Il principio di immutabilità alla luce delle recenti Sezioni Unite

Il principio di immutabilità alla luce delle recenti Sezioni Unite

Dispone il comma secondo dell’art. 525 c.p.p. che “alla deliberazione [della sentenza] concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento…”

Detta norma, che positivizza il c.d. principio di immediatezza, fissa, dunque, un rapporto diretto tra il decidente e la prova che punti all’effettivo accertamento della verità giudiziale, rispondente, quanto più possibile, alla verità storica.

Siffatta disposizione codicistica, pur nel solco della tradizione processual-penalistica italiana, costituisce una precisa novità poiché, a differenza della precedente formulazione dell’art. 479 del codice del 1930, reca l’espressa previsione della sanzione della nullità assoluta che, come notato in dottrina, costituisce l’unica ipotesi di nullità assoluta speciale prevista dal codice di rito.

Dunque, principio di immediatezza quale rapporto privo di intermediazioni tra l’acquisizione delle prove e la decisione dibattimentale.

Da detto principio discendono due precisi corollari: identità tra il giudice che decide e quello che ha svolto il dibattimento; necessità che la decisione sia adottata sulla base delle prove legittimamente acquisite ai sensi per gli effetti dell’art. 526 c.p.p.

Ecco allora che la regola della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in ipotesi di mutamento della persona fisica del giudice, si pone quale necessaria appendice attuativa del principio di immediatezza nell’assunzione della prova.

Tuttavia, posta tale breve premessa, la realtà processuale italiana ha dimostrato come, soprattutto in talune realtà minori o in sedi c.d. disagiate e di ciò ne fa, peraltro, testuale menzione l’ordinanza remissiva della questione di legittimità costituzione degli artt. 525, co. 2, 526, co. 1 e 511 c.p.p.alla Corte Costituzionale[1], difficilmente il giudice, sia esso monocratico o collegiale, porta a termine il processo, essendo ciò facilitato dalla lentezza dei tempi processuali ed anche da una discutibile regolamentazione del trasferimento degli appartenenti all’ordine giudiziario.

Orbene, se particolari problemi non si pongono allorché il mutamento avvenga prima dell’apertura del dibattimento, diversa è la situazione nell’ipotesi, invero assai frequente, in cui una tale novazione abbia a verificarsi nel corso dell’istruttoria.

In tali ipotesi occorrerà, dunque, stante il tenore della norma, rinnovare, pena l’emanazione di una sentenza affetta da nullità assoluta, tutta la sequela processuale: dalla formale dichiarazione di apertura del dibattimento sino alla dichiarazione di chiusura dello stesso.

Ciò, tuttavia, pur astrattamente semplice, ha posto diverse pratiche problematiche alle quali via via ha cercato di porre rimedio il Supremo Collegio, come si vedrà nel prosieguo.

Prima di passare alla disamina analitica dei precipitati giurisprudenziali dell’applicazione del principio in parola occorre, per chiarezza espositiva e di comprensione, avvertire che la rinnovazione istruttoria, per consolidata giurisprudenza e concorde dottrina, è limitata alla prova c.d. dichiarativa essendo esclusa da detto meccanismo la prova c.d documentale.

Circa il quomodo della rinnovazione, nel tempo, si sono poste confliggenti opinioni dottrinarie e giurisprudenziali che hanno dato vita a veri e propri orientamenti contrapposti.

Secondo taluni, infatti, la rinnovazione è assicurata dalla lettura dei verbali delle prove assunte avanti al giudice mutato; secondo altri, invece, è necessario che venga riassunta ogni prova dichiarativa a condizione, naturalmente, che ciò sia possibile e che vi sia esplicita richiesta.

A tal riguardo la prassi giudiziaria ha, nondimeno, dimostrato come la rinnovazione dell’istruttoria vada divenendo sempre più un vuoto simulacro, riducendosi molto spesso ad una mera richiesta di conferma delle precedenti dichiarazioni.

Orbene, a tale confliggere di posizioni cercò, già nel 1999, di porre rimedio l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite con quella che è divenuta la celebre sentenza c.d. “Iannasso”.

Allora le Sezioni Unite enunciarono i principi di diritto così sintetizzabili:  l’art. 525 c.p.p., impone, a pena nullità assoluta, che, al mutare della persona fisica del Giudice, sia esso monocratico o collegiale, il dibattimento debba essere integralmente rinnovato, fin dalla dichiarazione di apertura dello stesso, includendovi, dunque, le richieste di prova immediatamente successive e le conseguenti fasi dell’ammissione e dell’assunzione delle prove; In ordine, poi, alla fine dei verbali delle prove acquisite avanti il diverso giudice si ritenne legittima l’inclusione nel fascicolo per il dibattimento in quanto prove assunte nel contraddittorio delle parti; Infine, quale precipitato del superiore principio, si affermò la possibilità per il giudice, in assenza di richiesta proveniente dalle parti di riassunzione delle prove precedentemente acquisite al dibattimento, di disporne, ex art. 511, co. 2., c.p.p., la lettura con le note conseguenze del caso.

