Il lavoro tra fordismo, post fordismo e rivoluzione digitale. Quale futuro si prospetta?

Il lavoro tra fordismo, post fordismo e rivoluzione digitale. Quale futuro si prospetta?

Sommario: 1. Introduzione – 2. La costruzione sociale del lavoro negli anni del Fordismo e Post Fordismo – 3. Il lavoro digitale e nuovi livelli di partecipazione alla produzione – 4. Conclusioni
a cura dell’On. Flora Frate
Commissione VII (Cultura, Scienza, Istruzione, Sport)

1. Introduzione

Non si può comprendere un fenomeno sociale nel tempo se prima non si opera un’analisi dello scenario e dell’ambiente in cui esso si muove. Direbbe Max Weber che i fatti sociali vanno analizzati in maniera avalutativa, occorre cioè ricostruire le fondamenta culturali, senza ricorrere a valutazioni o giudizi personali.

Ebbene, attraverso l’analisi dello scenario e dei suoi mutamenti è possibile inquadrare l’unità concettuale del lavoro, descrivendo la sua funzione sociale ed economica.

In questa sede si tenta di rappresentare il passaggio dalla società del lavoro alla società dei lavori, ovvero dal lavoro protetto e stabile al lavoro flessibile e precario, tenendo conto di alcune modificazioni contrattuali e tecnologiche.

Cosa è accaduto negli ultimi anni in tema lavoro? Questa è una delle prime domande a cui si tenterà di dare risposta. Il presente articolo si è avvalso di una ricerca bibliografica, che prende in considerazione le trasformazioni storico-economiche, sociali e digitali più significative.

2. La costruzione sociale del lavoro negli anni del Fordismo e Post Fordismo

Il mercato del lavoro, oltre a distribuire i ruoli e responsabilità di produzione, sia pur politicamente organizzato, costituisce il sistema principale per distribuire posizioni sociali.

Partendo dalle definizioni marxiane, il mercato del lavoro è il luogo dove domanda e offerta si incontrano, dove il valore delle merci è dato dal prezzo, di conseguenza il valore stesso del lavoro è stabilito dal mercato. Nella società moderna il lavoro viene identificato come l’esercizio di una professione, che ha come scopo la soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi e soprattutto ha il fine di riparare dalla povertà e dall’esclusione sociale.

Lo sviluppo industriale, sia esso in riferimento alla nascita dell’industria e del lavoro salariale, sia esso in relazione alle scoperta della macchina a vapore e dell’elettricità, apre un mondo nuovo, fatto di tutele e di contrattazione collettiva da un lato e di nuove forme di produzione- e nuovi stili di vita- dall’altro.

Seguendo le linee di Taylor, adottate per la prima volta dall’azienda automobilistica Ford, l’economia di sussistenza cede il passo alla specializzazione dell’attività produttiva, ad un tipo di lavoro standardizzato che prevede la divisione del lavoro modellata sulla catena di montaggio, in vista di una produzione in serie. Applicando le teorie di Adam Smith sulla divisione del lavoro, avanza l’ipotesi che l’alta produttività garantita dai lavoratori genera prezzi più bassi, riuscendo ad assicurarsi, così, il primato sul mercato.  Si tratta dunque di una produzione di massa, di un sistema di lavoro della grande industria- specie di quella manifatturiera- dove il paradigma di azione, per dirla alla Negrelli (2013), è fondato sul “saper fare”. La distribuzione del lavoro costituisce l’elemento centrale della divisione di classe.

Amartya Sen (1999) a tal proposito, propone tre criteri per definire il concetto di occupazione: la capacità di dare reddito alla persona occupata, la produzione di beni e servizi utili, il riconoscimento sociale e personale. Secondo l’economista, il passaggio da una società arretrata, dove il lavoro é riferito ad una manodopera familiare incentrata sull’autoproduzione e sull’autoconsumo, ad una società moderna, basata cioè sul lavoro salariale, sulle famiglie considerate come mere unità di consumo di beni e servizi prodotti da strutture professionalmente organizzate, ha segnato l’affermarsi dell’economia di mercato.

