Il principio di proporzionalità della pena in relazione alle sanzioni accessorie

Il principio di proporzionalità della pena in relazione alle sanzioni accessorie

Il nostro ordinamento penale conosce, oltre alle pene principali, le pene accessorie, che possono essere comminate solo unitamente a quelle principali e che rispondono a una finalità specialpreventiva negativa distinta e complementare rispetto alle pene detentive e pecuniarie.

Pur essendo disciplinate diversamente a livello codicistico, entrambe devono sottostare ai medesimi principi costituzionali in materia. Tuttavia, a causa della loro automatica applicazione e della durata, in molte ipotesi fissa, le pene accessorie hanno spesso dimostrato di confliggere con il requisito di proporzionalità, previsto dalla Costituzione e di recente valorizzato anche dalle fonti sovranazionali. La giurisprudenza, con recentissimi interventi, ha cercato di eliminare i punti di contrasto, ammettendo l’applicazione degli artt. 132 e 133 c.p. anche alle sanzioni accessorie.

Il principio di proporzionalità della pena discende dagli artt. 3 e 27 c. 3 Cost.. Il  loro combinato disposto postula l’applicazione della ragionevolezza nell’applicazione delle pene e impone altresì che la sanzione comminata debba essere congrua al fatto come in concreto verificatosi, all’allarme sociale eventualmente suscitato e alla personalità del prevenuto.

Questo perché, a mente dell’art. 27 c. 3 Cost., il fine della pena è rieducativo ed è volto alla reintegrazione sociale del reo. Pertanto, una pena sproporzionata e avvertita come ingiusta dal condannato non può che vanificare le finalità suddette.

I principi appena esposti sono più esplicitamente richiamati nella l. n. 354/1975, che disciplina l’ordinamento penitenziario e l’esecuzione delle misure privative e limitative. L’art. 1, al c. 6, prevede infatti che nei confronti dei condannati debba essere attuato un trattamento rieducativo che tenda al reinserimento sociale degli stessi.

A livello codicistico, poi, numerose sono le disposizioni che richiamano il principio di proporzionalità nell’applicazione delle pene. Con particolare riferimento alle pene principali, di cui agli artt. 17 e 18 c.p., l’art. 132 c.p. dispone che il giudice applichi la pena discrezionalmente, indicando i motivi che giustificano l’uso di tale potere. Si tratta, invero, per riprendere un termine mutuato dal diritto amministrativo, di discrezionalità vincolata, atteso che il giudice, nella sua determinazione, può scegliere l’entità della pena da comminare entro i limiti stabiliti dalla legge.

I limiti in parola sono sia esterni, e costituiti dalla cornice edittale (che delimita il minimo e il massimo oltre il quale il giudice non può spingersi), sia interni, ossia inquadrati quali criteri fattuali (relativi alla gravità del fatto e alla capacità a delinquere del reo) che guidano il giudicante nella determinazione della pena da irrogare in concreto.

I limiti esterni cui il giudice deve far riferimento sono elencati nell’art. 133 c.p., rubricato “gravità del reato: valutazione agli effetti della pena”. Secondo il dettato di tale norma, la gravità del reato è desunta da tutti quegli elementi che pongono in risalto il disvalore della condotta (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e modalità dell’azione), la misura dell’offesa arrecata al bene giuridico protetto dalla norma (gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa), e l’intensità del dolo o il grado della colpa.

La capacità a delinquere del colpevole è invece desunta dai motivi a delinquere e dal carattere del reo, dai precedenti penali e giudiziari, dalla sua condotta antecedente, contemporanea o successiva al reato e, infine, dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato. La valutazione della capacità a delinquere svolge non solo una funzione di graduazione della pena, in modo che la stessa risulti proporzionata alla personalità del soggetto agente, ma funge anche da criterio di commisurazione della sua personalità criminosa, in un’ottica di prevenzione speciale.

L’art. 133 bis c.p., poi, indica, relativamente alla determinazione della sola pena pecuniaria, i criteri della gravità del reato e della capacità a delinquere, prescrivendo che il giudice tenga in considerazione le condizioni economiche del reo, potendo anche aumentare la multa o l’ammenda stabilite dalla legge sino al triplo, o diminuirle sino a un terzo quando ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa.

