Il principio pacta sunt servanda nel recesso, patto di riscatto e nella condizione risolutiva espressa

Il principio pacta sunt servanda nel recesso, patto di riscatto e nella condizione risolutiva espressa

La funzione sociale costituisce la forza motrice della regolamentazione dei rapporti interprivati, che deve necessariamente trovare spontanea realizzazione attraverso l’espletamento lecito della più ampia libertà negoziale, votata alla giustizia sostanziale. Proprio quest’ultima si realizza attraverso il contemporaneo e reciproco rispetto dei confini di libertà da parte di ciascun consociato, titolare di un coacervo di diritti soggettivi, il cui riconoscimento giuridico e relativa fruibilità non può rivelarsi pregiudizievole nei confronti di altrettanti legittimi diritti. Dacché la clausola di solidarietà, di ispirazione costituzionale, si traduce in ambito civilistico in “opzione fiduciaria”: l’ordinamento decide di affidare ai privati l’autoregolamentazione dei loro rapporti, seppur sottoposti al vaglio della meritevolezza (art. 1322 secondo comma, c.c.), conferendo al vincolo, che ne consegue, efficacia di legge.

Si spiega, pertanto, la portata del principio “pacta sunt servanda”, enucleato dalla disposizione normativa contenuta nell’art. 1372 c.c., a mente del quale: “Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”. Le parti decidono, dunque, di darsi regole che disciplinano i loro rapporti presenti e futuri, che saranno tenuti a rispettare, rendendosi responsabili delle loro scelte “normative” e sopportandone le relative conseguenze. L’auto-legge prende il nome di “contratto”: un patto, che scelgono liberamente di non disattendere. Tuttavia, la fiducia data ai privati dall’ordinamento non risulta condizionata dal solo superamento della barriera della conformità degli interessi, ivi perseguiti, alla giuridica rilevanza degna di tutela, ma anche dal rispetto di una regola di condotta interna che, sebbene non espressamente prevista, opera in tutta la sua cogenza precettiva, atteggiandosi come l’altra faccia della medaglia della succitata clausola di solidarietà costituzionale: la c.d. buona fede oggettiva. Essa costituisce ad un tempo limite e criterio di valutazione dei comportamenti discrezionali delle parti contraenti, affinché gli stessi non si riducano al meccanico espletamento delle rispettive prestazioni contrattuali, ma, per loro tramite, si persegua contestualmente, lo scopo del pieno soddisfacimento sostanziale dell’interesse di controparte: non solo corredando di adempimenti accessori l’obbligazione principale, ma evitando il sorgere di pregiudizi, anche in fase esecutiva, attraverso l’imposizione di veri e propri obblighi di protezione. Sicché, la buona fede si qualifica come regola di comportamento oggettiva e precettiva: né status soggettivo, destinato a rilevare nelle “bonarie” intenzioni di chi agisce “erroneamente” rispetto l’esistenza di un diritto o l’adempimento di un obbligo; né tantomeno, regola di validità della struttura contrattuale. Essa esprime un giudizio dinamico di conflittualità degli interessi in gioco delle parti contraenti, destinato a risolversi in un equo contemperamento degli stessi, in prospettiva di equilibrio e correttezza dei relativi comportamenti economici posti in essere, previa valutazione della proporzionalità dei mezzi, messi a disposizione, nelle more della stipula ed esecuzione contrattuale. Attraverso la buona fede oggettiva, si delinea la misura della legittimità del potere esercitato dalle parti del contratto, ossia, se ossequioso o meno ai canoni di lealtà e probità, sinonimi della regole comportamentali di correttezza: la legge “contrattuale” deve rispettarsi non solo non recando danno alla controparte, ma attivandosi affinché quest’ultima risulti pienamente soddisfatta dall’adempimento della prestazione principale, non in via meramente materiale.