Il “patto fordista” garantiva stabilità lavorativa, un welfare assistenziale modellato su uno schema familiare definito in base ai bisogni del breadwinners, occupato e integrato socialmente, e dove la donna era dedita esclusivamente alla cura della casa e dei figli. Una costruzione sociale del lavoro quale risultato di un processo di interazione degli attori sociali coinvolti nella realtà lavorativa, in questo caso lavoratori, sindacati, datori di lavoro e legislatori, un sistema lineare e regolato, e quindi ben definito nei ruoli.

Riassumendo è’ possibile descrivere in breve la società capitalistica moderna indicando alcune caratteristiche fondamentali: 1) i lavoratori erano considerati i consumatori, dunque si produceva su domanda; 2) il lavoro ripara dalla povertà e dall’esclusione sociale; 3) la produzione era basata sulle grandi quantità e in serie; 4) le funzioni produttive erano collocate all’interno dell’azienda; 5) il lavoro è misurato attraverso il contatto minimo garantito; 6) la netta divisione in classi era regolata dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori; 7) l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro.

In questo schema esemplificativo dell’economia di stampo fordista-taylorista, il primo a parlare di precarietà di lavoro e a farne uno studio fu P. Sylos Labini (1974), il quale adoperò per la prima volta una distinzione tra il cosiddetto sottoproletariato (secondo la definizione marxiana) e il lavoratore precario. Secondo lo studioso, il lavoratore precario equivale al lavoratore saltuario nell’agricoltura, nell’ industria e nel commercio le cui condizioni socio-economiche sono caratterizzate da bassi redditi e da instabilità occupazionale.

Altri studiosi come Paci, hanno definito i lavoratori precari come quelli “marginali” ovvero quelli impegnati nei cosiddetti settori periferici e identificati con i giovani, le donne e gli immigrati. Soltanto negli anni del duemila il concetto della precarietà lavorativa viene sdoganato dalla flessibilità della produzione, e identificandolo come uno degli affetti della globalizzazione  (Betty, 2015).

Nel 1973, in seguito alla shock petrolifero, venne introdotta l’Austerity e quindi viene impedito l’utilizzo delle automobili. Questo creò un grosso impatto sul modo di produrre delle aziende: divenne sempre più necessario risparmiare sui costi di produzione, da un lato investendo sui nuovi macchinari e dall’altro decentrando la produzione. Si parla dunque di una scissione tra il mercato centrale e il mercato periferico, dove proprio in quest’ultimo vengono collocati i giovani e le donne. La produzione in serie lascia il posto ad un tipo di produzione in piccoli lotti, la cosiddetta produzione just in time[1].

Scrive  Accornero (2001): “La chiave stava nel just-in-time, che ha rivoluzionato non soltanto i rapporti con il mercato ma la filosofia stessa della produzione. Abolire le scorte di beni semilavorati e finiti per mettere in fabbricazione soltanto quel è stato già ordinato dai clienti richiede infatti di affrontare le situazioni e di risolvere gli eventuali problemi nel momento stesso in cui si presentano. Ciò elimina scappatoie e rinvii, assicurando la continuità dei flussi produttivi e soprattutto il miglioramento continuo dell’organizzazione. Perciò impegna moltissimo il management e i lavoratori”.

Dunque sembra prevalere la qualità e l’apprendimento continuo nell’ eseguire lavori che “permettono la possibilità di partecipare alla formulazione degli obiettivi del lavoro stesso, di scegliere le alternative su cui eserciterà la propria decisione anziché decidere su alternative poste e scelte da altri..[..] (Gallino in Negrelli, 2015 p.68).

Di conseguenza il lavoro diventa sempre più autonomo e flessibile. Il numero delle fabbriche diminuisce, c’è una maggiore specializzazione e diversificazione del prodotto in corrispondenza di domanda poco prevedibile. Gli effetti di un siffatto sistema sembrano essere: 1) maggiore autonomia del lavoratore; 2) aumento della creatività; 3) maggiore libertà; 4) minore stabilità lavorativa; 5) minore sicurezza sui posti del lavoro; 6) minore solidarietà a causa della crisi del contratto collettivo- le rivendicazioni sindacali vengono intralciate dall’emergere di nuovi contratti di lavoro.

