Il dolo colpito a mezza via dall’errore

Il dolo colpito a mezza via dall’errore

Relativamente all’oggetto del dolo, sorge il problema relativo al trattamento penale da riservare nei casi in cui questo venga colpito a mezza via dall’errore.

Sono tipici esempi i casi in cui il soggetto attivo, convinto, per errore, di aver ucciso la vittima (come in effetti voleva), la seppellisce o le dà fuoco al fine di occultare il cadavere ed eliminare le tracce del delitto. In tali casi la vittima decede a seguito e per effetto dell’azione secondaria.

Quindi, in un primo momento l’agente pone in essere l’azione primaria al fine di uccidere la vittima. In un secondo momento, convinto di aver raggiunto scopo, l’autore del reato seppellisce il corpo al fine di occultare le tracce del proprio delitto. Conseguentemente, la vittima non muore a causa dell’azione primaria, ma a causa del soffocamento per la sepoltura (azione secondaria).

Il problema, rilevato che l’omicidio si perfeziona con l’azione secondaria, diretta all’occultamento o alla distruzione di un cadavere, è il seguente: a che titolo risponde l’agente per l’omicidio realizzato con siffatta condotta? Al fine di risolvere il predetto quesito è bene tenere a mente che la condotta secondaria non è realizzata allo scopo di uccidere (in quanto l’agente è già nella convinzione di aver già realizzato il reato di omicidio), ma allo scopo di eliminare le tracce del delitto.

Il dolo generale

Un primo orientamento ritiene che tale condotta integri il delitto di omicidio doloso, in quanto l’elemento soggettivo viene ricostruito in termini di dolo generale (che riguarda la previsione e la volizione “generica” di un evento, restando indifferente il fatto che sia stato provocato o meno dagli specifici atti che l’agente ha realizzato al fine di cagionarlo).

Secondo questo orientamento l’errore sul fatto non ha nessuna incidenza sul processo volitivo dell’agente. Invero, pur essendo vero che la morte non è stata causata da un’azione sorretta da dolo intenzionale (ad esempio la sepoltura di un corpo, realizzata allo scopo non di uccidere, ma di occultare un cadavere), è anche vero che siffatto evento costituisce l’oggetto della volontà iniziale dell’agente. In altri termini, l’agente voleva la morte e, se pur in un secondo momento, l’agente ha causato la morte.

Quindi, secondo questa interpretazione, è sufficiente a costituire il dolo la sussistenza di coscienza e volontà nella sola fase iniziale della condotta, essendo indifferente che l’evento si realizzi in una fase successiva ad essa. Invero, l’evento finale è considerato un effetto mediato e indiretto di un comportamento iniziale tenuto con la coscienza la volontà di realizzarlo. In questo caso, il dolo della prima condotta (che sarebbe il dolo dell’omicidio) si estende anche alla seconda (che, ricordiamo, è diretta ad occultare o distruggere un cadavere), purché sussista un nesso eziologico tra il risultato finale e la condotta iniziale del soggetto agente.

In conclusione, riepilogando, il dolo della prima condotta investe anche la seconda condotta, la quale di per sé è priva dell’elemento psicologico teso alla produzione dell’evento-morte che si riteneva erroneamente già verificatosi. L’evento, in questo caso, viene considerato in generale e non hic et nunc. Siffatto orientamento è stato fatto proprio da una giurisprudenza ormai risalente (si veda, Cass. 23 maggio 1961, Cossu, in Cass. 1961, 827; Cass., 27 novembre 1961, Meloni, ivi 1962, 432).

Critiche

Questa teoria, tuttavia, è suscettibile di essere sottoposta a critiche difficilmente superabili. In primo luogo, contrasta con il principio di colpevolezza (art. 27, commi 1 e 3, Cost.), in quanto attribuisce un evento all’agente a titolo di dolo, pur essendosi prodotto a causa di un atteggiamento soltanto colposo.

Invero, la teoria del dolo generale non attribuisce alcuna rilevanza all’errore che colpisce l’agente, in quanto viene imputato a quest’ultimo un fatto commesso e non voluto (al momento della seconda condotta), ma causato, appunto, per errore.

Inoltre, il dolo deve riguardare l’effettiva rappresentazione e volontà di tutti gli elementi tipici della fattispecie incriminatrice e non si può non tener conto dell’errore che investe la sfera psichica dell’agente. Infatti, l’imputazione a titolo di dolo presuppone che tutto il fatto (compreso, quindi, anche l’ultimo atto) sia sorretto da una volontà effettiva.

Nel caso in esame, invece, sussistono due azioni, entrambe caratterizzate da diversi atteggiamenti psicologici. La prima è caratterizzata dal dolo dell’omicidio, mentre la seconda (che cagiona l’omicidio), è soltanto colposa in quanto non è caratterizzata da siffatta rappresentazione e volontà, essendo presente nella psiche dell’agente l’intenzione di occultare o distruggere un cadavere.