Ai criteri di commisurazione della pena di cui al citato art. 133 c.p. deve inoltre fare  riferimento il giudice nell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, di cui all’art. 62 bis c.p.. La funzione di tali attenuanti, in ossequio del principio di proporzionalità, è individuata nell’esigenza di adeguare la pena al caso concreto, considerato nella globalità degli elementi soggettivi e oggettivi, e di mitigare il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore, se necessario portandolo anche al di sotto del minimo edittale, quando risulti sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del reo.

Fino ad ora si è fatto riferimento ai criteri di commisurazione delle pene principali. Deve tuttavia tenersi in considerazione che, accanto a queste, l’ordinamento prevede anche le pene accessorie, che consistono in sanzioni penali interdittive e che comportano la perdita o la limitazione della capacità giuridica, o di un potere, o dell’attività del soggetto che le subisce.
Esse sono elencate nell’art. 19 c.p. e descritte, nel loro contenuto e nelle loro modalità di applicazione, dagli artt. da 28 a 37 c.p., nonché dall’art. 139 c.p.; inoltre si distinguono a seconda che vengano irrogate per un delitto o per una contravvenzione.

Per i delitti, infatti, costituiscono pene accessorie: l’interdizione dai pubblici uffici, perpetua o temporanea; l’interdizione da una professione o da un’arte, temporanea; l’interdizione legale, che consegue di diritto a una condanna all’ergastolo o a pena superiore a cinque anni di reclusione per delitto colposo o preterintenzionale; l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, che consegue anch’essa automaticamente alla sentenza di condanna per pena non inferiore a sei mesi, per delitto commesso con particolari caratteristiche; l’incapacità di contrarre con la P.A., che consegue a sentenza di condanna per uno dei delitti tassativamente indicati dall’art. 32 quater c.p.; la decadenza o la sospensione dalla responsabilità genitoriale, che consegue automaticamente alla sentenza di condanna per uno dei reati per i quali essa è prevista, nonché alla condanna all’ergastolo.

Per le contravvenzioni, invece, sono pene accessorie: la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, di applicazione automatica e rigorosamente temporanea; la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, di contenuto analogo alla corrispondente sanzione prevista per i delitti dall’art. 32 bis c.p..

Pena accessoria comune alle due categorie di reato è, infine, la pubblicazione della sentenza penale di condanna, obbligatoria in casi di condanna all’ergastolo o nelle altre ipotesi previste dalla legge. Negli altri casi, invece, la pubblicazione è facoltativa e può essere disposta dal giudice per ogni reato, quando costituisca una forma di risarcimento del danno patrimoniale.

Uno dei tratti caratteristici di questo tipo di sanzione è che non possono essere comminate separatamente rispetto alle pene principali, svolgendo rispetto ad esse funzioni complementari e accessorie.

Con riferimento alla durata, dette sanzioni sono perpetue o temporanee. Tra quelle temporanee, si distingue ulteriormente tra quelle obbligatorie, la cui durata è stabilita dalla legge ovvero è uguale a quella della pena principale inflitta o che dovrebbe scontarsi; e quelle facoltative, la cui durata è fissata dal giudice discrezionalmente, sulla scorta degli artt. 132 e 133 c.p., entro i limiti edittali.

Compendiate le diverse tipologie di sanzione accessoria, appare chiaro come l’automatismo applicativo di alcune sanzioni interdittive e la loro durata (specialmente con riferimento alle pene perpetue e di durata predeterminata) contrastino con il principio di proporzionalità e con il correlato scopo rieducativo della pena.

Tuttavia, deve osservarsi che tali sanzioni possono trovare cittadinanza nel nostro ordinamento per almeno due ordini di ragioni.

Innanzitutto, la pena accessoria è comminata, come si anticipava, unitamente alla pena principale, all’esito della valutazione delle risultanze dibattimentali, acquisite in contraddittorio: ciò garantisce che la sanzione accessoria, esattamente come quella principale, sia comminata dopo l’accertamento da parte del giudice della colpevolezza dell’imputato.