A partire dagli ’80 e ’90 inizia un nuova fase del processo di globalizzazione caratterizzato principalmente da una sempre più crescente della finanziarizzazione dell’economia. L’adattabilità a un dinamismo che si auto riproduce è il tratto distintivo del nuovo stadio di produzione capitalistica che, per funzionare, ha bisogno che il lavoro sia flessibile (Accornero, 1997, 2004).

Rifacendosi al concetto di globalizzazione di Luciano Gallino, lo studioso la definisce come: “un processo che avrebbe avuto inizio intorno agli anni’70, se non all’inizio degli anni ’80 in cui vennero apportate importanti modifiche nel sistema finanziario e monetario internazionale, che hanno concorso a generare uno degli aspetti centrali della globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia. Cio è seguito il predominio dell’economia finanziaria sull’economia reale” (Ferraro, 2013). Lo studioso parte dal presupposto che la globalizzazione, un processo iniziato intorno al 1500 con l’affermarsi di una interconnessione internazionale e conseguentemente con la nascita di reti economiche su scala mondiale,  è diventata sempre più stretta e sempre più accelerata a partire dagli anni settanta.

Questo processo non riguarda solamente una questione di riduzione delle distanze geografiche: lo studioso Gallino sostiene che la società globalizzata è una società in cui lo spazio del mercato ha raggiunto i confini demografici e territoriali di tutto il mondo, siamo cioè, tutti una parte del mondo. In questo nuovo scenario ciascun attore economico è in competizione con chiunque altro nel globo. Il primo effetto è una incredibile intensificazione della concorrenza e questa strategia viene affrontata con il trasferimento della produzione all’estero. Il Secondo effetto è dato dalla logica per cui, per ridurre gli sprechi, si adottano misure di produzione basate sulla flessibilità e sull’innovazione tecnologica. Ed ecco che questo nuovo meccanismo produce vulnerabilità, insicurezza derivante dall’instabilità lavorativa e dalla disoccupazione (Gallino, 2007). Dunque se nel periodo del fordismo il lavoro precario era una caratteristica tipica del settore marginale della produzione e destinato ad alcune categorie sociali, nella postmodernità diventa una caratteristica predominante, derivante cioè dall’egemonia della flessibilità.

Con la nascita dei nuovi contratti, a tempo determinato, atipici, a progetto, (nel nostro paese grazie alla Legge Biagi) la dimensione sociale del lavoro, e la distribuzione dei ruoli al suo interno, inizia a destrutturarsi. La rigidità della domanda congela quote importanti di forza lavoro, mentre la crescita della scolarizzazione fa crescere le aspettative di lavoro in relazione allo status sociale. Come sottolinea Rayneri (2005), l’onere della crescita dell’occupazione dal 1972 al 1992 grava tutto sul terziario che oltre a creare nuova occupazione, deve sopperire alla crisi dell’industria e al continuo declino dell’agricoltura.

Il fenomeno più rilevante di questo sviluppo del terziario è sicuramente la concentrazione del lavoro femminile. Oltre il 56% dei quasi 5 milioni di nuovi posti di lavoro creati dal lavoro era occupato dalle donne e dunque la quota degli occupati cresce sensibilmente, dal 27% al 41% in pochi anni, fino a coprire il 60% nel 1992. Ma sulle donne grava anche la disoccupazione: nel 1988 sfiora il 19% contro quella maschile dell’8%. Il calo dell’occupazione non corrisponde con l’aumento della disoccupazione perché si registra un forte aumento degli inattivi cioè coloro che, scoraggiati, smettono di cercare un lavoro (per lo più giovani).

