Il dovere di buona fede nell’obbligazione, in particolare in relazione alla mora considerato l’interesse all’esecuzione nelle obbligazioni corrispettive

Il dovere di buona fede nell’obbligazione, in particolare in relazione alla mora considerato l’interesse all’esecuzione nelle obbligazioni corrispettive

Nella trattazione analizzeremo il concetto di buona fede, il significato di inadempimento e in particolare di ritardo nell’adempimento, l’interesse all’esecuzione e quindi la possibilità di messa in mora alternativa all’eccezione di inadempimento alla risoluzione. Della mora credendi e del suo differente significato nell’ipotesi del contratto a prestazioni corrispettive.
Sommario: 1. Buona fede – 2. Inadempimento – 3. Ritardo – 4. Interesse all’esecuzione – 5. Costituzione in mora – 6. Contratti a prestazioni corrispettive

1. Buona fede

In base all’art. 1175 c.c. sia il creditore che il debitore per tutta la durata del rapporto obbligatorio devono comportarsi secondo correttezza.

Detta disposizione si collega – in materia contrattuale – all’art. 1375 c.c. che prevede l’obbligo per il soggetto chiamato a dare esecuzione al rapporto contrattuale di comportarsi secondo buona fede, all’art. 1336 c.c. in tema di interpretazione del contratto ed all’art. 1337 c.c. quale comportamento che le parti devono tenere durante lo svolgimento delle trattative.

La buona fede si sostanzia nell’obbligo per i contraenti di mantenere un comportamento oggettivamente ispirato a lealtà e correttezza, in tutti i momenti fisiologici dell’atto negoziale.

Una specificazione di tale principio può aversi con riferimento all’art. 1206 c.c. ove l’interesse del debitore a liberarsi dall’obbligazione è tutelato individuando in capo al creditore l’obbligo di cooperare al fine di rendere possibile il comportamento solutorio.

L’interpretazione “evolutiva” della nozione oggettiva di buona fede e correttezza trova spunto nel “principio generale di solidarietà sociale” di cui all’art. 2 Cost. ed ha portato a dare origine a due diverse concezioni.

In una prima accezione la buona fede è stata legata alla fase dinamica del rapporto obbligatorio (c.d. “teoria valutativa”) con ciò offrendo un criterio di valutazione del comportamento che le parti hanno tenuto nello svolgimento del rapporto negoziale. Sotto questo profilo la buona fede opera quindi solo in una fase successiva ed il generico obbligo di operare in modo corretto, secondo i dettami della clausola generale sopra specificati, serve ex post (in una fase successiva al nascere del rapporto) solo quale misura di “secondo grado” per verificare il comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto.

Sotto un diverso profilo invece (ed è questa la c.d. teoria “precettiva”) la buona fede e la correttezza operano sin dalla nascita del rapporto obbligatorio implicando ed imponendo alle parti il rispetto di ulteriori obblighi e regole (assistite da autonome azioni di adempimento e risarcitorie) da tenere al di là di quelle espressamente assunte e programmate con il negozio giuridico posto in essere.

Le ulteriori regole di condotta cui sono tenute le parti (in virtù della richiamata teoria precettiva) rientrano comunque all’interno di quelle condotte che non assurgono a criterio di valutazione di validità del negozio. Difatti, le regole di validità sono considerate tipiche (in virtù e nel rispetto del principio di certezza rapporti giuridici) e portano alla declaratoria di invalidità del rapporto negoziale perché non coerente con lo schema legale tipico posto in essere dal legislatore a tutela dei rapporti giuridici. Le regole di condotta poste in essere dalla visione precettiva in tema di buona fede, possono invece portare solo ad un giudizio di responsabilità sulla condotta non coerente rispetto agli interessi perseguiti dalle parti.

Il principio della buona fede, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale il principio deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Il criterio della buona fede, in questa prospettiva, costituisce strumento per il giudice per controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

2. Inadempimento

Il tema dell’inadempimento è inscindibilmente connesso al concetto di inattuazione del rapporto obbligatorio, l’obbligazione deve essere letta come rapporto di collaborazione, teleologicamente orientato verso la soddisfazione dell’interesse creditorio, l’inadempimento non può non porsi quale momento di crisi irreversibile di tale rapporto: l’inadempimento si sostanzia nel mancato soddisfacimento dell’interesse creditorio.

