Il reato di estorsione tra tentativo e desistenza volontaria ex art. 56, co. 1 e 3, c.p.

Il reato di estorsione tra tentativo e desistenza volontaria ex art. 56, co. 1 e 3, c.p.

Il contributo odierno verte sull’analisi dei profili e del confine tra il tentativo di reato ex art. 56, co.1, c.p. e l’istituto della desistenza volontaria ai sensi dell’art. 56, co. 3, c.p., e, più nello specifico, con riferimento ad una fattispecie di reato contro il patrimonio, ossia il delitto di estorsione ex art. 629 c.p.

Preliminarmente, risulta opportuno delineare i contorni dei due istituti di ordine generale, prima di sussumerli nella fattispecie di cui all’art. 629 c.p.

L’art. 56 c.p. al primo comma così recita “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica“.

Al terzo comma, la disposizione in esame si occupa dell’istituto della desistenza volontaria statuendo che “Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”.

Quanto al primo istituto, il tentativo ricorre in quelle ipotesi in cui l’autore non riesce a portare a compimento il disegno criminoso idealizzato per fattori esterni alla sua volontà, pur tuttavia lasciando emergere la propria intenzione criminosa nella realizzazione di un fatto delittuoso che si esteriorizza nel compimento di atti che, seppur in forma embrionale, assumono una certa rilevanza per l’ordinamento.

A tal proposito, il legislatore individua i caratteri che devono assumere gli atti per potersi parlare di tentativo: questi devono, infatti, possedere il requisito dell’idoneità e della non equivocità.

Tali elementi risultano necessari ai fini dell’individuazione del momento in cui la condotta assume rilevanza, in quanto, nel nostro ordinamento penale, in genere, i meri atti preparatori non consentono una punizione.

L’analisi di questi due profili permette di comprendere quale sia il momento a partire dal quale sorge la pretesa punitiva dell’ordinamento, la quale coincide con la messa in pericolo del bene oggetto di tutela.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, l’idoneità degli atti è riconducibile al concetto di efficacia causale, da intendersi come l’attitudine degli atti posti in essere a cagionare, di per sè, l’evento voluto.

Tuttavia, non vi è, ad oggi, un criterio unitario per la valutazione di tale requisito.

Secondo recente giurisprudenza, l’accertamento di tale profilo va compiuto mediante l’utilizzo del criterio della prognosi postuma, facendo riferimento “alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni prevedibili del caso” (Cass. sez. II n. 36311/2019).

Ai fini della valutazione non assumono rilevanza gli interventi esterni che abbiano impedito la realizzazione dell’evento, di talchè l’idoneità va considerata nella sua potenzialità eziologicamente orientata a conseguire il risultato delittuoso preso di mira, a prescindere dai primi (Cass. sez. V n. 9254/2015).

In ordine al secondo requisito, ossia la non equivocità degli atti, si tratta di un aspetto che connota la condotta, “nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare l’intenzione dell’agente” (Cass. sez. I n. 9284/2014).

Tale profilo deve essere valutato in termini oggettivi, in quanto “gli atti considerati, esaminati nella loro oggettività e nel contesto in cui si inseriscono, devono possedere l’attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito” (Cass. sez. VI n. 25065/2011).

Più di recente, la Suprema Corte ha statuito che “in tema di tentativo, il requisito dell’univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile all’individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo” (Cass. sez. I n. 29101/2019).

Pertanto, l’analisi di questi due aspetti della condotta risulta necessaria per capire se vi è stata una effettiva messa in pericolo dei beni tutelati dalla norma incriminatrice di parte speciale, tale da far scattare la reazione punitiva da parte dell’ordinamento che, in questo caso, si esplica in termini di tentativo ex art. 56 c.p.

Quanto all’istituto della desistenza volontaria, esso è disciplinato dall’art. 56, co. 3, c.p.

La disposizione sopra citata introduce un elemento valutativo diverso rispetto a quelli previsti dal primo comma, ossia l’analisi dell’aspetto volitivo dell’agente.

In questo caso si verifica un mutamento nella sfera volitiva del soggetto attivo che decide autonomamente di non perseguire più l’originario proposito criminoso e, dunque, arresta la propria condotta esecutiva.

La ratio di tale disposizione si rinviene nel principio di prevenzione generale e speciale perseguito dal legislatore in materia penale, sulla base della considerazione che, chi muta il proprio proposito criminoso, senza alcun condizionamento esterno bensì volontariamente, non rappresenta un grave pericolo per la collettività e non necessita di rieducazione, non legittimando quindi l’irrogazione di una sanzione.

Ne consegue che saranno puniti solo quegli atti compiuti che configurino un reato già di per sè consumato.