Specularmente a tale ultimo principio si affermò, indi, l’impossibilità per il giudice, ad esclusione delle particolari ipotesi disciplinate dall’art. 190-bis c.p.p., allorché vi fosse esplicita richiesta proveniente dalle parti in ordine alla riammissione e riacquisizione di talune prove dichiarative, di disporre la lettura delle precedenti dichiarazioni rese dal medesimo soggetto senza previa ri-audizione dello stesso.

Tuttavia, seppur vi fu al tempo un pregevole sforzo chiarificatore, taluni punti rimasero irrisolti e pertanto le relative questioni continuarono a porsi.

Di dette questioni, alle quali vanno aggiunte le ulteriori sviluppatisi nella prassi giudiziaria spesso distonica rispetto alle soluzioni fornite dalla sentenza “Iannasso”, dà adeguato conto la recente pronuncia delle Sezioni Unite[2] in materia che evidenzia, con la speranza di risolverli, i seguenti punti controversi:

– se vi debba essere identità tra il Giudice che ha ammesso la prova e quello che la assume o solo tra quello che assume la prova e poi decide;

– se tutte le parti, o solo chi ne aveva fatto richiesta, siano legittimate a richiedere, per l’ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria, la riassunzione della prova già acquisita avanti il diverso giudice;

– se le parti possano prestare il consenso alla lettura delle dichiarazioni rese prima del mutamento del giudice ed in che termini possa prestarsi detto consenso.

– se il nuovo giudice, investito della richiesta di riassunzione della prova, possa decidere, ammettendola o denegandola, in base agli ordinari criteri di ammissione della prova indicati dagli art. 190 e 495 c.p.p.;

In ordine alla prima questione le Sezioni Unite[3] hanno reputato che il rispetto del principio di immutabilità del giudice esiga la necessaria rinnovazione dell’intero dibattimento, per tale intendendosi  tutto ciò che avviene dopo la sua formale apertura ex art. 492 c.p.p., essendo arbitraria una sua limitazione alla sola istruzione.

Ritenendo, in conseguenza, che vi debba essere identità tra il Giudice che ammette la prova e quello che la assume e poi decide.

Tuttavia, affermano ancora come non sia necessario che il Giudice, nella sua nuova e diversa composizione, rinnovi formalmente la precedente ordinanza ammissiva della prova: perché, a parere della Corte, i provvedimenti in precedenza emessi conservano efficacia se non espressamente revocati o modificati.

A siffatta conclusione le Sezioni Unite[4] giungono argomentando a partire dall’art. 525, co. 2, ultima parte, a mente del quale “se alla deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati”.

La disposizione – dettata per l’unico caso di previsione di Giudice supplenti e cioè per il giudizio d’assise- viene ritenuta applicabile, ex art. 12, co. 2 disp. prel. cod. civ., in via analogica.

Parimenti la Corte mostra di fare in ordine all’ulteriore disposizione di cui all’art. 42, co. 2, c.p.p. a norma del quale “il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia”.

Secondo la Corte, quindi, se ciò vale per il mutamento del Giudice a seguito di astensione o ricusazione, ancorché non esplicitamente previsto, deve valere per il caso di mutamento del Giudice senza motivo di sospetto.

In buona sostanza, secondo la Corte, le norme appena menzionate sono espressione di un più generale principio di conservazione degli atti giuridici, mirante a contenere quanto più possibile i tempi del processo evitando la ripetizione di attività ritenute del tutto superflue.

In definitiva, quindi, in relazione alla prima questione problematica evidenziata dall’ordinanza di rimessione, ad avviso della Corte, la garanzia dell’immutabilità del Giudice attribuisce alle parti il diritto, non di vedere reiterate attività già svolte e provvedimenti già emessi, bensì quello di poter nuovamente esercitare, a seguito del mutamento del Giudice, le facoltà previste dalle disposizioni in materia di prova, prime fra tutte la possibilità di presentare, ex art. 468 e 493 c.p.p., nuove richieste di prova da valutarsi secondo gli ordinari criteri.