La crisi economica scoppiata nel ’92 ha prodotto una profonda rottura nel funzionamento del mercato del lavoro e dunque segna l’avvio di una nuova fase caratterizzata da una maggiore flessibilità dell’occupazione (Reyneri, 2005).

L’aspetto peculiare della globalizzazione post-moderna è la messa in pratica di un progetto di società-mondo fondata sul mercato, sulla deregolamentazione del sistema lavoro, sullo smantellamento del Welfare e sui tagli sistematici della spesa pubblica. Su questo il sociologo Gallino non manca nel sottolineare di come, da questo momento in poi, si genera un’omogeneità, sempre più evidente, dei territori dal punto di vista socio-economico e politico con crescenti diseguaglianze prodotte dalla forbice sempre più allargata dei ricchi e poveri e con la nascita dei cosiddetti “nuovi poveri”.

La società si trova a gestire il rischio della povertà in maniera sempre più autoriflessiva e sempre più solitaria. L’individuo viene sradicato dalla comunità, agisce non seguendo più i precetti morali, le regole e i ruoli definiti socialmente, l’uomo è insicuro. Questo stato di cose è prodotto da alcuni fattori fondamentali: 1) decentralizzazione dei luoghi di lavoro; 2) flessibilizzazione degli orari di lavoro; 3) indebolimento dell’identità di classe; 4) ol cambiamento della condizione femminile.

Questo produce, secondo Beck (2000), una consapevolezza del rischio e delle responsabilità, un bisogno maggiore di auto riflessività, perché con l’indebolimento della classe operaia, delle forme sociali collettive e con l’introduzione di forme private nella res pubblica, si viene a creare una rottura del sistema sociale tradizionale. L’aumento della flessibilità, la terziarizzazione dell’economia, l’aumento della popolazione istruita e la femminilizzazione del lavoro sono ulteriori aspetti che concorrono a modificare sensibilmente lo scenario del mondo lavorativo poggiato sulla relazione equilibrata tra il modo di produzione e il modo di regolazione sociale. Il lavoratore deve essere sempre più istruito e specializzato: si registra una costante crescita di lavoratori non manuali altamente qualificati.

Nel contesto globale, l’accelerazione dell’innovazione tecnologica ristruttura le modalità organizzative delle imprese, incentivando lo sviluppo umano e sociale. Contano le capabilities dei lavoratori, le capacità relazionali e di lavorare in gruppo fino all’affermarsi, del lavoro in rete e del co-working. Dunque, per citare Negrelli (2013), si passa dal saper fare, al saper essere, dalla fatica fisica alla creatività nel lavoro. Caratteristiche, queste, che vengono richieste in maniera preponderante ai giovani scolarizzati e istruiti per ricoprire posizioni in ambito digitale e informatico. Nascono quindi, i cosiddetti “nuovi lavori” i quali non necessariamente si strutturano intorno alla stabilità e al salario pieno e garantito. Non a caso ritorna a crescere  il lavoro a cottimo, grazie soprattutto ad alcune applicazioni digitali, le quali usufruiscono dei cosiddetti riders[2] senza garanzie e senza uno stipendio minimo garantito.

Per concludere, il lavoro non riesce a garantire la distribuzione delle posizioni sociali come invece, era una sua prerogativa principale. Ci si ritrova di fronte a quello che Boudon (1981) definisce “effetto perverso non intenzionale” ovvero un’idea liberista che produce esattamente l’opposto di quello che professa. La sfida globale, con l’introduzione dei mercati dei paesi in via di sviluppo, stabilisce che il vantaggio competitivo si raggiunge attraverso una costante innovazione tecnologica e una crescente evoluzione dei saperi grazie soprattutto a nuovi mezzi informatici e digitali. In questo quadro post fordista, la fatica fisica e la ripetitività del lavoro tipica delle fabbriche, risultano ridimensionati a vantaggio di una sempre maggiore conoscenza, competenza e duttilità nel gestire i rapporti umani e professionali. Proprio quando la forza lavoro diventa un soggetto autonomo e libero dalla coazione della domanda (Accornero e Carmignani, 1986) e i suoi comportamenti non sono più spiegabili attraverso categorie meramente economiche, il mercato del lavoro risulta ancora più immerso nel sistema sociale, culturale e politico con i suoi meccanismi di regolazione e di riproduzione.