Nonostante siffatti limiti, l’autonomia contrattuale regna sovrana nelle autoregolamentazioni dei rapporti interprivati anche qualora presentino contenuto negativo (“costituire, regolare o estinguere” art. 1321 c.c.): a norma dell’art. 1372 c.c. la forza di legge contrattuale e relativa buona fede devono operare anche in sede di scioglimento del vincolo, il quale non può che ricondursi, a sua volta, ad un’ulteriore convenzione (mutuo dissenso) o ad espressa previsione legislativa ai fini del suo operare lecito. La buona fede, quindi, è idonea a fondare un’autonoma ipotesi di responsabilità latu sensu contrattuale, anche nel caso di violazione delle modalità predeterminate cui procedere al fine della c.d. risoluzione convenzionale del contratto.

Anche nella fase patologica del rapporto deve prestarsi attenzione a non arrecare danno all’altro, nonostante le prestazioni già effettuate abbiano perso la loro giustificazione causale, venendo meno il vincolo contrattuale o attenuandosene la vis coercitiva.

In tali casi, l’aporia che appare ancora oggi residuare come strascico di apodittici ed a-sistematici interventi dottrinali e giurisprudenziali, inerisce la contestuale sussistenza della lecita ammissibilità di un recesso “ad nutum” previsto ex lege, e di un contrapposto negato recesso “ad libitum”, convenzionalmente adottato dalle parti; sebbene entrambi suggellano quell’arbitrarietà, che esula patologicamente i confini della libertà negoziale, per attestarsi in prospettive prettamente egoistiche che, oltre a violare il disposto di cui all’art. 2 Cost., manifestano la non reale volontà dei contraenti a ritenersi vincolate da un contratto, funzionale alla realizzazione di interessi ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento giuridico.

Ci si chiede, in altri termini, se per cause di inadempimento sopravvenute, (che si presumono) non preventivamente concordate, le parti staranno o, piuttosto, scenderanno “a patti”. O ancora, quale sia la soglia di ammissibilità di un recesso unilaterale, che non travalichi il (controverso) divieto della condizione risolutiva meramente potestativa.

Difatti, si discute ancora in giurisprudenza circa la configurabilità in via analogica-estensiva di un divieto ex art. 1355 c.c., che colpisca, non solo la condizione sospensiva meramente potestativa (la cui apposizione subordina l’efficacia del contratto al mero arbitrio di una delle parti), ma anche la condizione risolutiva meramente potestativa, soprattutto se in quest’ultima possa operare il criterio-limite della buona fede oggettiva ex art. 1358 c.c. nel corso della sua pendenza. Sicché, da un lato, nella prassi si ritiene di vietare che anche la cessazione degli effetti del contratto, – da intendersi come idoneità dello stesso ad influenzare il rapporto giuridico cui si riferisce -, possa essere rimessa al mero arbitrio di una delle parti, che si qualifica come mera indifferenza alla verificazione o meno dell’evento dedotto in condizione: non ravvisandosi interessi apprezzabili all’una o all’altra scelta si giustifica l’applicazione del rimedio “sanzionatorio” di cui all’art. 1359 c.c.; dall’altro, si è sostenuto che il “mutuo consenso” possa sottendersi anche nell’attribuzione ad una sola delle parti del potere di stabilire la prosecuzione o la cessazione del vincolo contrattuale, anche se l’evento dedotto in condizione è proprio l’adempimento della relativa prestazione (condizione risolutiva di adempimento).

Tuttavia, nonostante ex se il recesso (ex art. 1373 c.c.) si atteggi come deroga eccezionale al principio di vincolatività del contratto, le parti non possono, allo stesso modo, disattendere in via convenzionale, a quella regola di comportamento di immediata copertura costituzionale, che impone di agire secondo correttezza anche nella fase patologica del rapporto contrattuale.

A parte, quindi, le differenze “metodologiche” tra recesso e condizione risolutiva potestativa – sebbene ancora una parte della dottrina li associa alla stregua di sinonimi – ciò che rileva ai nostri fini, sta nell’individuare il diverso modus operandi del principio “pacta sunt servanda”, e se in essi sia violato o rispettato in ossequio alla buona fede oggettiva.

Difatti, in base ad un primo orientamento, la differenza tra i due istituti consiste nell’automaticità da attribuire alla verificazione dell’evento dedotto in condizione risolutiva, che travolge gli effetti del contratto, anche quelli prodotti ed eseguiti, senza la necessità di un atto ulteriore, un’ ulteriore dichiarazione negoziale richiesta in sede di recesso.

