Il labile discrimen tra obbligazioni naturali, donazioni rimuneratorie e liberalità d’uso

Il labile discrimen tra obbligazioni naturali, donazioni rimuneratorie e liberalità d’uso

L’obbligazione naturale

Secondo quella che è la definizione codicistica di cui all’art. 2034 c.c., le obbligazioni naturali consistono in doveri morali o sociali che non presentano il carattere della giuridicità. Dunque non sono coercibili, sicché il debitore è libero di scegliere se adempiervi o meno ma, una volta eseguite, non può ripetere quanto spontaneamente prestato. È infatti la legge ad escludere qualsiasi effetto ulteriore rispetto alla soluti retentio[1].

Pare sin d’ora opportuno precisare che, per doveri morali o sociali, si intendono i valori condivisi dalla generalità dei consociati, dovendosi a contrario escludere che rientrino in tale concetto i doveri derivanti dalla morale individuale ovvero di una collettività che sia però priva del carattere della generalità[2].

Circa i requisiti essenziali delle obbligazioni naturali, per quanto non sussista una prescrizione che imponga un particolare onere formale, questo dovrà pur sempre essere tenuto in considerazione, prendendo di volta in volta come riferimento l’oggetto dell’adempimento (ad esempio, laddove si tratti di un’attribuzione immobiliare sarà richiesta la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata ai sensi dell’art. 1350 comma 1 n. 1 c.c.). Ulteriori caratteri sono la spontaneità, quale assenza di coazione, come emerge dalla littera legis, nonché la proporzionalità della prestazione rispetto ai mezzi dell’adempiente ed all’interesse da soddisfare. Benché manchi un riferimento normativo a quest’ultimo elemento, la dottrina è pacifica sul punto, ritenendolo implicito nel concetto stesso di obbligazione naturale. Ed in effetti non si può considerare doveroso secondo la coscienza sociale ciò che va oltre quanto è ragionevole fare o pretendere[3]. In senso conforme si pone la tradizionale giurisprudenza, la quale è ferma nel ritenere la duplicità dell’indagine circa la sussistenza di un’obbligazione naturale: in particolare il giudice, dopo aver accertato l’esistenza di un dovere morale o sociale, sarà tenuto a valutare se l’adempimento spontaneo presenti il “carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione alle circostanze del caso”[4].

La donazione rimuneratoria

Disciplinata dall’art. 770 c.c., la donazione rimuneratoria è un particolare tipo di donazione, consistente nella liberalità fatta per riconoscenza, in considerazione di meriti del donatario ovvero per speciale rimunerazione, con cui il donante dimostra un particolare apprezzamento dei servizi precedentemente ricevuti dal donatario. Sebbene sia percepibile una sorta di connessione tra servizi ricevuti e conseguente donazione, quest’ultima deve essere fatta in modo spontaneo dal donante, il quale non è a ciò tenuto né in forza di una legge né di altri obblighi, usi o costumi[5]. Per pacifica giurisprudenza, infatti, questa tipologia di donazione si caratterizza per il motivo dell’attribuzione patrimoniale, che è “correlata ad un precedente comportamento del donatario nei cui confronti la liberalità si pone come riconoscenza, apprezzamento di meriti o comunque come una speciale remunerazione di attività svolta, sebbene l’attribuzione non cessi di essere spontanea e l’atto conservi la causa di liberalità”[6]. Del resto, se così non fosse, l’operazione esulerebbe dallo schema della donazione, la cui causa consiste proprio nello spirito di liberalità (c.d. animus donandi).

Salve alcune eccezioni quali la sua irrevocabilità ai sensi dell’art. 805 c.c., la disciplina applicabile è quella generale di cui agli artt. 769 ss c.c., con particolare riferimento agli oneri formali (art. 782 c.c.), all’azione di riduzione (art. 553 c.c.) ed alla collazione (art. 737 c.c.). Ed è proprio per tali ragioni, anche di carattere pratico, che risulta quanto mai importante individuare dei criteri discretivi che permettano una distinzione sicura tra donazioni rimuneratorie e obbligazioni naturali, le quali non saranno invece sottoposte alla disciplina descritta.

Le liberalità d’uso

La problematica investe altresì le c.d. liberalità d’uso, liberalità che non rientrano però nel novero delle donazioni, come espressamente stabilito dal comma 2 dell’art. 770 c.c. Di conseguenza non sono sottoposte ad oneri formali, collazione, revocazione e riduzione.