Si deve, pertanto, muovere dalla regola generale in materia di responsabilità per inadempimento e quindi dall’art. 1218 c.c.

Le problematiche che la lettera della norma in esame propone sono molteplici, ma ai fini della presente indagine vi è un punto centrale che si ripercuote sull’intera costruzione del concetto di ritardo e cioè quello relativo alla imputabilità dell’inadempimento.

In particolare, il dibattito dottrinale si è storicamente incentrato sul ruolo del profilo soggettivo tra gli elementi costitutivi della fattispecie e, di conseguenza, quando tale profilo soggettivo debba ritenersi rilevante, se la nozione di imputabilità sia legata esclusivamente alla impossibilità oggettiva della prestazione, come sembra prima facie affermare l’art. 1218 c.c., ovvero se vi sia una rilevanza, ed in qual modo questa si esplichi, della norma contenuta nell’art. 1176 c.c., ove si indica nella diligenza il criterio cui il debitore deve conformare il proprio contegno, cioè la propria cooperazione al soddisfacimento dell’interesse creditorio.

Senza volersi soffermare in modo analitico sull’iter storico che ha caratterizzato il concetto di imputabilità dell’inadempimento, ci si limita a ricordare che nel sistema precedente alla codificazione del 1942, la letteratura si era affannata nel cercare di trarre conclusioni concettualmente logiche da una evidente ambiguità: il concetto di colpa era assunto come unica base della responsabilità contrattuale, ma si esigeva l’impossibilità oggettiva di adempiere ai fini dell’estinzione dell’obbligazione.

L’art. 1218 c.c., recepisce il concetto di impossibilità come limite unico alla responsabilità per inadempimento, individuando una responsabilità oggettiva..

Nonostante ciò, la dottrina non ha abbandonato la strada della responsabilità colpevole, proponendo dell’art. 1218 c.c. una lettura integrata con l’art. 1176 c.c., tale per cui si ritiene che il debitore possa essere esonerato da responsabilità offrendo la prova di essere stato diligente.

La promulgazione della Carta costituzionale ha, infatti, imposto una diversa lettura del rapporto obbligatorio, in virtù della quale la richiamata nozione oggettiva di inadempimento non può essere condivisa.

Se già in precedenza taluni autori avevano evidenziato come oggetto del rapporto obbligatorio sia non il bene dovuto, l’oggetto cioè in senso materiale, ma il contegno attraverso il quale il debitore soddisfa l’interesse creditorio, tale connotazione del rapporto viene ad assumere ulteriore qualificazione, in un’ottica costituzionale, esigendo che tale comportamento si concretizzi in una prestazione di cooperazione la quale, nel rispetto del più ampio principio di solidarietà costituzionale, permetta la soddisfazione dell’interesse creditorio, in aderenza al valore degli esseri umani coinvolti nella fase di attuazione.

Questa diversa valutazione del rapporto obbligatorio è difficilmente conciliabile con una visione dell’inadempimento che trascuri il comportamento tenuto dal debitore nella fase attuativa del rapporto.

In tale ottica, si è sostenuto che, nonostante la diversa collocazione, la regola della diligenza impone al soggetto debitore un contegno che deve realizzarsi in una duplice prospettiva, imponendo a questo sia di tenere un comportamento idoneo ad assecondare l’interesse del creditore, sia di conservare la possibilità della prestazione.

Tuttavia anche anche la teoria soggettiva non sembra risolvere in modo soddisfacente il problematico rapporto tra l’art. 1176 c.c. e il 1218 c.c.

Per raggiungere un risultato coerente è quindi necessario muovere da alcuni punti fermi: se, da un lato, non può contraddirsi l’affermazione che il debitore non possa portare a propria discolpa argomentazioni di carattere soggettivo, ciò non esclude che della nozione di diligenza possa darsi una lettura oggettiva, che si coordini con quella di impossibilità della prestazione.