In tal modo è quindi fatto salvo il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.. Resta tuttavia da giustificare la rigidità nell’applicazione di quelle sanzioni accessorie, che non subiscono variazioni proporzionali alla gravità del fatto.

La dottrina ha poi costantemente affermato che l’automatismo applicativo e la perdita di proporzionalità sono giustificati dalla peculiare finalità sottesa alle pene accessorie, condivisa in parte con le misure di sicurezza (che, invero, spesso si protraggono per un tempo molto lungo, dopo che la condanna è già stata scontata). Infatti, le pene accessorie, e in particolare quelle interdittive e inabilitative, sono più marcatamente orientate ai fini di prevenzione speciale negativa. A caratteri distinti delle pene (principali e accessorie), quindi, possono corrispondere distinte operazioni di dosimetria sanzionatoria.

Tali ragioni, tuttavia, non appaiono sufficienti a giustificare la violazione dei principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento punitivo, specialmente a seguito dell’influenza eurounitaria in tal senso. La CGUE ha infatti costantemente ribadito, negli ultimi anni, che le pene devono essere prevedibili, in modo che il soggetto agente possa prefigurarsi l’esito della propria condotta e, di conseguenza, orientare la sua azione. Perché le pene possano essere conoscibili, è necessario che le stesse non solo siano scritte, certe e irretroattive, ma altresì proporzionate, ragionevoli e commisurate al fatto concreto.

Il ragionamento coinvolge non solo le sanzioni penali principali e le misure di natura sostanzialmente penale (come alcune forme di confisca), ma anche le pene accessorie (in particolare quelle di natura interdittiva o inabilitativa), delle quali si deve riconoscere la portata fortemente limitativa di diritti fondamentali della persona, come quello di svolgere un’attività lavorativa o imprenditoriale.

Pertanto, la giurisprudenza interna ha più volte rimarcato, anche di recente, i profili di criticità che presentano le pene accessorie.

Osservando l’art. 37 c.p., che disciplina la durata delle pene accessorie, si può verificare come lo stesso non sembri consentire un’applicazione proporzionata, posto che stabilisce che la pena accessoria (quando non è predeterminata dalla legge) debba avere una durata uguale a quella principale.

Un temperamento della portata della disposizione è di recente pervenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno affermato che l’art. 133 c.p. ben può essere applicato anche alle pene accessorie obbligatorie, ove sia previsto un termine massimo di durata (indicato con “fino a”). Secondo la Corte di legittimità, quindi, solo in questo modo la pena accessoria, al pari di quella principale, può risultare effettivamente proporzionata e individualizzata, come esige la Costituzione.

La sentenza in parola si colloca sul solco tracciato dalla Corte Costituzionale, la quale aveva precedentemente ammesso la possibilità di escludere l’operatività della regola dettata dall’art. 37 c.p. in riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare. La Consulta si era espressa quindi nel senso di permettere che la commisurazione della misura accessoria fosse autonoma rispetto alla pena principale, facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p..

La questione era sorta in relazione all’applicazione della pena accessoria di cui all’art. 216 ultimo comma della legge fallimentare (bancarotta fraudolenta). Questo veniva poi dichiarato parzialmente illegittimo, nella parte in cui predeterminava nella misura fissa di dieci anni la durata delle relative pene accessorie, anziché prevederne l’applicazione «fino a dieci anni».

Per la Corte costituzionale, la durata fissa decennale era incompatibile con i principi di proporzionalità (e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 c. 3 Cost.) e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio (il quale impone che le pene possano essere calibrate dal giudice sulla situazione del singolo condannato, in ossequio non solo alla personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 c. 1 Cost., ma anche del principio di uguaglianza).