Esse consistono in quelle attribuzioni patrimoniali spontanee che si è soliti fare in occasione di servizi resi (ad esempio le mance) o, più in generale, in conformità agli usi (come i regali di Natale a parenti e amici). L’elemento peculiare risiede nel fatto che si tratta di atti conformi al costume sociale, più che di doveri sociali[7], ragione per cui non sono qualificabili come donazioni, poiché l’obbedienza agli usi esclude il profilo soggettivo dello spirito di liberalità[8]. L’insussistenza dell’animus donandi, seppur non da tutti condivisa, aggrava ulteriormente l’indagine ermeneutica dell’interprete volta a tracciare i confini rispetto ai doveri morali o sociali propri delle obbligazioni naturali. Soccorre solo in parte l’elaborazione giurisprudenziale tradizionale, cui ha aderito anche di recente la Corte di Cassazione a sezioni semplici[9],  per cui “la liberalità d’uso (…) trova fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di un certo comportamento nel tempo, e dunque di regola in occasione di quelle festività, ricorrenze, occasioni celebrative che inducono comunemente a elargizioni, soprattutto in considerazione dei legami esistenti tra le parti”. È stata in particolare sottolineata la necessità di porre l’attenzione anche al profilo della proporzionalità tra la liberalità e le condizioni economiche dell’autore dell’atto, criterio peraltro comune, come visto, alle obbligazioni naturali.

Ulteriori indici individuati in via giurisprudenziale sono l’animus solvendi, che si manifesta nell’equivalenza economica tra servizi resi e liberalità, e l’effettiva corrispondenza agli usi, da intendersi quali costumi familiari e sociali[10].

I tentativi di individuazione dei criteri discretivi

Partendo da un raffronto generale tra il contratto di donazione ex art. 769 c.c. e l’istituto delle obbligazioni naturali, la dottrina ha sin dal principio evidenziato che, nonostante in entrambe le ipotesi l’adempimento sia un atto a titolo gratuito, l’obbligazione naturale si caratterizzerebbe per l’elemento della doverosità, morale o sociale. Invero, anche qualora il donante ritenesse necessario arricchire il donatario, l’atto rimarrebbe pur sempre una liberalità, poiché il fatto che un atto sia positivamente apprezzabile non basta per renderlo moralmente o socialmente necessario.

Il discorso può essere trasposto in materia di donazioni rimuneratorie, poiché i doveri di rimunerazione o gratitudine possono essere al più considerati dei doveri morali o sociali meno intensi[11]. Una simile spiegazione, valida e limpida a livello astratto, pone però dei seri problemi applicativi.

Come correttamente osservato, la questione pare complicarsi ulteriormente, se si pensa che ciò che è normalmente considerato riconoscenza tende a corrispondere ad un dovere morale o sociale.  Secondo parte della dottrina la differenza consisterebbe nella causa: la donazione rimuneratoria sarebbe sorretta dall’animus donandi, quindi dalla volontà di arricchire altri spontaneamente, mentre l’obbligazione naturale dall’animus solvendi, poiché l’adempimento sarebbe in un certo senso imposto da dei doveri, per quanto non giuridici ma soltanto morali o sociali. Tuttavia non è mancato chi ha osservato che, a ben vedere, lo spirito di liberalità verrebbe in realtà meno anche nel caso di donazione rimuneratoria, in quanto fatta in forza di un dovere di riconoscenza. Al che la giurisprudenza, con particolare riferimento alle attribuzioni a favore del convivente, ha iniziato a porre l’attenzione sulla diversa intensità del dovere di riconoscenza: i doveri più forti caratterizzerebbero le obbligazioni naturali, quelli meno intensi le donazioni[12].

Altra parte della giurisprudenza ha invece sottolineato che l’elemento peculiare proprio della donazione di cui all’art. 770 c.c. sarebbe il motivo dell’attribuzione patrimoniale, connessa ad un precedente comportamento del donatario, senza che però questo sia in grado di elidere il profilo della spontaneità: nonostante tale motivo, l’atto rimane infatti una liberalità. Come affermato dalla Cassazione “l’atto conserva la causa di liberalità, perché discrezionale nell’an, nel quomodo e nel quantum, non essendovi il donante tenuto né in base ad un vincolo giuridico, né in adempimento di un dovere morale o di una consuetudine sociale, con la conseguenza che in nessun caso l’attribuzione patrimoniale può assumere la qualificazione giuridica di corrispettivo”[13].