La nozione di imputabilità deve dunque avere rilevanza, al fine di poter ascrivere a quel determinato debitore la responsabilità per il danno derivante dall’inadempimento, non risultando condivisibile risolvere tale profilo soggettivo “nel fatto oggettivo dell’inadempienza”.

Il contrasto tra la necessità di evitare una soggettivizzazione estrema che consenta a chiunque di liberarsi dell’obbligazione adducendo elementi strettamente personali e l’impossibilità di considerare l’inadempimento in senso puramente oggettivo, può trovare una possibile soluzione nella lettura unitaria del fenomeno obbligatorio, idonea a far emergere, in chiave oggettiva, l’esistenza di un legame tra le due regole esaminate.

Questa lettura oggettiva della diligenza richiesta al debitore consente di ricostruire la problematica in termini ragionevoli, escludendo che il debitore possa esonerarsi dall’obbligo di risarcire il danno, semplicemente assumendo di aver fatto tutto ciò che gli era possibile per adempiere, ma consentendogli, in ogni caso, di liberarsi dal vincolo quando da nessun debitore si potrebbe pretendere – in quelle determinate circostanze di fatto venutesi a creare – il contegno dedotto nell’obbligazione.

La diligenza funziona, pertanto, quale metro di valutazione dello sforzo di cooperazione che il creditore può legittimamente chiedere al debitore, consentendo a quest’ultimo di non adempiere solamente qualora la prestazione sia divenuta impossibile successivamente: «il mancato adempimento può essere imputato a colpa del debitore, se gli si può rimproverare di non aver adibito lo sforzo contrattualmente dovuto, sia esso in termini di spesa o di attività competente e diligente».

3. Ritardo

Occorre prima di tutto dedicarsi al tema del ritardo così come disciplinato nel nostro Codice e, per far ciò, è necessario muovere sempre dall’art. 1218 c.c., il quale esprime in modo univoco il principio per cui l’adempimento inesatto, al quale è equiparato il ritardo nell’adempimento, è la fonte cui l’ordinamento ricollega la nascita dell’obbligazione risarcitoria, designando, a livello temporale, l’inadempimento come quel momento nel quale il termine dell’obbligazione è scaduto e la prestazione dedotta, ancora possibile ed utile, è rimasta parzialmente o totalmente ineseguita.

Il ritardo, dunque, concreta la violazione del dovere di eseguire tempestivamente la prestazione, dovere che rappresenta un’obbligazione complementare a quella di eseguire la prestazione, e che può essere inadempiuta in modo autonomo; l’inadempimento del dovere di tempestività costituisce sempre una circostanza idonea a generare responsabilità.

La norma esaminata equipara il ritardo all’inadempimento, quali fattispecie idonee a produrre quel particolare effetto che è il risarcimento del danno.

Sul punto la dottrina non appare concorde. Una parte di questa assume infatti che vi sia un’area di possibile rilevanza del solo ritardo, durante la quale il debitore possa ancora legittimamente prestare ed il creditore sia tenuto a ricevere l’adempimento; tale area viene ad estendersi sino al momento della formale costituzione in mora del debitore.

In questo senso l’art. 1219 c.c. avrebbe la funzione di porre la necessità di un ulteriore requisito perché l’inesatto adempimento sia rilevante a produrre conseguenze giuridiche, ed in particolare quelle conseguenze sancite, con riferimento al caso specifico della mora, dagli artt. 1221, 1223, 1224 c.c.82.

Tale primo orientamento sostiene che dal ritardo semplice non nascerebbe nessuna conseguenza fino a che non vi sia un atto specifico di costituzione in mora. E’ questo l’orientamento accolto dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente.

Fino al momento della costituzione in mora, secondo questa tesi, il ritardo è irrilevante giuridicamente e non può considerarsi illecito; l’istituto della mora, infatti, serve proprio ad eliminare la situazione di incertezza, ed è solo da questo momento che il ritardo può considerarsi illecito, e quindi essere rilevante sul piano della responsabilità. Il ritardo nell’eseguire la prestazione, infatti, secondo Bianca, è considerato tollerabile secondo la comune valutazione sociale. Pur potendosi già qualificare la situazione in termini di inadempimento in senso oggettivo, tuttavia ancora non siamo di fronte ad un inadempimento imputabile.