La corte, tuttavia, conclude il percorso motivazione in ordine a tale questione con una infelice chiosa, alquanto equivoca e generatrice di contraddizioni, allorquando afferma testualmente che “ nè può ritenersi che la rinnovazione del dibattimento debba essere espressamente disposta, poiché le parti, con l’insostituibile ausilio della difesa tecnica, sulla quale incombe il generale dovere di adempiere con diligenza il mandato professionale, sono certamente in grado, con quel minimum di diligenza che è legittimo richiedere, di rilevare il sopravvenuto mutamento della composizione del giudice ed attivarsi con la formulazione delle  eventuali conseguenti richieste …”[5]

Chiara, quindi, appare la contraddizione con il principio di diritto, affermato in relazione a tale problematica, secondo il quale: “il principio di immutabilità del giudice previsto dall’art. 525, co. 2, c.p.p. prima parte, impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che disposto l’ammissione della prova, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati”.

Invero, la Corte, se a più riprese dichiara di aderire alle conclusioni della sentenza “Iannasso”, facendo proprio il principio della necessità di rinnovazione dell’intero dibattimento ivi inclusa la formale dichiarazione di apertura dello stesso, contraddittoriamente ne afferma la non stringente esigenza di espressa declaratoria, impropriamente richiamando alla diligenza professionale il difensore quasi a sollecitarne un dovere di formulazione di espressa richiesta in tal senso.

Pare, in conseguenza, che la Corte Voglia addossare al difensore un implicito onere più ampio rispetto all’accettabile e condivisibile dovere di richiedere la sola riassunzione della prova.

Tale ragionamento – a parere dello scrivente – non può essere di certo condiviso poiché tende a ingenerare confusione ed addossare al difensore dell’imputato un nuovo e non previsto onere processuale, avvicinandolo a compiti e funzioni non confacenti al proprio ruolo nel processo e ciò sol perché, così argomentando, probabilmente si verrebbe a superare una possibile questione posta in relazione ad una mancanza propria del Giudice rispetto ad un’attività ad esso solo riservata dall’ordinamento.

Affermati e delimitati, nei termini di cui sopra, i diritti delle parti in ipotesi di rinnovazione del dibattimento, la Corte si è posta l’ulteriore questione se l’eventuale rinnovazione delle prove già assunte debba essere compiuta unicamente in ipotesi di richiesta proveniente dalle parti o, al contrario, se possa essere disposta anche d’ufficio dal giudice e, nell’ipotesi di richiesta proveniente dalle parti, chi fra di esse sia legittimata ad avanzare detta richiesta con precipuo riferimento alla parte che originariamente aveva chiesto ed ottenuto l’ammissione e l’assunzione della prova in oggetto.

A risoluzione di tali questioni, corrispondenti al secondo quesito sopra posto, la Corte ha ribadito il necessario e generale principio dispositivo in relazione all’ammissione delle prove che informa il nostro sistema processuale.

Abbisogna, dunque, la necessaria richiesta di parte al fine di introdurre la prova nel processo, restando, tuttavia, sempre salva la possibilità per il Giudice di attivarsi d’ufficio ex art. 507 c.p.p., ipotesi questa che però differisce e si discosta in relazione ai generali criteri che fondano l’ammissione della prova dedotta, in quanto soggiacente al differente criterio dell’assoluta necessità ai fini del decidere.

Le Sezioni Unite[6] escludono quindi, in aderenza ai principi già enucleati dalla sentenza Iannasso, la possibilità per il Giudice, dopo l’espressa richiesta di parte e la pedissequa ammissione, di disporre la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese, in assenza del consenso delle parti, senza previo riesame del dichiarante.

Con riguardo, poi, all’individuazione della parte legittimata a formulare richieste di riassunzione delle prove in precedenza assunte la Corte chiarisce, come già nel caso “Iannasso”, che il procedimento di ammissione della prova non subisce alterazione restando, perciò, regolato dagli artt. 468 e 493 c.p.p., indi per cui solo la parte che aveva tempestivamente formato e depositato rituale lista testimoniale può richiedere la rinnovazione degli esami testimoniali.

Tuttavia, chiarisce ancora la Corte, le parti hanno facoltà di richiedere un termine per formulare nuove richieste di prova e per il deposito di nuove liste testimoniali, così estendendo la possibilità a tutte le parti di domandare la rinnovazione di precedenti esami, a prescindere dall’originaria richiesta, ma solo ove vi sia una precipua attività in tal senso, escludendo, tuttavia, espressamente una generalizzata possibilità di richiesta.

Anche in questo caso, però, per la parte che non depositi nuova lista testimoniale, resta salva la possibilità di sollecitare il giudice ai sensi dell’art. 507 c.p.p.

