soliti immaginare, di un ampio margine di discrezionalità nella materia dell’occupazione, non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo9. Da questo punto di vista, siamo ben lontani da una regolamentazione omogenea che miri a tutelare davvero il “lavoratore” dell’Unione, prima che il lavoratore di un singolo stato. Vero è che l’art. 4 del TFUE rende “concorrente” tra stati ed Unione la competenza a legiferare nelle politiche sociali, ma ricordando quanto stabilito dall’art. 6 della direttiva 2000/78/CE, ossia ricordando la possibilità concessa agli stati di giustificare disparità di trattamento quando siano necessari ai fini di politiche di lavoro interne, allora è chiaro che l’aspetto concorrente si riduce notevolmente, tutta a favore dei singoli stati.

Il D.Lgs 216/2003, con il quale è stata recepita, in Italia, la più volte richiamata direttiva 2000/78/CE, riprende senza modifiche sostanziali quanto previsto dalla disciplina europea, scendendo nel particolare solo nelle aree non coperte dalla direttiva stessa. Eppure, all’art 3 comma 3 viene introdotta un’eccezione specifica al divieto di discriminazione, che trova solo parziale riscontro nell’art 4 n. 1 della direttiva10, e prevede infatti che “nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività d’impresa, non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a uno qualsiasi dei motivi di cui all’art. 1 qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.

Le perplessità circa l’intervento normativo di recepimento della direttiva europea poi crescono se si analizza il 23° considerando della stessa: «In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all’età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato. Tali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione»11.

Due sono le considerazioni che possono trarsi. Anzitutto, è desumibile l’esistenza di un principio di tipicità, per cui è il legislatore e non il datore di lavoro (come sembrava suggerire l’interpretazione dell’art. 3, 3° co. D.lgs. 216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione; dall’altro, si rinviene una connotazione fortemente oggettiva della fattispecie che non lascia alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro, circa l’idoneità del lavoratore ad essere assunto o a continuare a svolgere le mansioni affidategli. E, se spetta al legislatore nazionale creare quel discrimen tra disparità di trattamento giustificate e/o giustificabili e disparità di trattamento che integrano vere e proprie discriminazioni vietate, allora, risulta evidente che ogni stato membro prenderà le proprie misure necessarie, conformemente alle proprie esigenze nazionali, acuendo, così, a livello dell’Unione, le differenze tra le varie politiche sociali. Da questo punto di vista, non solo ci saranno disparità di trattamento dei lavoratori europei sulla base delle differenze normative proprie di ogni stato, ma, in più, il numero dei comportamenti, nella sostanza, comunque discriminatori ma non contra legem si amplieranno e di non poco.

L’Unione europea non offre al momento una soluzione a tale problema. Nonostante l’asserito principio della supremazia del diritto eurounitario rispetto a quello interno degli stati, manca, anche nel campo delle politiche sociali e dell’occupazione, un’apprezzabile regolamentazione unitaria delle fattispecie che ci occupa. La sentenza C-143/16 della Corte di giustizia dell’Unione, non ha di certo fornito una nuova possibilità di manovra. Anzi, nell’ammettere che pur di fronte alla lacunosità e alla trasversalità della normativa interna, questa non osta al perseguimento degli obiettivi di politica del lavoro, ancora una volta è entrata nell’esame diretto e concreto della normativa nazionale valutandone congruità e adeguatezza rispetto alle esigenze di politica occupazionale interna, ma sacrificando gli intenti e le misure anti-discriminatorie, a gran voce proclamate.

Uguaglianza e non discriminazione confermano il proprio ruolo di concetti, per così dire, mainstreaming, del diritto dell’Unione, ma pochi, e confusi, restano, dal punto di vista della materia del lavoro e dell’occupazione, gli strumenti finalizzati alla loro concreta inclusione ed applicazione. Ed il rischio è che, col tempo, restino relegati a principi sempre più estemporanei rispetto alle esigenze svariate degli stati, a netto discapito dei privati lavoratori.


1 Con l’entrata in vigore del “Trattato di Lisbona”, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea.

2 L’ordinanza del 16 gennaio 2008, Polier (C361/07, non pubblicata, EU:C:2008:16) riguardava il contratto di lavoro francese «nouvelles embauches». La Corte ha ritenuto che la situazione non rientrasse nella sua competenza. Le questioni ivi sollevate dal giudice del rinvio non riguardavano tuttavia il principio di non discriminazione in base all’età.

3 V., in tal senso, sentenze del 7 giugno 2012, Tyrolean Airways Tiroler Luftfahrt (C132/11, EU:C:2012:329); dell’11 novembre 2014, Schmitzer(C530/13, EU:C:2014:2359); del 13 novembre 2014, Vital Pérez (C416/13, EU:C:2014:2371) e del 21 gennaio 2015, Felber (C529/13, EU:C:2015:20).

4 articolo 6, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2000/78 – «Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età».

5 sentenza del 26 febbraio 1992, Raulin (C357/89, EU:C:1992:87)

6 ’art. 51, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali.

7 la direttiva 2000/78 è stata recepita nel diritto italiano con il decreto legislativo del 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

8 sentenza del 10 novembre 2016, de Lange, C-548/15, EU:C:2016:850.

9 sentenza dell’11 novembre 2014, Schmitzer, C-530/13, EU:C:2014:2359.

10 Articolo 4 n°1 direttiva 2000/78/CE : “Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a una qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima ed il requisito proporzionato”

11 dir. 78/2000/CE 23° considerando.


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