Senza una richiesta formale da parte del creditore, quindi, il debitore ancora non è responsabile; dopo la costituzione in mora, invece, sarà considerato inadempiente, perché significa che il creditore non vuole tollerare oltre il ritardo.

Altri, invece, sostengono che il ritardo semplice non produca le conseguenze che la legge ricollega alla mora, ma che non per questo la situazione sarebbe irrilevante dal punto di vista giuridico. Se la mora è un tipo di ritardo che produce effetti particolari (come la perpetuatio obbligationis, l’obbligo di corrispondere gli interessi moratori nelle obbligazioni pecuniarie indipendentemente dal danno, l’interruzione della prescrizione) il ritardo semplice, invece, pur non potendo produrre gli effetti della mora (in quanto ne mancano i presupposti), costituisce pur sempre un caso di inadempimento. Gli effetti che produce saranno, però, di tipo diverso.

In realtà, una volta scaduto infruttuosamente il termine, il debitore non può più liberarsi eseguendo esclusivamente l’originaria prestazione, dovendo anche risarcire il danno, indipendentemente dal fatto che il creditore lo abbia costituito in mora.

Il ritardo assume dunque un valore autonomo che lo distingue dal ritardo “con mora”: nelle norme del capo III sull’inadempimento delle obbligazioni,infatti, i due termini assumono significati distinti, in quanto la mora rimanda ad un ritardo qualificato dalla presenza delle condizioni dell’art. 1219 c.c. e rilevante a certi fini particolari, mentre il ritardo «non è che quella scorrettezza d’esecuzione che consiste nel fatto, imputabile al debitore, di non aver rispettato il dovere di eseguire tempestivamente la prestazione dovuta, e che come tale è fonte dell’obbligazione di risarcire il danno».

L’art. 1218 è, infatti, chiaro nel legare alla scadenza del termine – rectius al ritardo – la conseguenza prevista, cioè la nascita dell’obbligazione risarcitoria, determinando, a tutela dell’interesse creditorio leso, la sanzione del risarcimento del danno patito, la quale, pur dovendosi porre in un’ottica recuperatoria, avrà quale funzione la rimozione delle conseguenze negative, patrimoniali e non patrimoniali, ascrivibili all’inadempimento.

Peraltro, la medesima dottrina che esclude il valore autonomo del ritardo, pur affermando che il creditore sarà tenuto ad accettare la prestazione ritardata, senza poterla legittimamente rifiutare, precisa che il debitore sarà in ogni caso tenuto a risarcire il danno derivante dal ritardo, nella sostanza cadendo in contraddizione, nella misura in cui consente al debitore di adempiere l’originaria prestazione, ma non connette a tale attività l’effetto estintivo del vincolo, in quanto mantiene l’aspetto obbligatorio in ordine al risarcimento del danno.

In verità, il mantenimento in capo al debitore dell’obbligazione risarcitoria, anche quando provveda all’adempimento ritardato, a livello di teoria generale, non può non comportare che l’adempimento “tardivo” risulta essere solo un adempimento parziale e che l’interesse del creditore non è ancora stato integralmente soddisfatto.

Per l’effetto, non si potrà negare che sussistano conseguenze (di tipo risarcitorio) connesse al semplice adempimento inesatto (temporalmente), che, anche in assenza di qualunque atto costitutivo della mora debendi, si aggiungono alla prestazione originaria, la quale continua però ad essere anch’essa dovuta.

E’ infatti chiaro che una attività esecutiva del precedente rapporto obbligatorio, alla quale non sia possibile legare la liberazione del debitore dal vincolo non è adempimento, e ciò può spiegarsi solo alla luce della mancata soddisfazione dell’interesse del creditore, comportando che la infruttuosa scadenza del termine ha una conseguenza necessaria: l’originario rapporto obbligatorio è mutato, tant’è che il debitore può estinguere il vincolo solo eseguendo l’originaria prestazione, ove questa sia ancora possibile ed utile, e, aggiungendo a tale adempimento ritardato, il versamento di una somma di denaro, mediante la quale compensare il creditore del danno patito; ovvero versando una somma di denaro rappresentativa della mancata prestazione e del danno patito.