Un diverso orientamento distingue i due rimedi di scioglimento del contratto, attribuendo alla condizione risolutiva efficacia retroattiva “reale” e, come tale, opponibile a terzi; al recesso, invece, efficacia irretroattiva “non reale”, quindi non opponibile.

Altri ancora sostengono che il recesso si identifichi nella condizione risolutiva meramente potestativa laddove la volontà di sciogliere il contratto, espressa da una parte contraente, sia incontestabile; mentre si ha identità con la condizione potestativa risolutiva semplice, laddove la caducazione dell’efficacia contrattuale dipenda dalla sussistenza di determinati presupposti di fatto (giusta causa o giustificato motivo), quali idoneo oggetto di elastiche elaborazioni interpretative, seppur sempre alla luce del prudente apprezzamento del giudice.

Tale problematica, annessa allo sforzo di adeguare a Costituzione precetti codicistici di precedente emanazione legislativa, si ritiene possa risolversi, tenuto conto, in base ad un recente arresto giurisprudenziale, della ratio che fonda la scelta della parte cui spetta, per convenzione o per legge, di esercitare il potere di sciogliere il contratto. Sicché, il recesso è inefficace ovvero fonda una responsabilità di tipo risarcitorio, – a seconda che lo si qualifichi come elemento essenziale dell’architettura contrattuale (natura reale) ovvero requisito comportamentale (natura obbligatoria) – anche qualora sia previsto come facoltà ex lege, laddove la scelta economica del contraente, che sottende siffatto atto di autonomia negoziale, risulti “apatica” alle conseguenze che derivano dalla prosecuzione o risoluzione del contratto. Laddove si ritiene, invece, valida la scelta di recedere, nel caso in cui questa costituisca l’alternativa ritenuta più soddisfacente alla parte titolare del relativo potere, ossia sussista una valutazione ponderata di opportunità-convenienza degli interessi in gioco.

Pertanto, anche quando il diritto di recesso, sia previsto ad nutum dallo stesso legislatore, – il quale abbia operato a monte tale valutazione di opportunità, tenuto conto dell’asimmetria informativa e di potere delle parti o dipendenza economica (contratti del consumatore, regime di concorrenza tra imprese), della scarsa utilità di determinate opere o prestazioni di servizi (artt. 1725, 1738, 1685 c.c.), ovvero ancora nelle ipotesi in cui il diritto al recesso costituisce un termine all’adempimento di obblighi assunti vita natural durante  (1865, 1899 c.c.) -, la parte beneficiaria ha facoltà di usufruirne nel rispetto del canone di buona fede, ossia non esercitando tale diritto per puro arbitrio, ma come reazione ad un pregiudizio derivante dall’approfittamento della posizione di supremazia in cui versa controparte o per la sopravvenuta carenza di interesse al mantenimento del vincolo, dovuto al mutamento delle circostanze di fatto o di diritto (c.d. ius poenitendi).

Allo stesso modo, d’altronde, è chiamato ad agire chi esercita un diritto di recesso attribuito in via convenzionale: sebbene trattasi di atto unilaterale recettizio, in quanto per produrre effetti deve giungere a conoscenza della controparte, non essendo sufficiente, in tal caso, l’operare di una mera presunzione, a fronte della pedissequa previsione legislativa di un congruo termine di preavviso in svariate ipotesi tipizzate di recesso, siccome funzionale a tutelare il destinatario della relativa decisione di avvalersene, dalle conseguenze pregiudizievoli che subirebbe nel caso di automatico travolgimento degli effetti del contratto.

Come detto, siffatto “non operare automatico” distingue il diritto di recesso dalla condizione risolutiva potestativa: la richiesta, in relazione al primo, di un’espressa dichiarazione di parte entro il termine “del principio di esecuzione”, di avvalersene, così come la previsione, ormai regola generale, di un congruo preavviso entro cui rendere edotta controparte, ne costituiscono i principali caratteri discriminatori rispetto alla verificazione di un evento dedotto come oggetto di una condizione risolutiva, – apposta al contratto quale elemento, clausola accidentale, – idonea a far caducare automaticamente tutti gli effetti del contratto, senza differenziare le ipotesi di contratti ad esecuzione continuata o periodica da quelli ad efficacia “istantanea” (1373, secondo comma, c.c.).