3. Il lavoro digitale e nuovi livelli di partecipazione alla produzione

Se  gli anni novanta sono stati caratterizzati da una transazione del contratto dove se da un lato il lavoratore chiedeva un posto di lavoro stabile, duraturo, con tutele e sicurezza, il datore di lavoro reclamava in cambio fedeltà all’ azienda, lealtà, dedizione e identificazione, oggi, invece, lo scambio è di tipo economico dove individuo e organizzazione valutano ogni giorno la convenienza della transazione in una prospettiva di appartenenza temporanea (Istud, 2013).

In questo nuovo rapporto dunque, l’azienda chiede adattabilità ai cambiamenti, flessibilità e professionalità dall’altra il lavoratore esige crescita personale, una coerenza tra obiettivi aziendali e progetto personale di carriera, una qualità relazionale e benessere sul luogo di lavoro (Zapelli, 2001). Il saper essere del lavoratore incide particolarmente sul successo di un’azienda o di un’attività lavorativa: sono richieste creatività e iniziativa personale che, portati ad un certo livello, sono capaci di creare vantaggio competitivo. La libertà nel lavoro, la partecipazione, il riconoscimento, la stima, le relazioni sociali, il background culturale, sono considerati il motore dello sviluppo economico. Il vantaggio competitivo è dato principalmente dal lavoro intellettuale.  Il  modo di comunicare, di stare dentro e formarsi nelle tecnologie digitali, la diffusione capillare di informazioni, la messa in comune delle conoscenze, lo scambio continuo di un sapere contestualizzato, la cooperazione tra i diversi soggetti per convergere verso visioni e idee reciproche, tutte insieme generano una negoziazione continua tra interessi e punti di vista differenti (Provasi, 2001). Gli strumenti partecipativi del web, della comunicazione, la socializzazione dei processi produttivi, tutto questo mette in discussione i modelli organizzativi tradizionali tant’è che si assiste ad un decentramento e ad una co-partecipazione degli asset di riferimento.

Come evidenzia Giordano (in Cova, Giordano, Pallera, 2007) se la modernità era caratterizzata da una netta separazione tra domanda e consumo, nell’era postmoderna ciò non è possibile in quanto il consumatore acquisisce un ruolo sempre più attivo nella produzione (si parla appunto di Prosumer). Le tecnologie digitali suggeriscono innovazioni al processo lavorativo investendo in termini di sviluppo cognitivo. Gli strumenti della rete costringono ad un ripensamento della produzione in termini partecipativi e decentrati. La portata rivoluzionaria come afferma Menichinelli (2013) non è la velocità dei processi o la puntualità e la precisione che tali strumenti generano, ma consiste nel legare le tecnologie dell’informazione a quelle manifatturiere; i processi di digitalizzazione dei processi produttivi che, diventano parte integrante dei materiali stessi, innescano opportunità per le imprese e per i cittadini stessi in termine di servizi (Menichinelli, 2013).

Il web, come piattaforma, rappresenta una vera è propria rivoluzione cognitiva tant’è che viene considerata più di una semplice innovazione tecnologica. Uno dei settori emergenti è sicuramente l’ambito della sharing economy e della social innovation. Grazie alle nuove tecnologie digitali è possibile operare nell’ambito dell’ high tech e high touch: non soltanto si abbattono barriere spazio temporali, ma si approda ad una omologazione e quindi ad una maggiore manipolazione delle informazioni, unendo il bisogno dell’alta metodologia tecnologica e il bisogno di connessione tra individui, oggetti e contesti (o luoghi).