4. Interesse all’esecuzione

Rilevante è la questione dell’interesse del creditore a ricevere la prestazione seppure tardiva

Il concetto di “interesse” di cui all’art. 1455 c.c., da molti anni divide la dottrina; alcuni autori ritengono che esso sia un mero criterio di valutazione della gravità dell’inadempimento, mentre secondo altri, l’interesse coincide con la volontà della parte non inadempiente, e che di conseguenza sussiste in tutti i casi in cui possa ritenersi che quest’ultima non avrebbe stipulato, qualora avesse avuto contezza dell’inadempimento. Infine, secondo un terzo gruppo di autori, l'”interesse” di cui all’art. 1455 c.c. va inteso in senso non soggettivo ma oggettivo, quale sinonimo di rilevanza dell’inadempimento per qualunque soggetto di normale accortezza.

Da tempo la Cassazione ha chiarito che l’interesse di cui all’art. 1455 c.c., coincide con l’interesse all’adempimento, ovvero consiste nell’interesse della parte non inadempiente alla prestazione rimasta ineseguita: interesse che deve presumersi leso l’inadempimento se sia stato di rilevante entità, o qualora abbia riguardato obbligazioni principali e non secondarie.

L’interesse cui, ai sensi dell’art. 1455 c.c., va comparata l’importanza dell’inadempimento ai fini della pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto, è rappresentato dall’interesse che la parte inadempiente aveva o avrebbe potuto avere alla regolare esecuzione del contratto, e non dalla convenienza, per essa, della domanda di risoluzione rispetto a quella di condanna all’adempimento”.

L’interesse di cui all’art. 1455 c.c., coincide quindi con l’interesse all’adempimento, ovvero consiste nell’interesse della parte non inadempiente alla prestazione rimasta ineseguita: interesse che deve presumersi leso se l’inadempimento sia stato di rilevante entità, o qualora abbia riguardato obbligazioni principali e non secondarie la messa in mora individua un interesse all’esecuzione, così come la gravità dell’inadempimento funge da limite alla domanda di risoluzione del contratto.

Nella prospettiva dei profili rimediali, per i contrattai a prestazione corrispettiva la protezione offerta dall’eccezione di inadempimento non è illimitata, proprio perché si tratta di un rimedio “conservativo” del contratto, ma viene a cessare quando controparte ha fatto venire meno il suo stato di inadempienza, facendo mancare il fondamentale presupposto giustificativo dell’eccezione stessa.

Tale situazione si registra, ad esempio, non solo quando il debitore sic et simpliciter adempie, ma anche quando egli si offre di adempiere, mettendo a disposizione di controparte la prestazione, con un’offerta che non deve possedere i medesimi requisiti formali di quella prevista per la messa in mora del creditore sicché fino a quando il contraente adempiente non fa valere il proprio potere di caducazione mediante la domanda di risoluzione del contratto, manifestando quindi interesse alla risoluzione, il contraente inadempiente potrebbe sempre adempiere, ovvero offrire di adempiere.

In tal caso – a fronte della sostanziale acquiescenza, fino a quel momento, del creditore adempiente all’altrui inadempimento – l’eventuale rifiuto di accettare l’adempimento tardivo (e quindi nel caso ad esempio di un contratto di mutuo, nel quale una parte sia in ritardo, ovvero inadempiente, il pagamento di alcune rate), potrebbe configurarsi come contrario al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e quindi determinare in capo al creditore adempiente un’ipotesi di inadempimento.

La seconda eccezione tipicamente dilatoria prevista nel codice civile italiano è quella disciplinata dall’art. 1461 c.c., cioè il potere del contraente di “sospendere l’esecuzione della prestazione da lui dovuta, se le condizioni patrimoniali dell’altro sono diventate tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione, salvo che sia presentata idonea garanzia”.

