Il principio di offensività come criterio ermeneutico per i reati di falsità in atti

Il principio di offensività come criterio ermeneutico per i reati di falsità in atti

Sommario: 1. Premessa – 2. La rilevanza costituzionale del principio di offensività – 3. Il bene giuridico tutelato nei reati di falsità – 4. Il principio di offensività e i reati di falsità in atti – 5. L’infedele attestazione sulla percezione dei redditi ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio

 

1. Premessa

Tra i reati più frequenti nell’esperienza quotidiana vi sono quelli di falsità in atti, spesso posti in essere per leggerezza o negligenza. A fronte di falsificazioni astrattamente riconducibili alle fattispecie incriminatrici previste dal legislatore ma concretamente non lesive, la giurisprudenza ha cercato di limitare la portata applicativa delle norme in materia di falsità ricorrendo al principio di offensività.

In altri casi, a fronte di falsificazioni poste in essere per superficialità e non configurabili come falso innocuo, l’autorità giudiziaria si è soffermata su un’indagine attenta dell’elemento soggettivo del reato al fine di verificare la configurabilità del reato.

2. La rilevanza costituzionale del principio di offensività

Il principio di offensività costituisce un principio cardine degli ordinamenti penali moderni perché consente di circoscrivere i fatti penalmente rilevanti, vietando di punire condotte oggettivamente non idonee ad arrecare un’offesa ad un bene giuridico. Per offesa si intende sia la lesione che la messa in pericolo del bene. Occorre rilevare che tale principio non è richiamato espressamente in alcuna norma della Costituzione e del codice penale. Tuttavia, l’orientamento dominante ritiene che esso trova fondamento in alcune norme costituzionali. In particolare, viene richiamato l’art. 25, comma II della Costituzione che subordina la sanzione penale alla commissione di un fatto. Si fa, altresì, riferimento agli artt. 25 e 27 della Costituzione che distinguono sanzioni penali con funzione repressiva e misure di sicurezza con funzione preventiva; sulla base di tale distinzione si ritiene che sanzionare penalmente un fatto non offensivo significherebbe assegnare alla pena una funzione preventiva. Inoltre, si osserva che la stessa funzione rieducativa della pena, prevista dall’art. 27, comma II Cost., verrebbe meno laddove si applicasse la pena ai fatti non offensivi.

Oltre a queste disposizioni costituzionali, vengono indicate anche le libertà di cui agli art. 13 e 21 della Costituzione. Infatti, si ritiene che la libertà personale e la libertà di pensiero sarebbero violate ove venissero puniti anche comportamenti non idonei ad offendere un bene giuridico.

Il principio di offensività, trovando un suo fondamento nella Costituzione, rileva come parametro costituzionale funzionale alla produzione normativa da parte del legislatore e alla verifica di legittimità costituzionale da parte della Corte Costituzionale, nonché come criterio ermeneutico per i giudici.

Come precisato anche dalla Consulta[1], il legislatore, nel formare la norma penale, è vincolato a costituire fattispecie incriminatrici offensive di beni giuridici; il giudice, nella fase applicativa, è tenuto a verificare che il fatto commesso sia concretamente offensivo del bene giuridico tutelato.

Secondo i sostenitori della concezione realistica del reato, il principio di offensività trova un riconoscimento anche nella legge ordinaria e, in particolare, nell’art. 49, comma II del codice penale. Tale teoria sostiene che il reato è un fatto umano tipico e offensivo del bene giuridico; pertanto, essa afferma che dall’art. 49 comma II discende l’obbligo del giudice di accertare se la fattispecie concreta non solo corrisponda a quella astratta prevista dalla norma incriminatrice ma anche se essa sia concretamente offensiva.

L’adesione alla concezione realistica del reato ha indotto spesso la giurisprudenza ad escludere la punibilità di fatti che, sebbene conformi alla fattispecie incriminatrice, non sono risultati offensivi. Alcune delle pronunce della giurisprudenza hanno interessato i reati di falsità in atti, disciplinati nel capo III del titolo VII del libro secondo del codice penale.

