Il principio di prevedibilità della fattispecie penale secondo il diritto interno e sovranazionale

Il principio di prevedibilità della fattispecie penale secondo il diritto interno e sovranazionale

Il principio di prevedibilità  trae origine dalla giurisprudenza sovranazionale secondo la quale non è sufficiente che il dato normativo sia solo tassativo e determinato. I consociati, infatti, al fine di potersi liberamente e consapevolmente determinare, devono poter orientare le proprie scelte attraverso un ordinamento che garantisca un elevato grado di accessibilità  e prevedibilità  dei reati e delle loro pene.

Tali connotati costituiscono un addentellato del più ampio principio di legalità , così come previsto ai sensi dell’art. 7 CEDU.

A livello interno, il principio di prevedibilità  trova un primo aggancio costituzionale nell’art. 13 posto a presidio della libertà  individuale. Infatti, solo una norma che rifletta in modo chiaro i suoi contenuti e le sue conseguenze, in caso di violazione, consentirebbe ai soggetti di agire liberamente.

L’ indiscutibile, inoltre, che il grado di prevedibilità di una norma, e dei suoi effetti, è direttamente proporzionale a quello di precisione e specificità  del suo contenuto.

Infatti, il principio in parola è un ulteriore risvolto di quello di legalità  ex art. 25 co. 2 Cost. (nullum crimen sine lege), e dei suoi corollari: tassatività determinatezza e precisione.

Tanto più è delineata la fattispecie incriminatrice, riducendo così i margini di apprezzamento del giudice, tanto maggiore sarà  la prevedibilità degli esiti da parte dei consociati.

Ancora, il principio in parola costituisce un inevitabile corollario del principio di colpevolezza così come elaborato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 364/1988.

L’ antico brocardo ignorantia legis non excusat troverebbe un limite in quella ignoranza inevitabile, ossia dipendente da una causa imprevedibile che rende la condotta inesigibile, come nel caso di un oscuro quadro normativo.

Ne consegue che anche la funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27 co 3 Cost., presuppone un dato legislativo chiaro e prevedibile per spiegare la sua forza.

Malgrado ciò, l’inevitabile frammentarietà  del diritto penale nonché la continua evoluzione del contesto sociale in cui esso opera, non permettono di rispettare a pieno queste cautele.

Spesso, infatti, il Legislatore si avvale di tecniche di formulazione della fattispecie che mettono in crisi l’esigenza di rendere la norma perfettamente prevedibile.

Nella descrizione del reato, infatti, si ricorre frequentemente ad elementi normativi a contenuto descrittivo caratterizzati da un minore o maggiore tasso di certezza. Si è soliti, così, distinguere gli elementi rigidi, elastici e vaghi.

Quanto ai primi, si tratta di aspetti numerici o naturalistici che, tuttavia, non pongono problemi per i destinatari in quanto il loro significato è percepibile in maniera evidente.

Gli elementi elastici, pur lasciando maggiori margini di apprezzamento, sono requisiti di descrizione irrinunciabili e di cui il diritto penale è foriero. Ne rappresentano un esempio il richiamo ai “giustificati motivi” di cui all’art. 14 co. 5 ter del dlgs. 286/98, atti ad escludere la responsabilità  dello straniero che disattende l’ordine del questore. L’inciso, infatti, letto anche in un’ottica di favor rei, è stato considerato come una valvola di sicurezza per il soggetto attivo.

Sono, invece, gli elementi vaghi o indeterminati a gettare un’ombra di incostituzionalità  in quanto, in mancanza di determinatezza o determinabilità  del dato testuale, i consociati non sono in grado di calcolare le proprie scelte.

Ciononostante, l’atteggiamento della giurisprudenza interna, a differenza di quella sovranazionale, ha sempre mostrato un certo spirito di conservazione del dato legislativo a fronte di norme sospette di imprecisione.

Non di rado, infatti, l’indirizzo del Giudice delle Leggi è stato quello di suggerire agli interpreti una lettura sistematica della disposizione, in armonia con le altre, dovendosi tenere conto anche del contesto in cui si inserisce. E’ quanto accaduto, ad esempio, con riguardo al reato di stalking ex art. 612 bis cp., le cui incertezze sono state colmate anche ricorrendo alla tradizione pretoria formatasi sul punto.

Peraltro, non può sottacersi che, proprio il ruolo della giurisprudenza svolge una funzione importante in merito alla portata del principio di prevedibilità .