Questa eccezione, a differenza dall’eccezione di inadempimento, che come detto costituisce una legittima reazione all’altrui inadempimento, seppure rientra nel novero degli strumenti di autotutela negoziale, se ne differenzia tuttavia per i presupposti e le condizioni di operatività.

L’eccezione di “sospensione”, infatti, presuppone non già l’inadempimento, ma l’insicurezza di ricevere l’adempimento ( il mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore), cioè a dire il mero e futuro pericolo dell’inadempimento e può essere attivata anche dal contraente il cui credito non sia ancora esigibile, ma che abbia fondate ragioni di temere per il conseguimento futuro della controprestazione una volta che sarà divenuta esigibile (l’evidente pericolo di non conseguire la controprestazione), con la conseguenza che, una volta esercitata legittimamente da un contraente la facoltà di sospendere l’esecuzione, alla scadenza del termine stabilito per l’esecuzione della prestazione a carico del contraente in situazione patrimoniale difficile, la situazione di sospensione del rapporto contrattuale troverà la propria soluzione.

5. Costituzione in mora

La costituzione in mora è, una fattispecie complessa.

Sia la mora debendi che la mora credendi, infatti, presuppongono una situazione per cui il rapporto obbligatorio non viene attuato a causa del comportamento di uno dei due soggetti, ma tale inattuazione non è definitiva; da qui il termine mora, che presuppone la persistente possibilità di un adempimento tardivo.

Il paragone tra gli istituti della mora debendi e della mora credendi, però, non può andare oltre un accostamento di carattere solo descrittivo.

In dottrina è stato anche affermato che i due istituti si collocherebbero in posizione di perfetta simmetria, in quanto la mora debendi esprimerebbe la situazione che si verifica quando non viene adempiuto l’obbligo gravante sul debitore, mentre la mora credendi si configura quando non viene adempiuto l’obbligo che grava sul creditore.

Tale posizione è respinta dalla dottrina dominante, che ravvisa due situazioni totalmente diverse, in quanto tali istituti incidono su posizioni assolutamente differenti. Infatti il comportamento del debitore che rimane inadempiuto costituisce un obbligo giuridico, e rappresenta la posizione principale e caratteristica del soggetto passivo del rapporto; può anche dirsi che costituisce il contenuto stesso della posizione passiva.

Il dovere di cooperazione del creditore, invece, è un dovere accessorio, strumentalmente connesso alla posizione attiva, ma che non costituisce la caratteristica principale della situazione creditoria, né costituisce il suo contenuto.

La mora debendi, secondo un primo orientamento, avrebbe la funzione di sanzionare il comportamento del debitore che ha ritardato l’esecuzione della prestazione, al pari delle norme sulla responsabilità per l’inadempimento definitivo. Ciò sarebbe confermato dalle conseguenze che produce la messa in mora, particolarmente il dovere di risarcire l’eventuale danno al creditore.

Secondo l’opinione prevalente. invece, la funzione sanzionatoria esula dalle finalità dell’istituto; tale funzione, tipica della responsabilità per inadempimento, non è invece propria della mora debendi, che ha un meccanismo, dei presupposti e delle finalità differenti. Che non siamo in presenza di norma sanzionatoria è dimostrato dalla regola secondo cui in caso di mora il rischio per il perimento fortuito della cosa grava sul debitore (mentre in un’ottica di coerenza del sistema dovrebbe estinguersi l’obbligazione e il debitore dovrebbe essere esentato da responsabilità), ma il debitore è ammesso a provare che la cosa sarebbe perita ugualmente presso il creditore; ora, se la mora costituisse una sanzione, tale prova non sarebbe ammessa.

Sulla scorta di tali critiche, è stata elaborata la Teoria dello scopo duplice, si è infatti rilevato che lo scopo principale, perseguito dal legislatore attraverso l’istituto della mora è duplice.

Costituire un incentivo per il debitore affinché adempia e restaurare l’assetto di interessi previsto dal contratto. Il ritardo, infatti, aggrava la posizione del creditore, il quale potrebbe avere interesse a ricevere ancora la prestazione, ma risulta comunque danneggiato dal comportamento del debitore; a tal fine la legge interviene a ristabilire l’equilibrio delle posizioni dei contraenti e stabilisce che il debitore debba risarcire il danno, oltre a tutte le altre conseguenze di cui tratteremo.