Più precisamente, l’illegittimità costituzionale sarebbe derivata non tanto da una carenza astratta di proporzionalità della durata decennale delle pene accessorie, per tutte le ipotesi di bancarotta fraudolenta, bensì nel carattere fisso e indifferenziabile di tale durata con riferimento alle ipotesi più lievi. Questo aspetto, in particolare, permetteva l’inflizione di pene accessorie pari a dieci anni anche per le fattispecie di bancarotta connotate da un minor disvalore: si poteva pertanto cogliere la manifesta sproporzione con i casi di bancarotta fraudolenta di più grave entità, che ricevevano la medesima sanzione.

La Consulta pertanto ha concluso nel senso di una necessaria applicazione della proporzionalità alle pene accessorie relative ai reati di bancarotta, al fine di consentire al giudice di determinare, con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena principale, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p..

I recenti interventi giurisprudenziali hanno peraltro comportato l’applicabilità dell’affermato principio di diritto non solo ai limitati fini del reato di bancarotta fraudolenta, bensì anche a qualsiasi pena accessoria temporanea rispetto alla quale sia prevista una cornice edittale autonoma o un limite entro il quale il giudice possa muoversi discrezionalmente in applicazione dell’art. 133 c.p.. È il caso, ad esempio, delle pene accessorie previste in materia di reati tributari dall’art. 12 del d.lgs. n. 74/2000.

Di conseguenza, il campo di applicazione dell’art. 37 c.p. può ormai dirsi limitato a quei soli casi (tra cui, ad esempio, l’art. 609 nonies in materia di reati sessuali) nei quali la legge prevede l’applicazione di una o più pene accessorie, senza nulla prevedere circa la loro durata.

Come ulteriore effetto, rispetto ai futuri giudizi e a quelli in corso, sembra potersi affermare che il giudice possa ora operare una valutazione dosimetrica in concreto tanto per la pena principale quanto per la pena accessoria, ben potendo quantificare quest’ultima in misura diversa rispetto alla prima, svolgendo due distinte operazioni di calcolo e due separate motivazioni in sentenza.

Con riferimento, invece, alle pene accessorie temporanee, comminate nella misura fissa di dieci anni a seguito di condanna per bancarotta fraudolenta passata in giudicato prima della sentenza della Corte Costituzionale citata, può osservarsi che l’attuale esecuzione di  tali pene interdittive sarebbe ormai illegittima e, quindi, suscettibile di rideterminazione in executivis. Deputato a svolgere questa operazione dovrebbe essere il giudice dell’esecuzione, adito a tal fine ex art. 666 c.p.p., cui la giurisprudenza a Sezioni Unite ha, negli scorsi anni, riconosciuto la possibilità di rideterminare la pena illegale, anche qualora si debba ricorrere ai criteri di cui all’art. 133 c.p., caratterizzati da un’ampia discrezionalità.

Preme peraltro considerare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’automatismo di cui all’art. 216 u.c. l. fall. non è stato un caso isolato in giurisprudenza, atteso che, in passato, la Consulta si era già espressa caducando l’art. 569 c.p. nella parte in cui stabiliva che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato previsto dall’art. 567 c. 2 c.p., conseguiva di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.

Il Giudice delle Leggi evidenziava che la decadenza automatica della potestà genitoriale incide sull’interesse del minore a vivere e crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione.

La pronuncia, invero, si richiamava al principio di ragionevolezza e non direttamente alla proporzionalità della pena. Tuttavia, i due concetti sono strettamente connessi e, nel caso di specie, anche sovrapponibili, poiché non si faceva riferimento al quantum (e quindi alla proporzione in senso stretto della sanzione accessoria), bensì all’an della sanzione della decadenza della responsabilità genitoriale.

La Corte, quindi, riteneva che l’automatica applicazione della pena accessoria non risultasse conforme al principio di ragionevolezza e contrastasse con il dettato dell’art. 3 Cost. in quanto, ignorando il richiamato interesse del minore, precludeva al giudice di valutare, in concreto, il bilanciamento tra l’interesse stesso e la necessità di applicare la pena in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso.


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Avv. Ilaria Romano

Avvocato del Foro di Lecce. Specializzata con menzione in diritto penale. Docente a contratto di Diritto Processuale Penale presso la SSPL "V. Aymone" di Lecce.

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