Ciò che rileva ai fini della sussunzione all’interno dell’art. 56, co. 3, c.p. è proprio il requisito della volontarietà del recesso dall’azione già iniziata, assieme alla possibilità concreta di continuazione dell’azione criminosa.

Ed infatti, può configurarsi desistenza volontaria solo laddove l’evento di reato sia ancora fattualmente realizzabile ma, nonostante ciò, l’autore decida di arrestare la propria condotta.

Sul punto la giurisprudenza più recente ha avuto modo di chiarire che “la desistenza volontaria non può ritenersi efficace se sia imposta da fattori esterni alla libera determinazione dell’agente, tali da impedire la prosecuzione dell’attività diretta alla consumazione del reato” (Cass. n. 4881/2019).

Non assumono, pertanto, rilevanza i fattori esterni che siano stati causa di un ravvedimento da parte dell’agente o che si siano posti come ostacolo alla realizzazione del fatto di reato, ma l’arresto dell’azione deve pervenire esclusivamente dalla sfera volitiva del soggetto attivo.

Per scelta proveniente dalla sfera volitiva dell’agente si intende una decisione che non sia frutto di necessità o di bisogno, bensì sia presa in una situazione di libertà interiore, che prescinda da fattori d’ostacolo esterni (Cass. n. 12240/2018).

Grava su chi deduce la sussistenza dell’esimente della desistenza volontaria, l’onere di dimostrare l’assenza di qualsivoglia ostacolo alla prosecuzione dell’azione, incidente sulla propria determinazione volitiva (Cass. sez. I n. 48418/2017).

L’ordinamento, tuttavia, non richiede che vi sia un atteggiamento di assoluta resipiscenza, ma è sufficiente che l’interruzione avvenga nella più totale libertà decisionale, potendo essere l’azione spinta anche da meri motivi utilitaristici (Cass. sez. I n. 11865/2009).

La problematica più frequente in ordine all’istituto de quo attiene all’individuazione del criterio di discrimine tra l’ipotesi di desistenza derivante dall’autodeterminazione dell’agente e quella derivante da una volontà indotta da circostanze esterne.

Sul punto, costante giurisprudenza ha elaborato una formula di riferimento al fine di demarcarne il confine, statuendo che si è in presenza di desistenza volontaria qualora il soggetto attivo abbia ragionato in termini di “potrei continuare ma non voglio”, mentre non sarà configurabile l’istituto della desistenza volontaria qualora il pensiero dell’agente sia “vorrei continuare ma non posso”, indice di un arresto nella prosecuzione della propria condotta derivante da fattori esterni alla propria sfera volitiva (Cass. Sez. I n. 8864/1989; Sez. I 11865/2009; Sez. II n. 18385/2013; Sez. II n. 7036/2014).

Per i reati a forma libera, non è possibile la configurazione dell’istituto della desistenza volontaria di cui all’art. 56, co. 3, c.p. “una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo” (Cass. n. 16054/18; Cass. n. 32532/2018).

Dunque, laddove l’attività esecutiva si sia spinta fino alla produzione del “meccanismo causale” fonte della realizzazione dell’evento, non potrà ricorrere l’ipotesi di cui al comma 3, in quanto non potrà più essere evitato l’evento.

Delineati i contorni generali degli istituti del tentativo e della desistenza volontaria, è possibile individuarne le applicazioni pratiche con riferimento ad un reato contro il patrimonio, tra i piu diffusi, ossia l’estorsione di cui all’art. 629 c.p.

Come è noto, l’art. 629 c.p. punisce la condotta del soggetto che “mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare od omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”, punendolo con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da 1.000 a 4.000 Euro.

Si tratta di un reato comune, potendo essere commesso da “chiunque” ed è stato introdotto a tutela di molteplici beni giuridici, tra cui figurano il patrimonio e la libertà personale, tutelati da ogni forma di aggressione.

La condotta punita è quella di natura costrittiva che, ai fini della consumazione, deve essere attuata attraverso due modalità tipizzate dal legislatore, ossia la violenza e la minaccia.

Quanto alla prima si intende una vis che non abbia l’idoneità a coartare totalmente la libertà di autodeterminazione della vittima, altrimenti si rientrerebbe nell’ipotesi di rapina, ma si tratta di una forza intimidatrice più forte della mera minaccia. Tale profilo deve, tuttavia, consentire alla vittima di mantenere un minimo di libertà di scelta, sì da rimanere un mero aspetto strumentale della condotta costrittiva.

In ordine all’elemento della minaccia, si identifica nella prospettazione di un male ingiusto alla vittima, che presumibilmente si realizzerà qualora la stessa decidesse di non compiere il facere coartato oppure ad omettere quanto chiesto.

