Il licenziamento economico

Il licenziamento economico

AMBITI DI OPERATIVITA’ DELL’ ART. 3 L.604/1966

La cessazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, diversamente da quello a tempo determinato, richiede un atto di recesso riconducibile al datore di lavoro o al prestatore.

Il recesso ( espressione del potere di ciascuna parte di sciogliere il contratto di lavoro) costituisce un negozio unilaterale e recettizio che produce effetti giuridici nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario.

Il recesso del lavoratore dal contratto di lavoro si sostanzia nell’ atto di dimissioni – di norma, un atto a-causale che non necessariamente deve sottintendere una motivazione, ma attraverso il quale il lavoratore manifesta la sua libertà di scegliere per chi e come lavorare.

Il recesso del datore di lavoro si sostanzia, invece, nel licenziamento – il cui impianto normativo si articola secondo due direttrici: le norme che ne prevedono le ipotesi di ammissibilità e quelle che ne dispongono l’osservanza.

Nell’ambito delle prime appartiene certamente l’art. 1 della legge 15 Luglio 1966 n° 604 che codifica il principio di necessaria giustificazione del licenziamento : “ Ne l rapporto di lavoro a tempo determinato, intercorrente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del codice civile o per giustificato motivo”.

In merito al giustificato motivo il successivo art. 3 precisa che per licenziamento per g.m.o. deve intendersi quello determinato da “ ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” .

In sintesi, nell’ambito del giustificato motivo si collocano i licenziamenti c.d. economici ( dettati cioè da scelte aziendali di carattere tecnico/organizzativo) ed i licenziamenti dovuti ad impossibilità sopravvenuta delle prestazione di lavoro per fatti indipendenti dalla volontà del lavoratore.

Venendo alla prima tipologia di licenziamenti – ne costituiscono presupposto: 1) la modifica organizzativa di tipo qualitativo e/o quantitativo effettiva e non pretestuosa; 2) il nesso causale tra la modifica organizzativa e la soppressione del posto di lavoro; 3) l’osservanza dei canoni di buona e fede e correttezza.

Proprio in merito all’ultimo presupposto di legittimità del licenziamento per g.m.o determinato da riorganizzazione o ristrutturazione aziendale occorre spendere più di una considerazione.

E di fatti, il precetto della buona fede si atteggia diversamente a seconda che la modifica organizzativa si di tipo qualitativo o quantitativo.

In primo luogo, occorre chiarire che la modifica qualitativa ricorre nell’ipotesi di soppressione di un singolo reparto o settore produttivo –in tal caso, si richiede al datore di lavoro di verificare che il lavoratore non possa essere ricollocato utilmente nella nuova organizzazione, mediante il suo impiego in mansioni equivalenti o, in mancanza, persino in mansioni inferiori ma comunque appartenenti al suo bagaglio professionale.

Si sta chiaramente disquisendo dell’obbligo di repechage – sul quale si sono registrate nette divisioni giurisprudenziali.

Secondo un primo orientamento di legittimità più risalente e confermato dalla sentenza n° 5592/2016 – in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo grava sul datore di lavoro l’onere di provare l’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato – in quanto da tale prova deriva la legittimità stessa del licenziamento per g.m.o determinato da scelte di riorganizzazione aziendale.

Al contrario, nessun onere di allegazione dei posti assegnabili grava sul dipendente licenziato.

Tale arresto giurisprudenziale colloca l’obbligo di repechage tra gli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento per g.m.o , con la conseguenza che l’eventuale violazione del suindicato obbligo rende illegittimo il recesso datoriale.

Di indirizzo opposto l’altro orientamento giurisprudenziale – che ridimensione significativamente l’onere del datore di lavoro di provare l’impossibilità della riutilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle a cui era in origine assegnato, dovendosi esigere dallo stesso prestatore che impugni il licenziamento, la prova circa l’esistenza di altri posti di lavoro cui avrebbe potuto essere proficuamente assegnato.

Tale assunto consentirebbe di applicare i principi sul riparto dell’onere probatorio nell’accertamento della responsabilità contrattuale – riconducendo, per l’appunto, la violazione dell’obbligo di repechage ad un generico inadempimento contrattuale.

Per quanto concerne invece, l’atteggiarsi del precetto di buona fede in caso di modifica quantitativa, occorre sin da subito chiarire che non è astrattamente configurabile alcun obbligo di repechage.

Ciò in quanto in ipotesi di riduzione quantitativa del personale omogeneo e fungibile ( modifica organizzativa quantitativa) residuano pur sempre posizioni lavorative analoghe a quelle del lavoratore licenziato.

Pertanto, al fine di ovviare all’impossibilità di invocare il repechage, si è ritenuto di poter fare affidamento ai criteri dettati dalla L.231/1991 in materia di licenziamenti collettivi e, cioè per il caso in cui l’accordo sindacale non abbia indicato criteri di scelta diversi, si possono- in via analogica – prendere in considerazione i criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità.

Ultimo aspetto da vagliare è quello relativo alle ragioni giustificatrici della riorganizzazione aziendale.

Anche in questo caso si registrano netti contrasti interpretativi: secondo un primo orientamento per giustificare la soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale si richiede l’esigenza di fronteggiare sfavorevoli situazioni non contingenti ossia notevoli spese straordinarie.

In sostanza, il recesso aziendale risulterebbe illegittimo se motivato non già dall’esistenza di una situazione favorevole non contingente, ma dall’esigenza di massimizzare il profitto ovvero di migliorare l’efficienza aziendale.

Tale tesi interpretativa fa implicito richiamo al principio della stabilità del posto di lavoro che impone di considerare il recesso datoriale come extrema ratio.

Tuttavia tale lettura – considerata eccessivamente rigorosa – finisce per restringere significativamente se non addirittura per sopprimere la facoltà datoriale di sopprimere la specifica posizione del lavoratore solo nelle ipotesi di crisi aziendale.

Non possono sorgere perplessità nel constatare che la stessa è stata avversata da altre pronunce, con le quali la Suprema Corte valorizzando la libertà di iniziativa economica ha affermato che: “ chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo alla occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di far fronte alla concorrenza dei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza produttiva possa tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi “ ( Cass., n° 23620/2015).

In questo modo, si è inteso cioè salvaguardare la facoltà datoriale di soppressione del posto di lavoro non solo nei casi di crisi aziendale, ma anche in tutti i casi in cui l’esigenza di massimizzazione del profitto o di miglioramento dell’efficienza aziendale lo richieda.

Tale ultima interpretazione appare peraltro maggiormente conforme al dato normativo.

Ed invero, nella traccia dell’art. 3 L. n° 604/1966 non è fatto alcun richiamo alla crisi aziendale quale condizione di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; per cui farvi richiamo significherebbe inserire nella fattispecie legale un elemento fattuale che non le appartiene naturalmente.

Detto arresto è stato confermato dalla sentenza n° 4015/2017 che sembra aver sanato i dissidi interpretativi alimentatisi per anni in merito alla legittimità delle ragioni giustificatrici del licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato dal scelte aziendali di riorganizzazione.


  • Art. 1 L.15 Luglio 1966 n° 604;

  • Art. 3 L. 15 Luglio n1966 n° 604;

  • Cass., n° 5592/2016;

  • Cass., n° 20508/2015;

  • Art. 5 L. 231/1991;

  • Cass., n° 5173/2015;

  • Cass., n° 4015/2017.


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