Un’importante ricostruzione sul punto è rinvenibile in una pronuncia del Tribunale di Monza[14], che dà conto delle varie tesi avanzate in dottrina, tra cui quella che propone di applicare l’art. 770 c.c. ai soli doveri di riconoscenza, seppur conformi alla morale sociale, e l’art. 2034 c.c. a tutte le attribuzioni patrimoniali che siano eseguite per adempiere a doveri di altro tipo. In senso critico si è tuttavia osservato come non sia ragionevole configurare due regimi differenti – segnatamente quello di cui all’art. 770 c.c. e quello di cui all’art. 2034 c.c. – per ipotesi concernenti doveri sostanzialmente omogenei, giacché si tratta pur sempre di doveri di carattere morale o sociale.

La questione rimane ad oggi ancora aperta, anche se non pare scorretto chiedersi se mai si potrà addivenire a conclusioni certe da un punto di vista applicativo. Invero, come correttamente osservato dal Giudice di merito nella pronuncia in parola, “sembra inevitabile rilevare la presenza di una sovrapposizione almeno parziale tra le figure. Sovrapposizione che si spiega con la difficoltà di distinguere tra le varie categorie di doveri valorizzati dal tessuto sociale”.

Infine, con riferimento alle liberalità d’uso, coloro che sostengono che in tali liberalità sia riscontrabile comunque l’elemento soggettivo dell’animus donandi, hanno indicato che sarebbe proprio questo il profilo distintivo, giacché in tale ipotesi permarrebbe l’animo liberale anche se sollecitato dalle esigenze del costume, mentre l’adempimento di un’obbligazione naturale si caratterizzerebbe per l’animus solvendi, seppur connesso ad un obbligo morale e sociale, dunque non giuridico. Diverso sarebbe inoltre il presupposto, in quanto nel primo caso la condotta si uniformerebbe ad una pratica costantemente seguita, che riguarda la sfera del costume e non della morale, mentre nel secondo caso il dovere risponderebbe ad un precetto morale e sociale. In realtà, anche nella liberalità d’uso è dato riscontrare un collegamento con la morale, che rimane però marginale rispetto all’uso, quale adesione ad una condotta uniformemente praticata[15].

Chi ritiene invece che la conformità agli usi faccia venire meno la spontaneità e che quindi l’attribuzione patrimoniale non sia sorretta dallo spirito di liberalità, ha individuato vari criteri. Per alcuni la differenza risiederebbe nell’entità dell’attribuzione, che deve avere modico valore. A detta di altri, invece, l’obbligazione naturale mirerebbe a compensare un servizio stimabile, prestato con animo interessato, laddove la donazione d’uso sarebbe volta a compensare un servizio non stimabile (ad esempio raccomandazioni o favori). Secondo altra opinione, infine, non sussisterebbero differenze particolari, quindi le liberalità d’uso presenterebbero in concreto le caratteristiche proprie delle obbligazioni naturali[16].


[1] A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2015, 386.

[2] F. Caringella – L. Buffoni, Manuale di diritto civile, Roma, 2016, 532.

[3] C.M. Bianca, Diritto civile, L’obbligazione, Milano, 2011, 785 ss.

[4] Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 1980, n. 1007.

[5] A. Torrente – P. Schlesinger, Op. cit., 1423.

[6] Cass. civ., sez. II, 17 novembre 1999, n. 12769.

[7] C.M. Bianca, Op. cit., 780.

[8] F. Galgano, Diritto privato, Padova, 2010, 904.

[9] Cass. civ., sez. II, 19 settembre 2016, n. 18280.

[10] Cass. civ., sez. II, 18 giugno 2008, n. 16550.

[11] C.M. Bianca, Op. cit., 780.

[12] N. Lipari – P. Rescigno, Diritto civile, vol. II, Successioni, donazioni, beni, parte I, Le successioni e le donazioni, Milano, 2009, 430 s.

[13] Cass. civ., sez. I, 14 febbraio 1997, n. 1411.

[14] Trib. Monza, 13 marzo 2007.

[15] G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009, 1690.

[16] P. Franceschetti – M. Marasca, Le obbligazioni, Santarcangelo di Romagna (RN), 2008, 601.


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