Le professioni che nascono all’interno del web consentono una forte interattività, un rapporto dialettico tra contesto e azioni, una condivisione di progetti, un processo di cooperazione e di scambio. Quindi non si fa riferimento soltanto a trasformazioni di tipo tecnologico ma proprio ad una rivoluzione cognitiva (Cova, Giordano, Pallera, 2007) Si vanno a generare proprio quelle situazioni in cui un’azienda o un’istituzione si rivolge ad una comunità non organizzata per sviluppare un progetto. Di conseguenza, il lavoro diventa una relazione multistakoholder (Di Biase Garbarini, 2003) dove in primo piano c’è l’individuo che si muove e agisce dentro le sue relazioni. Il lavoro è legato sia a chi lavora, sia a chi gode i frutti di questo lavoro, sia alle forme di interazione fra produttore, distributore e consumatore (Isfol, 2011).

E dunque rispetto a questo quadro saltano le regole che hanno dominato il mercato del lavoro della modernità.  Dopo la crisi economica del 2008, si sta assistendo ad una crescita senza occupazione, determinato anche dagli effetti dell’innovazione tecnologica. Gli inattivi aumentano (la cosidetta neet generation), la disoccupazione interessa principalmente i giovani e le donne, con un gender gap particolarmente radicato nei settori soprattutto apicali. In questo caso, la sharing economy, e più in generale un modello cooperativo del lavoro, che intervenga nella filiera produttiva delle imprese, specie in quelle che delocalizzano, potrebbe rivelarsi uno strumento determinante per rilanciare crescita e occupazione.

4. Conclusioni

L’attuale mercato del lavoro comporta una frammentazione dei percorsi professionali, una responsabilità maggiore nell’organizzarsi il lavoro e dunque un’assunzione totale dei rischi. Di fronte alle ultime trasformazioni tecnologiche bisogna prendere atto che ci si trova in una fase di transizione: da che il lavoro era considerato un’unità concettuale incastonata all’interno di un modello sociale ben identificabile, oggi è intrappolato in un circuito dai contorni labili e poco definiti. Di fronte al crollo del sistema industriale tradizionale e dell’occupazione occorre uno sforzo sociale di tutti gli attori economici in campo per individuare nuove strategie di business e nuovi asset di riferimento.

Il fenomeno dei working poors in Italia è molto significativo: l’Istat (2013) ci informa che il 18,6% dei lavoratori sono a rischio povertà. Il lavoro non ripara dalla povertà: sempre più giovani si trovano intrappolati in un sistema di contratti a termine, senza poter materialmente costruire un futuro per se e per il Paese. Qualcuno  parla della fine del lavoro: in realtà sta avvenendo un ripensamento delle dicotomie sociali tradizionali, specie se queste si riferiscono alla separatezza tra luogo di lavoro e tempo libero. La rivoluzione digitale impone di superare i limiti spazio temporali, rivedendo il sistema di regolazione e della divisione del lavoro, in un’ottica globale e multidemensionale. L’incertezza prodotta dal mercato del lavoro si riversa inevitabilmente nei percorsi identitari e sociali delle persone, le quali si trovano, rispetto alla tradizione, in contro tendenza, non riuscendo a ripercorrere le tappe normate del passato.

Occorre rivedere l’intera costruzione sociale del lavoro, ponendo le basi per una vera e propria fase ricostituente, che parli di un linguaggio nuovo, improntato sulla qualità del lavoro e orientato realmente alle competenze e che ricostruisca, infine, ancoraggi sociali forti e inediti.

 

 


[1] Termine usato per indicare la produzione su domanda.
[2] Riders: i fattorini delle nuove applicazioni digitali. Attualmente si trovano senza garanzie e tutele lavorative.

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On. Flora Frate

Nata il 03/07/1983 a Napoli. Docente di scienze umane, Idonea al dottorato di ricerca di Scienze Sociali e Statistiche all’ Università Federico II di Napoli e laureata con lode in Politiche sociali e del Territorio presso la medesima Università. Presidentessa dell’ass.ne socio-culturale giovanile ”Medea-Fattoria sociale”; nel 2013 ha partecipato come relatore al Convegno Internazionale sulla Disabilità svoltosi al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Componente della Commissione VII (Cultura, Scienza, Istruzione, Sport).

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