La Corte, in buona sostanza, afferma l’impossibilità per le parti di prestare un generale consenso alla mancata rinnovazione degli esami, la quale, tuttavia, non è dovuta se non richiesta dalla parte legittimata a farlo, tale essendo solo quella che abbia inserito il nominativo del dichiarante nella lista testimoniale.

A tale conclusione il Giudice di Legittimità giunge valorizzando l’inerzia delle parti che non si siano attivate nei modi sopra descritti, fermo restando l’impossibilità di sanare un’eventuale violazione del principio di immutabilità del giudice attesa la specifica previsione della sanzione della nullità assoluta che come tale non può essere giammai sanata.

A questo punto si pone l’ulteriore questione delle possibilità offerte dall’ordinamento al Giudice investito della richiesta di rinnovazione della prova.

Occorre ciò chiarire se il giudice debba sempre e comunque accogliere la richiesta proveniente dalle parti o se possa legittimamente disattenderla.

Sotto tale profilo le Sezioni Unite[7] ribadiscono la validità dei generali principi in materia di ammissione dei mezzi di prova richiesti dalle parti confermando, come già implicitamente aveva fatto la sentenza Iannasso, l’applicazione degli artt. 190 e 495 c.p.p.

Ben potendo il Giudice, in conseguenza, ritenere la manifesta superfluità della riassunzione degli esami già svolti allorquando la richiesta proveniente in tal senso non sia adeguatamente motivata in ordine alle reali necessità di riassunzione o non contenga l’indicazione di specifiche circostanze nuove sulle quali sentire i dichiaranti.

La Corte, però, avverte opportunamente come, prescindendo dai casi di prova vietata dalla legge già in precedenza ammessa essendo ben pochi, non potrebbe negarsi la rilevanza di un esame di cui la parte richieda la riassunzione allorché questo venga poi dichiarato utilizzabile mediante lettura ex art. 511 c.p.p.

Probabilmente, quindi, tensioni e questioni si verificheranno in ordine al requisito della non manifesta superfluità della prova nuovamente chiesta che, ad avviso della Corte, andrà valutato non in relazione al contenuto dell’esame, già in precedenza ritenuto ammissibile, ma solo con riferimento alla sua reiterazione.

Cercando di prevenire possibili questioni sul punto la Corte ha indicato, in via del tutto esemplificativa, una serie di casi nei quali la richiesta di riassunzione di un esame si appalesi manifestamente superflua, includendovi: la pedissequa reiterazione dell’esame già svolto nuovamente dedotto sulle medesime circostanze o la richiesta riguardante la riassunzione dell’esame del verbalizzante che si sia avvalso della consultazione degli atti a sua firma o di altro soggetto che nel precedente esame aveva mostrato di non ricordare i fatti o infine in ipotesi di ampia distanza temporale dai fatti.

La correttezza di tale impostazione, anche in questo caso, viene giustificata sulla base di un ragionamento di tipo analogico che prende le mosse dalla disciplina prevista dall’art. 238, co. 5, c.p.p., in materia di utilizzabilità dei verbali di prove assunte in altri procedimenti.

Come è noto questi, se assunti nel contraddittorio, possono essere ammessi e acquisiti nel procedimento ad quem previo vaglio di non manifesta superfluità ad opera del Giudice.

Secondo la Corte, quindi, seguendo un ragionamento sintetizzabile nel generale principio logico che il più comprende il meno, essendo ciò previsto per le prove assunte in altri procedimento a maggior ragione deve valere per le prove assunte nel medesimo procedimento, agitando, peraltro, per il caso contrario, lo spettro di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Cost.

Degna di nota è, infine, l’utile precisazione offerta dalle Sezioni Unite circa la fine dei verbali delle precedenti dichiarazioni per l’ipotesi di ri-assunzione delle stesse.

A parere della Cassazione resta ferma l’utilizzabilità, mediante lettura ex art. 511 c.p.p., delle dichiarazioni già assunte dinanzi al diverso giudice ma solo dopo la ripetizione dell’esame del dichiarante, allorché questo sia ritualmente chiesto, ammesso e, infine, assunto.

Lo stesso dicasi per l’ipotesi in cui la nuova assunzione non abbia luogo.

In tal senso la Corte, osservando come detto principio sia già stato enunciato nel caso Iannasso e ribadito dalla Corte Costituzionale[8], utilizza una felice espressione allorché evidenzia che i verbali di tali dichiarazioni “permangono” e non confluiscono nel fascicolo per il dibattimento.

Precipitati di tale affermazioni sono le due ulteriori osservazioni, offerte dalla Corte, in relazione alla rilevanza del consenso delle parti in ordine alla lettura dei verbali delle precedenti dichiarazioni.