3. Il bene giuridico tutelato nei reati di falsità

Il codice penale distingue due tipologie di falsità: materiale ed ideologica. Si parla di falsità ideologica quando l’atto ha un contenuto non veritiero atteso che l’autore del reato ha affermato circostanze non vere.

Ricorre la falsità materiale quando viene alterata la genuinità dell’atto perché l’autore crea un documento a firma di un altro o modifica un documento redatto da altri.

Il bene giuridico tutelato dai predetti reati è la fede pubblica intesa come certezza e affidabilità del traffico economico e giuridico.

In merito all’individuazione del bene giuridico nei reati di falsità in atti, occorre evidenziare che secondo una teoria essi hanno natura plurioffensiva. Tale orientamento evidenzia che il falso non è mai fine a se stesso in quanto l’attività di falsificazione è spesso posta in essere per conseguire altri risultati. Pertanto, nell’ambito di questa teoria, si sostiene che tali reati ledono non solo la fede pubblica ma anche il singolo bene specifico alla cui tutela il documento falsificato è preordinato e, quindi, al privato in concreto danneggiato spettano i diritti e le facoltà processuali previste per la parte offesa.

La teoria della natura plurioffensiva dei reati di falso è stata criticata da un altro orientamento che evidenzia la difficoltà di individuare in via preliminare gli ulteriori interessi tutelati nei reati di falso e pertanto, afferma che il bene giuridico tutelato è solo la fede pubblica.

In particolare, i sostenitori di questo orientamento affermano che includere nell’area di tutela dei reati di falso beni accessori, non determinabili a priori, significherebbe ammettere la previsione da parte del legislatore di una sorta di protezione in bianco di beni, suscettibili di essere specificati soltanto in concreto dal giudice in maniera contrastante con il principio di tassatività delle norme penali.

A fronte a queste due posizioni, è intervenuta la Corte di Cassazione nel 2007 con una sentenza a Sezioni Unite[2]; essa, pur ammettendo che nei delitti di falsità in atti viene lesa la fiducia che la collettività ripone in determinati atti, ha affermato che tali reati, oltre che la fede pubblica, tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso, potrà esercitare le facoltà processuali previste per la persona offesa.

4. Il principio di offensività e i reati di falsità in atti

Occorre rilevare che, per limitare la portata applicativa delle norme in materia di falsità in atti, la giurisprudenza spesso ricorre al principio di offensività. Infatti, sulla base di questo principio sono state elaborate le figure giurisprudenziali del falso grossolano, del falso innocuo e del falso inutile.

Si ha falso grossolano quando l’azione è inidonea all’offesa del bene giuridico perché la falsità è immediatamente riconoscibile. Si è ritenuto di applicare a questa ipotesi l’art. 49 comma II del codice penale che disciplina il reato impossibile.

La giurisprudenza ha, però, precisato che la punibilità per il falso grossolano è esclusa quando ricorrono le seguenti condizioni: 1) la falsità deve essere immediatamente percepibile da chiunque senza indagini supplementari; 2) la falsità deve essere percepibile da chiunque e non soltanto da un esperto; 3) la falsità deve essere riconoscibile non soltanto in condizioni ottimali ma anche in circostanze di intensa attività o disattenzione.

Si ha falso innocuo quando la falsità in astratto è idonea ad ingannare, ma nella situazione concreta non è in grado di compromettere gli interessi direttamente tutelati dall’atto. Pertanto, l’innocuità deve essere ricavata da giudice tenendo conto degli effetti del falso su una determinata situazione giuridica.

Si ha falso inutile quando la condotta falsificatoria ha per oggetto un documento non rilevante o ininfluente in relazione alla decisione da prendere rispetto alla situazione giuridica che viene in rilievo.

Il falso inutile si differenzia dal falso grossolano e dal falso innocuo. Infatti, nella prima figura si è di fronte ad un reato impossibile ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p poiché manca l’oggetto considerato che la falsificazione riguarda un atto privo di rilevanza probatoria o di effetti giuridici. Nelle altre due figure ricorre un reato impossibile per inidoneità della condotta ad offendere il bene giuridico.