Tuttavia, a monte di entrambi i descritti strumenti, sussiste una convenzione intervenuta tra le parti, che ne dovrebbe costituire fonte di legittimità giuridica, sebbene non in via meramente astratta, ma concreta.

Dunque, nonostante siasi previsto in via convenzionale la facoltà di esercitare un recesso ad nutum, ovvero una condizione risolutiva (anche meramente) potestativa, tale diritto non deve mutarsi in “abuso”, prescindendo lo scopo e la funzione per il conseguimento ed espletamento dei quali era stato predisposto dalle parti, pena la sanzione dell’inefficacia del recesso o l’innescarsi di una tutela riparatoria/risarcitoria in capo al destinatario/controparte, o ancora il rimedio di cui all’art. 1359 c.c.

La posizione della controparte contrattuale deve essere presa in considerazione, quindi, anche quando il contratto sia venuto meno, in mancanza di un principio di esecuzione: ciò che, come accennato, costituisce il limite entro cui ci si può avvalere del diritto a recedere.

Sicché, la suesposta aporia ermeneutica si è traslata anche in sede di esecuzione contrattuale, avuto riguardo al c.d. patto di riscatto, che, a norma dell’art. 1500 c.c., disciplina, parimenti al recesso ed alla condizione risolutiva potestativa, una facoltà squisitamente unilaterale, in quanto posta a vantaggio di una sola delle parti contrattuali, funzionale non tanto ad eliminare il vincolo contrattuale presente, quanto, piuttosto, a garantire il ripristino dello stato quo ante, in cui versavano le medesime parti contrattuali.

Nel patto di riscatto sembra essere di più immediata percezione l’importanza dello “accordo”, in virtù del quale il venditore torna ad essere il proprietario della cosa precedentemente alienata, corrispondendo prezzi e rimborsi al previo acquirente, a tutela del quale sono altresì predisposti una serie di rimedi in caso di indebite prevaricazioni od illecite imposizioni di controparte-riscattante, soprattutto nel caso di rapporti tra professionista e consumatore, contraente debole per antonomasia (1502 e 1503, secondo comma, c.c.).

Anche con riferimento al patto di riscatto si è dibattuto in dottrina circa la sua qualificazione giuridica come condizione risolutiva o come recesso, che, in tal caso, opererebbe in via eccezionalmente retroattiva.

Tuttavia, come detto, il limite dell’esecuzione del contratto, che non giustifica più la ratio causale del recesso ( sarebbe contradditorio palesarsi non più interessato ad un contratto che si è eseguito o contribuito ad eseguire), fonda, a contrario, l’esercizio del diritto di riscatto per intervenire in merito – come tradizionalmente di sostiene – ad un’immediata esigenza di liquidità, pur sempre rispettando la sfera giuridica dello “altro” contro interessato.

Ebbene, da quanto sin qui esposto si evince che la clausola della buona fede oggettiva ex art. 1375 c.c. ed art. 1175 c.c., rinviene diversa fonte giuridica, di matrice legale o convenzionale (mutuo consenso) anche quando si assiste all’affievolimento o allo scioglimento della vincolo contrattuale, innestandosi una vera e propria “procedimentalizzazione”, dove il rispetto delle regole “legali” o “pattuite”, costituiscono il parametro di liceità di esercizio di diritti soggettivi, che seppur spettanti, in quanto tali, a ciascun consociato, non instaurano il rapporto principale con una “res”, di guisa da configurarli “individuali – assoluti”, ma si relativizzano, contemperandosi all’esigenze dell’altra controparte, alla quale il recedente o riscattante resta legato da una corrispettività “rispettosa”, nonostante il venir meno del contratto, nonostante l’esecuzione del contratto: laddove non si perde più nulla in termini economico-materiali, può ancora perdersi di umanità, perciò occorre in tali casi riscattarsi nella veste di “animali sociali” di impronta aristotelica, di vocazione costituzionale.


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