Orientamento che attribuisce rilevanza all’errore

Alla luce di tali considerazioni, un orientamento che oggi è divenuto maggioritario scompone, invece, il fatto nelle sue componenti essenziali: l’agente risponderebbe per la prima azione a titolo di tentato omicidio doloso e, relativamente alla seconda azione, causativa dell’evento-morte, a titolo di omicidio colposo, a condizione che il dolo iniziale sia interrotto a mezza via dall’errore in executivis che ingeneri nella psiche del reo la convinzione di aver già cagionato la morte della vittima.

Infatti, l’elemento psicologico dell’agente si spezza e muta nei due diversi momenti: in un primo momento è doloso, in quanto riferito alla prima parte della condotta che è volta a compiere il reato effettivamente voluto e perseguito dall’agente; in un secondo momento, invece, è colposo e non è ricollegabile direttamente all’evento morte causato.

Differenza con l’aberratio delicti

Tale fattispecie è diversa dall’ipotesi di cui all’art. 83 c.p., relativa all’aberratio delicti. Invero, siffatta figura richiede che la condotta sia unitaria e che l’evento ulteriore non sia voluto. Invece, nella situazione qui analizzata l’evento è voluto sin dall’inizio anche se poi viene effettivamente realizzato da una condotta ulteriore posta in essere sulla base di un errore.

Le decisioni della Cassazione

Una recente pronuncia che ha abbracciato l’impostazione che dà rilevanza all’errore è quella della Corte di Cassazione, 18 marzo 2003, n. 16976, che ha stabilito che quando la condotta dell’agente sia consapevolmente diretta a realizzare un determinato evento, ma questo si realizza non per l’effetto di quella condotta, ma a causa di un comportamento sorretto dall’erroneo convincimento della già avvenuta produzione dell’evento, quest’ultimo non può essere imputato a titolo di dolo, se non sotto il profilo del delitto tentato, mentre l’ulteriore frammento della condotta può essere attribuito all’agente a titolo di colpa, sempre che il fatto sia previsto come delitto colposo.

Quindi, è necessario che il dolo della condotta iniziale persista anche nella fase terminale, altrimenti, nel caso in cui venga interrotto a causa di un errore, muta anche il titolo di responsabilità che sorregge la seconda azione.

A tale orientamento ha aderito anche la Cass. n. 12466/2007, la quale ha ritenuto che il dolo colpito “in itinere” si verifica allorché l’agente realizzi una determinata azione sulla base di una falsa rappresentazione della realtà fenomenica, producendo così il risultato voluto in un momento precedente al formarsi dell’erroneo convincimento di averlo già cagionato. Tuttavia, nel caso in cui l’agente non sia certo di aver prodotto la morte della vittima e la realizza con la condotta ulteriore, egli si rappresenta e vuole comunque il decesso come risultato della seconda azione, integrando il dolo alternativo di omicidio. Infatti, il dolo va accertato tenendo conto di tutte le circostanze del fatto comprese quelle che accompagnano la condotta, secondo quanto disposto da Cass. n. 47320/2013.

Recentemente, Cass. n. 5096/2012 ha disposto che per l’integrazione del dolo è necessario che la rappresentazione e la volizione abbiano ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica (cioè la condotta, l’evento e la causalità materiale) e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta medesima. In particolare, nei reati a forma libera (come l’omicidio volontario), l’imputazione a titolo di dolo postula che anche la volontà dell’ultimo atto sia effettiva.

Infatti, Cass. n. 631/2007 ha stabilito che nel caso in cui l’agente, dopo aver ripetutamente colpito con calci, pugni e un corpo contundente la vittima in parti vitali del corpo, la trasporti fino ad una spiaggia per abbandonarla sulla riva in condizioni di mare mosso che ne determinano l’annegamento, si configura il dolo omicidiario, in quanto la fase di trasporto e trascinamento in spiaggia ha consentito all’imputato di percepire estremi segni di perdurante vitalità della vittima. In siffatto caso, pertanto, anche l’ultimo atto deve ritenersi sorretto dal dolo dell’omicidio, per lo meno a titolo di dolo eventuale.

Ancor più recente, Cass. n. 15744/2016, ha stabilito che quando la condotta del reo è consapevolmente diretta ad uccidere, ma l’evento si verifica a causa di una condotta successiva posta in essere nell’erronea convinzione che la vittima sia già deceduta, l’omicidio non può essere imputato a titolo di dolo, se non sotto il profilo del delitto tentato, mentre l’ulteriore frammento della condotta può essere ascritto solo a titolo di colpa.

Con siffatta pronuncia, la S.C. ha confermato la sentenza della Corte d’Appello che aveva qualificato il fatto come omicidio volontario escludendo una condizione di errore in capo all’imputato che, dopo aver colpito con calci e pugni una donna facendole perdere conoscenza, la aveva spogliata e rinchiusa nel bagagliaio dell’auto, per cui lo stretto contatto in questa fase con il corpo della vittima gli aveva consentito di percepirne la vitalità, prima di ucciderla dando fuoco all’auto.


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