Essendo questo, secondo la Corte, del tutto superfluo ed irrilevante quando la ripetizione dell’esame non abbia avuto luogo in difetto di espressa richiesta proveniente dalla parte legittimata ovvero perché, pur formulata, sia divenuta impossibile o non sia stata accolta.

Essendo questo, secondo la Corte, “privo di rilievo” per l’ipotesi di violazione del principio di immutabilità un eventuale consenso in tal senso, non potendosi sanare la nullità assoluta prevista dagli artt. 525, co. 2 e 179 c.p.p.

In definitiva, quindi, la Corte enuclea i seguenti principi di diritto:

– “il principio di immutabilità, previsto dall’art. 525 c. 2 prima parte c.p.p., impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ha disposto l’ammissione della prova, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati se non espressamente modificati o revocati”;

“l’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 c.p.p., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest’ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 c.p.p., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione della stessa”;

– “il consenso delle parti alla lettura ex art. 511 c. 2 c.p.p. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile”;

Principi questi per certi versi condivisibili e per altri, con molta probabilità, troppo lontani dallo stretto tenore letterale delle norme in considerazione della cui bontà, ancora una volta, sarà testimone la quotidiana prassi giudiziaria che mostrerà se per davvero la questione della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per mutamento della persona fisica del Giudice possa dirsi definitivamente sopita.

Infine, non può non menzionarsi il recente intervento, in materia, della Corte Costituzionale[9] che ha affermato l’incongruità dell’attuale disciplina se interpretata nel senso che il combinato disposto degli artt. 525, co. 2, 526, co. 1, e 511 c.p.p. obblighi il giudice a disporre la ripetizione dell’assunzione della prova dichiarativa ad ogni mutamento del Giudice.

 Osservando, altresì, che, seppur il principio di immediatezza sia principio caratterizzante il nostro sistema processul-penalistico, esso di fatto sia rimasto, nella stragrande maggioranza dei casi, lettera morta poiché i dibattimenti conclusi in un’unica udienza sono estremamente rari essendo, il contrario, pressoché la regola generale.

Il Giudice delle Leggi Conclude detto ragionamento declamando la natura relativa e quindi non assoluta del principio di immediatezza il quale può, di conseguenza, essere “modulabile” entro i limiti di ragionevolezza dal Legislatore.

É proprio quest’ultimo passaggio, riproposto dalle stesse Sezioni Unite[10], ad introdurre nel dibattito quello che – secondo lo scrivente- è l’elemento di criticità maggiormente evidente e pressante di tutto il costrutto portato dalla sentenza in commento.

Difatti, la Corte Costituzionale[11] fa espresso richiamo, unicamente, alla necessità di intervento del Legislatore, il solo legittimato a modificare il codice di rito penale.

Non essendo possibile – sempre a parere dello scrivente – un intervento così pregnante ed estensivo dello stretto dato testuale da parte di chi, nel nostro ordinamento, è investito delle funzioni di interpretazione e applicazione della legge.

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[1] Ordinanza emessa dal Tribunale di Siracusa il 12 marzo 2018, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 36 del 12 settembre 2018, secondo la quale “…Orbene nelle realtà periferiche del Paese come la presente, la persona fisica del giudice cambia continuamente specie se si fa riferimento alla composizione del collegio; il fatto che i giudici siano solitamente di prima nomina e, maturato il termine, vengano trasferiti altrove, la circostanza che vi siano continuamente vuoti da coprire e dunque spostamenti interni per fare fronte alle diverse emergenze, le maternità che giocano un ruolo determinante nelle piccole sedi con giudici di prima nomina; sono tutte circostanze che fanno sì che sia sostanzialmente impossibile che un processo complesso possa essere iniziato e portato a termine dagli stessi giudici; il rispetto formale e categorico del principio dell’oralità in queste realtà determina la oggettiva impossibilità che il processo venga portato a termine, con inevitabile pregiudizio delle ragioni delle persone offese e con inutile enorme dispendio di attività processuali…”
[2] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736 , Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[3] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736 , Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[4] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736 , Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[5] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736 , Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[6] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736 , Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[7] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736, Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[8] Corte Cost. n. 17 del 1994 e n. 99 del 1996;
[9] Corte cost., n. 132 del 2019;
[10] Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736, Presidente Carcano, Relatore Beltrani;
[11] Corte cost., n. 132 del 2019;

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Avv. Gioacchino Sanfilippo

Avvocato del foro di Agrigento. Laurea in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Palermo con tesi dal titolo "il reato di scambio elettorale politico mafioso", con relatore il Prof. Giovanni Fiandaca.

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