Il mutuo dissenso

Il mutuo dissenso

Nonostante il legislatore abbia espressamente previsto il contratto che pone fine al rapporto giuridico, la dottrina non è pervenuta ad una teorizzazione unitaria del fenomeno; ma si è limitata a considerare separatamente i singoli atti estintivi.

Tra questi atti estintivi rientra la figura del mutuo dissenso, testualmente prevista dall’art. 1372 c.c., I comma, ove si legge che “Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.

Sulla natura giuridica di quest’istituto sono state proposte diverse teorie.

È diffusa, in dottrina e in giurisprudenza, l’opinione che considera il muto dissenso come un negozio avente un contenuto uguale e contrario a quello che si scioglie. Si afferma che gli effetti negoziali, una volta verificatisi, sono irreversibili e la loro eliminazione è consentita solamente attraverso un contro-negozio.

Una teoria, sostenuta recentemente, pur riconoscendo al mutuo dissenso la natura di negozio risolutorio, ritiene che, almeno nei negozi traslativi, esso non è sufficiente a realizzare il ri-trasferimento, ma occorre un ulteriore negozio traslativo definito “negozio astratto di trasferimento solutionis causa”. Dunque, il fenomeno estintivo deriva da una fattispecie composta da due negozi: un negozio obbligatorio, dal quale nascerebbe esclusivamente l’obbligo di ritrasferire da parte dell’acquirente; un successivo atto di adempimento solutionis causa, idoneo a far rientrare il bene nel patrimonio di chi fu alienante.

La dottrina prevalente e parte della giurisprudenza affermano che il mutuo dissenso è un negozio risolutorio diretto ad eliminare un precedente negozio. Il mutuo dissenso non dà vita a tanti diversi contro-negozi, ciascuno con una propria causa e accomunati dalla finalità di porre nel nulla gli effetti prodotti da un precedente negozio, ma costituisce una figura autonoma e unitaria nella quale si rintracciano, con caratteri tipici, i requisiti essenziali di ogni negozio. La causa consiste nella risoluzione di un precedente contratto; la volontà è rivolta ad eliminare dal mondo giuridico il contratto precedente; l’oggetto varia a seconda del negozio che si risolve; la forma dipende dal tipo di negozio da risolvere.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, il meccanismo restitutorio è completamente diverso rispetto al contro-negozio. Nel contro-negozio si avrà lo stesso schema del negozio che si elimina, ma con ruoli invertiti. Nel negozio risolutorio, invece, il venditore riavrà il bene ed il compratore riavrà il prezzo in base alla normativa sull’indebito oggettivo, in quanto, in seguito alla risoluzione, viene a mancare il titolo giustificativo della relativa titolarità.

La teoria della negozio risolutorio è supportata, a livello normativo, da una serie di articoli del codice civile.

L’art.1321 prevede, fra le varie figure del contratto, anche quello estintivo, tra cui rientra senz’altro il mutuo dissenso. Alcuni autori negano che l’istituto trovi applicazione quando il diritto reale è stato trasferito o costituito. La tesi esposta si basa sulla considerazione che il trasferimento di un diritto reale, pur attuandosi in virtù del semplice consenso legittimamente manifestato dalle parti, necessita di una specifica causa traslativa che il mutuo dissenso non possiede, in quanto la sua funzione economico-sociale si esaurisce nell’eliminazione di un precedente contratto. Secondo questa tesi, quando l’effetto prodotto dal negozio che si vuole porre nel nulla ha natura reale, non è possibile ricorrere al mutuo dissenso come negozio risolutorio, essendo necessario un contrarius actus che abbia una tipica causa traslativa.