Infatti, se da un lato è vero che i giudici nazionali si sono mostrati spesso insensibili ai mutamenti giurisprudenziali, come ha dimostrato la Consulta con sentenza n. 230/2012, dall’altro la Corte europea ha esteso il principio di irretroattività  della norma incriminatrice anche al mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in senso sfavorevole al reo. Ciò, proprio tenendo conto degli effetti che quest’ultimo potrebbe produrre nei confronti di chi commetta il fatto in corrispondenza di un indirizzo pretorio ancora non formatosi, o comunque più favorevole.

E’ quanto accaduto nel noto caso Contrada (2014) in cui i giudici di Strasburgo hanno sostenuto che la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa non potesse applicarsi a fatti anteriori al ’94, posto che solo in quell’anno essa fu riconosciuta dalla giurisprudenza nazionale grazie alla sentenza Demitry. Prima di quella data, dunque, il soggetto non avrebbe potuto prevedere le conseguenze delle sue azioni perchè, pur sussistendo già  il dato normativo, la condotta non era sentita come penalmente rilevante dalla giurisprudenza maggioritaria.

Gli esiti cui sono giunti i giudici sovranazionali si spiegano soprattutto in virtù della diversa latitudine che riceve il principio di legalità . L’art. 7 Cedu, infatti, nel riferirsi al diritto non si limiterebbe al solo dato legislativo, bensì anche a quello giurisprudenziale.

Proprio di recente si è assistito ad un confronto tra Corti, sovranazionale ed interna, avente ad oggetto alcuni aspetti della disciplina delle misure di prevenzione, oggi presente nel dlgs. 159/2011.

I suoi contenuti, per vero, sono stati già  da tempo motivo di critiche sia con riguardo l’ambito soggettivo di applicazione, sia rispetto a quello oggettivo.

In passato, infatti, quando la relativa regolamentazione era ancora contenuta nella l. 1423/56, la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 1 n. 3) nella parte in cui individuava tra i soggetti destinatari delle misure di prevenzione antimafia i ccdd. “proclivi a delinquere”. Tale inciso, infatti, che indicava il requisito di pericolosità  generica, fu considerato eccessivamente labile.

Nonostante l’attuale codificazione, la disciplina odierna è ancora tacciata di indeterminatezza e di ciò se ne è fatto carico una recente pronuncia della Corte EDU nel caso De Tommaso risalente allo scorso febbraio.

Più in particolare, i giudici di Strasburgo hanno stigmatizzato la disciplina delle misure di prevenzione personali sia nella parte in cui individuano i destinatari, sia in riferimento ai contenuti dei relativi obblighi e prescrizioni (art. 8).

Quanto al primo aspetto, hanno rilevato l’eccessiva ampiezza dei soggetti cui fa riferimento il codice antimafia ai sensi dell’art. 1 lett. A). La norma, infatti, nel riferire l’applicabilità  delle misure personali a chi risulta abitualmente dedito ai traffici delittuosi, lascerebbe intendere una certa genericità  sia da parte di chi è chiamato ad applicare la legge, sia da coloro che tali misure subiscono.

La Corte EDU, poi, si è soffermata sulla eccessiva elasticità  da cui sarebbe affetto l’art. 8 del dlgs. 159/2011 nella parte in cui individua il contenuto delle prescrizioni da osservare in conseguenza del provvedimento del giudice. In particolare, il comma 4 imporrebbe ai destinatari obblighi quali vivere onestamente” e rispettare le leggi”. Incisi, questi, indefiniti soprattutto se messi a confronto con le successive prescrizioni specifiche come, ad esempio, il divieto di allontanarsi dalla dimora senza avviso, avente un contenuto certamente più circoscritto.

Tali ragioni hanno indotto la Corte europea a rilevare il contrasto con il principio di prevedibilità . Tuttavia, è opportuno sottolineare che la tensione in parola non si avrebbe con riguardo all’art. 7 CEDU, che si rivolge alle sole pene, ancorchè intese in senso sostanziale e non formale. Le disposizioni, così come formulate dal Legislatore italiano, colliderebbero infatti con il principio di prevedibilità  in riferimento all’art. 2 del Protocollo 4 CEDU, recante la libertà  di circolazione.

La carenza del dato legislativo, infatti, comporta una limitazione della libertà  individuale rendendo non pienamente conoscibili i contenuti che le misure personali impongono e che tale libertà  normalmente restringono.