Infine, secondo la tesi della presunzione di tolleranza, la mora avrebbe, la funzione di individuare il termine a partire dal quale il debitore è da considerarsi inadempiente per il ritardo, o, comunque, di indicare a costui che il creditore non è più disposto ad attendere. In sostanza, il creditore, mediante la costituzione in mora del debitore, vince una presunzione di tolleranza di inadempimento.

Un primo momento dell’indagine è, dunque, quello che riguarda la descrizione del meccanismo che prevede quell’inadempimento provvisorio costituito dal ritardo e il suo necessario rapporto con la mora debendi, nonché le peculiarità che tale struttura comporta a livello applicativo.

Affinché il creditore possa costituire in mora il debitore occorrono una serie di requisiti o una serie di fatti costitutivi: in primo luogo occorre che vi sia un inadempimento temporaneo e relativo dell’obbligazione. E’ contrario al generale dovere di correttezza ritenere in mora chi nemmeno con l’uso della più exacta diligenza avrebbe mai potuto adempiere la propria obbligazione

6. Contratti a prestazioni corrispettive

Nel caso di contratti a prestazioni corrispettive la messa in mora presuppone che vi sia stato l’adempimento da parte della controparte e si pone come alternativa alla richiesta di risoluzione proprio perché permane l’interesse all’esecuzione, ma presuppone anche che il creditore a sua volta abbia adempiuto all’obbligazione.

La messa in mora può avere valore solo per rendere certa una situazione di ritardo semplice, che di per se non sarebbe così grave da legittimare la risoluzione del contratto; quando l’inadempimento è definitivo, invece, non occorre la preventiva messa in mora. Ma anche quando l’inadempimento è temporaneo, non per questo è necessaria una preventiva costituzione in mora; il creditore può chiedere la risoluzione del contratto anche quando il ritardo è semplice e non vi sia stata la costituzione in mora; in tal caso il debitore può ancora adempiere fino a che non intervenga la sentenza.

Secondo un’altra teoria la domanda di risoluzione varrebbe essa stessa a mettere in mora il debitore. Tale opinione, si è obbiettato, è fondata su di un grave vizio logico: la messa in mora, infatti, è una richiesta di adempimento, mentre la risoluzione è una richiesta di scioglimento del contratto: le due domande, cioè, hanno un fondamento ed un presupposto totalmente diversi. Se il creditore mette in mora il debitore vuol dire che ha ancora interesse all’adempimento; se il creditore esperisce l’azione di risoluzione vuol dire invece che non intende proseguire nel rapporto contrattuale.

Minoritaria è la posizione di chi ritiene che per esperire l’azione di risoluzione occorrerebbe la preventiva messa in mora. Tale opinione si basa sulla seguente argomentazione: che una domanda di risoluzione non preceduta dalla messa in mora del debitore varrebbe a rendere inadempiente chi ancora non lo è (dal punto di vista giuridico); inoltre si negherebbe al debitore un certo lasso di tempo necessario per adempiere tra l’inadempimento e la domanda. Si ribatte, però, con due argomentazioni: anzitutto la parola “inadempimento” usata dall’articolo 1453 non è sinonimo di “messa in mora”, e se la legge avesse voluto concedere il potere di chiedere la risoluzione solo a seguito della messa in mora lo avrebbe previsto espressamente; ma soprattutto non è vero che si negherebbe al debitore un certo lasso di tempo per adempiere, perché è opinione consolidata che il debitore possa adempiere anche dopo la domanda di risoluzione e fino alla sentenza.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento o la mancata offerta di adempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico – sociale del contratto.

Concludendo la buona fede è un principio che attenendo ai comportamenti delle parti deve riguardare sia l’adempimento da parte del debitore che la cooperazione del creditore all’adempimento, ai fini della messa in mora in caso di ritardo nell’adempimento, sarà rilevante la verifica dell’interesse all’esecuzione della prestazione e qualora si tratti di contratto a prestazioni corrispettive occorrerà effettuare una valutazione comparativa delle prestazioni.


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