Alla luce del principio di offensività nelle tre ipotesi di falso inutile, grossolano e innocuo la punibilità è esclusa atteso che si tratta di condotte che non rappresentano nocumento effettivo o potenziale del bene.

Occorre evidenziare che il dibattito è aperto su quale debba essere il giudizio del giudice al fine di verificare se il falso è punibile o meno.

Tale discussione ha fatto emergere due diversi orientamenti. Secondo una tesi il giudizio di offensività deve essere fatto “ex post” e in concreto. Un’altra teoria ritiene che nei reati di falso, ai fini della configurazione del reato impossibile a cui sono riconducibili le tre ipotesi di falso grossolano, inutile e innocuo, il giudizio deve essere fatto “ex ante”.

5. L’infedele attestazione sulla percezione dei redditi ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio

Un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale è sorto con riguardo alla rilevanza penale delle false dichiarazioni reddituali per l’ammissione al gratuito patrocinio qualora i redditi effettivi non superino comunque i limiti di legge per l’ammissione al beneficio.

Sul punto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 6591/2009[3] hanno evidenziato che il bene giuridico protetto dall’art. 95 d.p.r. 115/02 è rappresentato dalla pubblica fede che viene lesa anche nell’ipotesi in cui la dichiarazione dell’istante circa le sue fonti di reddito, pur non decisiva, si appalesi tuttavia falsa.

L’inidoneità dei redditi non dichiarati a comportare il superamento della soglia prevista dalla norma, pur non rilevando sotto il profilo oggettivo attesa la non configurabilità del falso innocuo, può comunque escludere l’elemento soggettivo del reato in quanto il reato è punibile a titolo di dolo.

Invero, la giurisprudenza[4] ha precisato che laddove il falso nella dichiarazione dei redditi è derivato da una leggerezza o da una negligenza dell’agente è da escludere la punibilità del soggetto agente atteso che il sistema vigente non incrimina il falso documentale colposo.

Di recente sul tema sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione [5]al fine di derimere il contrasto giurisprudenziale sorto in merito alla rilevanza della falsità ininfluente o falso innocuo della dichiarazione dei redditi ai fini dell’ammissibilità o revoca del gratuito patrocinio.

Sulla questione infatti sono sorti due orientamenti. Una prima tesi ritiene che la veridicità dell’autocertificazione sui redditi è condizione per l’ammissibilità dell’istanza di accesso al gratuito patrocinio; pertanto, le false dichiarazioni, anche se non incidenti sui limiti reddituali, determinano la revoca del beneficio.

Altra teoria sostiene che le false dichiarazioni non determinano la revoca del beneficio laddove i redditi effettivi non superano il limite di legge.

A fronte del contrasto giurisprudenziale le Sezioni Unite sono intervenute ed hanno affermato che la falsità delle dichiarazioni reddituali, qualora i redditi non superano il limite di legge, non comportano la revoca dell’ammissione al patrocinio spese dello Stato che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 95 e 122 dpr 115 del 2002, valorizzando così più che il principio di offensività quello di tassatività.

Inoltre, il Giudice di legittimità ha ribadito che la falsa dichiarazione reddituale dovuta a leggerezza o negligenza, qualora i redditi effettivi non superano la soglia di legge per l’ammissione al beneficio, non è punibile per mancanza dell’elemento soggettivo tipico del reato, ovvero il dolo.

 

 

 


Bibliografia
DE SIMONE P.E., I reati di falso, 2018;
MANES V., Il principio di offensività nel diritto penale, 2005;
PELISSERO M.- BARTOLI R., Trattato teorico-pratico di diritto penale. Vol.6: Reati contro la fede pubblica, 2011.

[1] Corte Costituzionale, sentenza n. 250/2010 del 05/07/2010, depositata il 08/07/2010.
[2] Cass. Pen. S.U. , sentenza n. 46982 del 18 dicembre 2007.
[3] Cass.Pen. S.U., sentenza n. 6591 del 27 novembre 2008, depositata il 16 febbraio 2009.
[4] Cass.Pen., sez IV sentenza n. 4623 del 31/01/2018.
[5] Cass. Pen., S.U. sentenza n. 14273 del 19 dicembre 2019, depositata il 12 maggio 2020

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