L’ammissibilità di un mutuo dissenso che risolva un trasferimento immobiliare si ritrova testualmente nell’art.2655, il quale, in materia di trascrizione, dispone al primo comma che la risoluzione di un atto trascritto o iscritto deve essere annotata in margine alla trascrizione o all’iscrizione dell’atto stesso e aggiunge, all’ultimo comma, che l’annotazione si opera in base sia alla sentenza sia alla convenzione in base alla quale risulta la risoluzione. Questa disposizione, dettata unicamente per i negozi traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari, ammette la risoluzione degli stessi a mezzo di una convenzione e non attraverso un contrarius actus, per il quale non sarebbe stata necessaria alcuna specifica norma, essendone già prevista la trascrizione all’art.2643.

Si adducono anche argomenti logici per giustificare la preferenza della teoria del negozio risolutorio rispetto a quella del contrarius actus. Si osserva che l’atto contrario non ristabilisce le posizioni anteriori, ma crea posizioni nuove, seppure uguali a quelle precendenti. La causa è diversa: non la funzione di eliminare il contratto precedente, ma una causa tipicamente riferita al contro negozio che, in concreto, si compie. Viene, inoltre, travisata la volontà delle parti, le quali non vogliono contro-vendere, contro-donare, ma solo risolvere un precedente contratto.

Si sottolinea l’impossibilità di ravvisare un atto contrario nella maggior parte dei contratti ad effetti obbligatori. Per risolvere un contratto di locazione o di appalto con un contrarius actus, si dovrebbe ammettere rispettivamente che il locatore diventi locatario e il committente diventi appaltatore.

Sotto un altro aspetto, le due figure sono profondamente diverse: il mutuo dissenso risolve ogni effetto del precedente contratto; l’atto contrario sarà sottoposto alla sua specifica normativa.

Il mutuo dissenso, avendo effetti risolutori, elimina il negozio presupposto e, pertanto, non può che avere effetto retroattivo. Una parte della dottrina, argomentando dalla mancanza nel nostro ordinamento di una norma che attribuisca tale retroattività al negozio di mutuo dissenso, ha negato la possibilità che essa possa derivare da un’operazione interpretativa che si richiami al principio dell’autonomia contrattuale. Solo la legge, si afferma, può stabilire la retroattività di un fattispecie giuridica, soprattutto per esigenze di tutela di terzi. Né si potrebbe argomentare, per analogia, da ciò che la nostra legge stabilisce in materia di condizione. Nel negozio condizionato la retroattività è dovuta ad una causa intrinseca ed originaria; nel contrario consenso l’eliminazione del negozio sarebbe dovuta, se ammissibile, ad una causa estrinseca e successiva. Inoltre, anche nella fattispecie condizionale la retroattività è un fenomeno eccezionale e, pertanto, non tollera interpretazioni analogiche. In contrario si può osservare che nessuna impossibilità logica e giuridica si oppone a tale retroattività, finché non si tratti di compromettere i diritti acquistati da terzi medio tempore.

Se poi si volesse negare all’autonomia privata il potere di produrre effetti retroattivi qualora non vi sia un’esplicita norma che lo consenta, si creerebbe un falso problema perché la norma esiste proprio nell’art.1372, il quale prevedendo che il contratto può essere sciolto per mutuo consenso ne ammette l’effetto retroattivo. Quanto ai diritti dei terzi, l’inserimento dell’istituto nell’ampia figura della risoluzione del contratto rende applicabile il principio generale di cui è espressione l’art.1458, II comma, c.c.

Un’altra questione che investe il mutuo dissenso riguarda la forma, in quanto non esiste una norma che disciplini il profilo formale di quest’istituto.

Si può, tuttavia, giungere ad una tesi formalistica anche in mancanza di una norma che preveda espressamente i requisiti formali del mutuo dissenso. Se le parti vogliono rendere pubblico ed opponibile ai terzi un negozio che risolva un precedente contratto formale, dovranno adottare la forma scritta, altrimenti non potranno annotare la convenzione in margine alla trascrizione dell’atto risolto ex art.2655. Altra dottrina ha ritenuto che la predetta pubblicità debba attuarsi facendo ricorso all’art.2643, n.5, relativo alla rinunzia ai diritti reali immobiliari, e all’art.2645, che si riferisce ad ogni atto produttivo degli effetti menzionati all’art.2643. Ma non è necessario ricorrere a norme dettate per altre fattispecie, quando esiste un apposito articolo, l’art.2655, che prevede espressamente la nostra figura: la pubblicità viene assicurata non a mezzo della trascrizione, ma dell’annotazione della convenzione di mutuo dissenso.