Nella sentenza De Tommaso viene, inoltre, rilevata la difficoltà  nel cogliere il significato dell’inciso “vivere onestamente”, data la sua evidente vaghezza, nonchè l’obbligo di “rispettare le leggi”, posto che non è specificato a quali fare riferimento.

Inevitabilmente, la giurisprudenza nazionale non è rimasta indifferente alla pronuncia della Corte EDU.

Alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, infatti, è stata rimessa la questione: se la violazione delle prescrizioni ex art. 8 co 4 del dlgs. 159/11, tra cui il “vivere onestamente ed osservare le leggi”, costituisca reato ex art. 75 co 2 dello stesso decreto, nonostante gli esiti cui è giunta la Corte sovranazionale.

L’art. 75 co. 2, infatti, prevede la reclusione da 1 a 5 anni per chi viola gli obblighi di cui all’art. 8, relativamente alle misure di sicurezza personali.

Ammettere la configurabilità  di tale reato significherebbe riconoscere la punibilità  per un fatto il cui contenuto risulta del tutto imprevedibile, non potendosi desumere alcunchè dal mero inciso “vivere onestamente e rispettare le leggi”.

La decisione della Corte di Cassazione ha dovuto, necessariamente, prendere atto dei risvolti europei sul punto, peraltro intervenuti ad una breve distanza di tempo.

Diverse le soluzioni che si sarebbero potute prospettare dal momento che le sentenze della Corte EDU non hanno diretta applicabilità  nel nostro ordinamento. I giudici nazionali, in seguito al quesito sollevato, avrebbero pertanto potuto disattendere i risultati europei, accogliere il monito della pronuncia, sottoporre la norma al vaglio della Consulta per contrasto con l’art. 117 Cost. o, infine, tentare la strada dell’interpretazione costituzionalmente conforme.

Quest’ultima sembra essere stata la soluzione cui sono giunti i giudici di legittimità.

La Corte di Cassazione, in una recentissima sentenza n. 40076/2017, proprio in considerazione dei rimproveri mossi al Legislatore dalla giurisprudenza EDU, ha risposto negativamente al quesito, sostenendo che la violazione delle prescrizioni generiche di cui si discute non possa essere addotta a fondamento di una fattispecie incriminatrice.

Al più, sottolinea la Corte, la violazione di tali obblighi anzichè integrare reato potrà  essere valutata al fine di modulare gli effetti di una misura giù  irrogata, aggravandone la portata.

Tenuto conto della necessaria prevedibilità  del contenuto della norma penale, nonchè delle sue conseguenze, la soluzione abbracciata dalla Corte è stata quella di una parziale interpretatio abrogans dell’art. 75.

Ciononostante, la sentenza della Corte di Cassazione non è stata accolta da tutti con favore, dal momento che essa si baserebbe su una pronuncia europea che, secondo alcuni, non godrebbe della natura di sentenza pilota, così come intesa alla luce della decisione della Corte Costituzionale n. 49/2015.

Ciò che, probabilmente, avrebbe evitato incertezze e garantito maggiore tutela in favore del principio di prevedibilità  sarebbe stato un incidente di costituzionalità  il quale, ove fosse stato accolto, avrebbe potuto espungere definitivamente dal testo l’inciso contrastante con le norme EDU.

La decisione della Corte sovranazionale, infine, ha avuto anche altre ripercussioni essendo stata presa come spunto dalla Corte d’Appello di Napoli la quale, con un’ordinanza del marzo 2017, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in riferimento alla misura di prevenzione della confisca antimafia.

Sulla scia della sentenza De Tommaso, i giudici di merito hanno lamentato la medesima imprevedibilità  dal momento che i requisiti di pericolosità  generica di cui all’art. 1 lett. A) costituiscono presupposto applicativo anche della misura patrimoniale.

E’ mutato, tuttavia, il parametro CEDU di riferimento essendo stato preso in considerazione non più l’art. 2 del Protocollo 4, bensì l’art. 1 del Protocollo 1 che tutela il diritto di proprietà .

Emerge, dunque, che il principio di prevedibilità  vanta un ampio raggio d’azione, costituendo un dogma irrinunciabile non soltanto per le norme propriamente penali, ma anche per quelle aventi differente natura, come le misure di prevenzione le quali sono comunque in grado di incidere negativamente sulla sfera personale del soggetto.


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