Il licenziamento per reato commesso dal lavoratore

Il licenziamento per reato commesso dal lavoratore

Il principio in oggetto, seppur non inquadrabile in una mancanza del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro,  deve essere ricompreso in una delle condizioni idonee a produrre  effetti riflessivi sulla sfera del rapporto di lavoro, in particolare sull’elemento soggettivo della fiducia rilevando , infatti, tutti quei comportamenti del prestatore di lavoro che sono idonei a configurare un’ipotesi di reato.

Si tratta di ipotesi diverse da quelle normalmente disciplinate dai contratti collettivi la cui valutazione e selezione deve essere eseguita tenendo in considerazione il tempo e luogo della commissione del reato ( ossia se sia compiuto all’interno, ovvero all’esterno del luogo di lavoro e se sia compiuto prima del nascere del rapporto, ovvero durante lo stesso).

In riferimento alla prima ipotesi, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale ( Cass. 17.04.2001 n. 5633; Cass. 05.08.2000, n.10315; Cass. 08.02.2000, n. 1412), qualora una condotta di un dipendente posta in essere all’interno dell’azienda integri un’ipotesi di reato, la valutazione della gravità di detto comportamento ha, ai fini della sussistenza del requisito della “giusta causa”, carattere del tutto autonomo rispetto alla valutazione della gravità del reato, poiché la valutazione della sussistenza o meno del requisito della giusta causa deve essere effettuata alla stregua della ratio ricavabile dall’art. 2119 c.c., ovvero dall’art. 1 L. 604/66.

Diversamente, assumono rilievo anche le condotte che integrano ipotesi di reato realizzatesi fuori dall’ambiente di lavoro; non tanto dal punto di vista della sussistenza della giusta causa quale requisito del provvedimento espulsivo, quanto perché in concreto produttivi di riflessi nell’ambiente di lavoro atti a far venir meno l’elemento fiducia, indipendentemente dal concretizzarsi di un danno effettivo per il datore di lavoro.

Proprio in riferimento alla lesione del rapporto fiduciario, si è ad esempio ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente di banca condannato per il reato di ricettazione ( Cass. 13.04.2002, n. 5332); reato commesso fuori dallo svolgimento delle proprie mansioni ma, proprio per la delicatezza delle stesse, ritenuto presupposto della giusta causa, così come per il dipendente condannato per il delitto di detenzione e spaccio di stupefacenti, la cui condotta oltre a ledere il vincolo di fiducia rappresentava un danno di danno di immagine dell’azienda stessa ( Cass. 17.01.2002, n. 8716).

Pacificamente riconosciuti gli effetti degli interventi normativi che si sono succeduti in questi ultimi anni ( L. 92/2012, c..d. Riforma Fornero prima e,  Jobs Act, poi , ossia di quella serie di provvedimenti legislativi varati tra l’anno 2014 e 2015 attraverso lo strumento del decreto legislativo), per i quali in caso di licenziamento per giusta causa, ovvero per giustificato motivo soggettivo, il giudice deve solo accertare o meno la sussistenza  del fatto e non anche valutare oggettivamente la gravità dello stesso , riconducendo l’applicazione della tutela reale ( reintegra) solo al  caso di “fatto manifestamente insussistente”, ovvero al motivo discriminatorio, si vuole porre in evidenza  come  il Giudice del Lavoro goda di un potere autonomo di accertamento del fatto da cui trae origine la contestazione di addebito ex 2119 c.c., anche quando, in caso opposto, ci si trovi di fronte ad una sentenza  di assoluzione e non di condanna ( Cass. . 9.6.2005, n. 12134 ; Cass. 10.9.2013, n. 20715 , secondo le quali, “Il giudicato penale di assoluzione non preclude al giudice del lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti stessi ai fini propri del giudizio civile, e cioè tenendo conto della loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonei a giustificare il licenziamento anche ove non costituiscano reato” ).  Tale autonomo principio non è stato fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, poiché anche in diverse sentenze di primo grado si è avuto modo di  poterne ricavare l’applicabilità ( Trib. Di Firenze, 05.02.2013, nella quale si afferma la necessità dell’accertamento del requisito della giusta causa ex 2119 c.c. ai fini della validità del licenziamento anche in presenza di un fatto accertato come reato; Trib. di Bergamo 05.05.2011,che conferma la completa insussistenza di qualsiasi vincolo per il Giudice del lavoro di attenersi scrupolosamente all’accertamento dei fatti contenuto in una sentenza penale: ribadendo , dunque,  la necessità di dover procedere ad un autonomo accertamento non solo circa l’effettiva sussistenza dei fatti ma – come visto – anche della loro rilevanza giuridica e soprattutto disciplinare.

In riferimento a quanto esposto fin d’ora ,  recentemente la Suprema Corte ( Cassazione, sentenza 29 novembre 2016 n. 24259 ) è tornata a pronunciarsi sull’ incidenza dell’elemento soggettivo del rapporto di lavoro in caso di  reato commesso prima dell’assunzione. Rileva la S.C., in proposito, che  “partendo dalla considerazione che alcuni contratti collettivi puniscono condotte criminose del dipendente compiute non in connessione col rapporto di lavoro, per assumere rilevanza disciplinare con conseguente applicazione del procedimento di cui all’art. 7 S.L., il reato deve comunque essere stato commesso nel corso del rapporto di lavoro e non prima. Ma anche il reato commesso prima può assumere rilevanza, non ai fini disciplinari, ma sul piano della fiducia che deve intercorrere tra le parti, purché venga accertato con sentenza irrevocabile; in questo caso, per trarne le conseguenze sul piano della continuità del rapporto non è necessaria, secondo la Corte, una rigorosa applicazione delle regole sulle sanzioni disciplinari.

In conclusione, anche dopo questa ultima pronuncia della S.C.,si può continuare ad affermare che la cessazione del rapporto per giusta causa non può prescindere, anche in presenza di fatti costituenti reato, dalla norma di cui all’art. 2119 c.c., dovendo il Giudice del lavoro dover effettuare nuovi accertamenti in fase istruttoria al fine di valutare la sussistenza o meno della lesione del vincolo fiduciario.


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Andrea Pagnotta

Praticante e collaboratore presso studio legale in Roma

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