Può giungersi a sostenere il formalismo del mutuo dissenso anche in base al principio di simmetria, affermato in dottrina e in giurisprudenza, secondo il quale qualsiasi tipo di vicenda effettuale che abbia ad oggetto diritti reali su beni immobili richiede la stessa forma del corrispondente negozio che ne costituisce la fonte.

Sia che si segua l’una o l’altra teoria sulla natura giuridica del negozio di mutuo dissenso, gli effetti finali, in definitiva, non sono profondamente distinti e ciò spiega la ragione per cui la legge sull’imposta di registro, pur prevedendo espressamente il negozio risolutorio, lo sottopone alla stessa imposta di registro del contrarius actus. Una diversità si rinviene nel caso in cui sia pagato un corrispettivo per la risoluzione. In tale ipotesi, il negozio risolutorio sconta, oltre all’imposta di trasferimento, anche un’imposta ulteriore per il corrispettivo pagato.

Dall’inquadramento dato al mutuo dissenso come negozio risolutorio, deriva la soluzione di altri problemi pratici. Una prima questione riguarda la necessità o meno d’inserire nel contratto di mutuo dissenso la dichiarazione urbanistica richiesta dall’art.40 della legge n.47 del 1985. Se si segue la tesi del mutuo dissenso come negozio risolutorio, le predette dichiarazioni non saranno necessarie avendo il mutuo dissenso efficacia meramente risolutoria e retroattiva, ma non traslativa.

Un’altra questione riguarda la possibilità di effettuare un mutuo dissenso parziale. Accogliendo la teoria del contrarius actus, non dovrebbero porsi problemi all’ammissibilità di un mutuo dissenso parziale: esso, non incidendo direttamente sul negozio originario, non deve necessariamente avere una portata distruttiva dell’intero contratto.

Accogliendo la teoria del negozio ad effetti risolutori, ne deriva l’inconfigurabilità di un mutuo dissenso parziale. Tale figura non potrebbe realizzare la finalità ad essa tipica e, cioè, il ripristino della situazione giuridica precedente alla stipula del contratto originario. Allo stesso risultato è giunta la giurisprudenza della Cassazione con riferimento alla risoluzione giudiziale del contratto, affermando che non è ammissibile una caducazione parziale del contratto quanto all’oggetto, ossia per una sola parte della prestazione, salvo che il contratto stesso sia ad esecuzione periodica o continuata. In questo ultimo caso trova applicazione l’art.1458, I comma. Il contratto è unico e l’impossibilità di restituire l’oggetto nel suo stato originario esclude la risoluzione non solo quando l’impossibilità sia totale, ma anche quando sia parziale, non essendo più possibile l’esatta rimessione in pristino.

Per il principio di autonomia privata, le parti possono dare vita ad un negozio giuridico che incida sul loro precedente contratto riducendone l’oggetto. Non si potrà parlare di mutuo dissenso parziale. Si tratterà di negozi modificativi rientranti nell’ampia formula dell’art.1321 ove, accanto ai contratti costitutivi ed estintivi, sono previsti i contratti regolatori, tra i quali rientra il negozio modificativo. Nell’ambito dei negozi modificavi occupa una posizione di particolare rilievo l’art.1231, che distingue la novazione oggettiva, quale negozio estintivo dell’obbligazione originaria, dalle modificazioni meramente accessorie con le quali il contratto non viene estinto. La dottrina ravvisa in esse anche la variazione quantitativa della prestazione, in più o in meno.


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Lucia Leocata

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