La giurisprudenza non richiede necessariamente che la minaccia sia esplicita e determinata, in quanto è ritenuta sufficiente anche la minaccia indiretta, implicita, purché sia idonea ad incutere timore e sia causalmente orientata alla coartazione della sfera volitiva della vittima, in virtù delle circostanze fattuali, alla personalità del soggetto attivo, alle condizioni personali della vittima, alle circostanze ambientali, ecc… (Cass. sez. II n. 11922/2013).

Ai fini della valutazione della rilevanza della minaccia e della violenza, non assume importanza la capacità di resistenza dimostrata dalla vittima (Cass. sez. II n. 24166/2019), bensì tale valutazione va effettuata a prescindere dal grado di intimidazione prodotto sulla stessa (Cass. sez. II n. 23075/2018).

La condotta di costrizione al compimento o all’omissione di un’attività è causalmente orientata alla produzione per l’autore o per altri di un ingiusto profitto, da intendersi quale “qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso” (Cass. sez. II n. 16658/2008).

Mentre la costrizione, quale evento conseguente all’utilizzo di violenza o minaccia, attiene all’evento del reato, l’ingiusto profitto con altrui danno rappresenta un ulteriore evento, sicché si configura il solo tentativo nel caso in cui la violenza o la minaccia non raggiungano il risultato di costringere una persona al facere ingiunto” (Cass. sez. II n. 3934/2017).

Il reato di estorsione è un reato di danno, di talchè lo stesso si consuma con il conseguimento dell’ingiusto profitto sperato, nel momento in cui la vittima pone in essere l’attività oggetto di coartazione o la omette, non assumendo rilevanza la mera promessa di adesione alla richiesta estorsiva (Cass. sez. II n. 44049/2010).

Se l’aspetto consumativo non desta particolari perplessità, non può dirsi la medesima cosa in ordine al tentativo e alla desistenza volontaria applicata al delitto di estorsione.

In ordine alla fattispecie del tentativo di estorsione, occorre che il soggetto attivo si avvalga degli strumenti della violenza e della minaccia per porre in essere la condotta di costrizione, non essendo sufficiente una generica pressione alla persuasione o la formulazione di proposte esose o ingiustificate (Cass. sez. II n. 39366/2010). Pertanto, ad esempio, non costituisce tentata estorsione la condotta del locatario di un immobile il quale, a fronte di una richiesta di anticipata risoluzione del contratto di locazione da parte del proprietario, aveva subordinato il proprio consenso al versamento di una somma di danaro a titolo di buona uscita, non essendo ravvisabile l’idoneità della minaccia alla coartazione.

In tema di delitti contro la persona, è configurabile la tentata estorsione nella condotta dell’autore che, avendo il possesso di fotografie relative alla vita privata di un soggetto, la cui divulgazione può comportare un danno all’identità personale, proponga al soggetto raffigurato di acquistarle per evitarne la diffusione (Cass. sez. II n. 43317/2011).

Stessa soluzione per la condotta del soggetto attivo che, dopo aver avvicinato la vittima all’interno dell’androne dell’abitazione ed averle tappato la bocca, interrompe la sua azione intimorito dalla circostanza che la stessa, sino a quel momento, aveva conversato telefonicamente con altra persona (Cass. n. 17518/2019).

In tema di parcheggio abusivo, invece, è configurabile il tentativo di estorsione nella condotta del parcheggiatore abusivo che cerchi di costringere, mediante violenza, un automobilista che aveva lasciato in sosta l’auto in zona ove non era stato istituito alcun parcheggio autorizzato, a corrispondergli una somma di denaro (Cass. sez. II n. 4422/2019). Tale considerazione deriva dalla insussistenza di alcun obbligo di custodia che possa legittimare una pretesa economica.

Al pari è ravvisabile il reato di estorsione, nella forma tentata, nella condotta del parcheggiatore abusivo che, con l’utilizzo di violenza o minaccia, tenti di costringere l’automobilista che abbia rifiutato il pagamento di un compenso per il parcheggio dell’autoveicolo a spostare la propria vettura dall’area (Cass. sez. II n. 16030/2020).

In tema di lavoro subordinato, configura, altresì, tentata estorsione la “pretesa del datore di lavoro di imporre ad aspiranti lavoratrici, già selezionate in base ai titoli abilitativi posseduti, di rinunziare a una parte della retribuzione, ancorché figurante in busta paga” (Cass. Sez. II n. 656/2010).

Rientra nella fattispecie tentata anche la pretesa, esplicitata con violenza e minaccia, di ottenere, per conto di terzi creditori, l’adempimento di un debito dal padre del debitore, in quanto la stessa non è tutelabile dinanzi l’Autorità giudiziaria e quindi non può nemmeno configurarsi l’ipotesi tentata del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma è diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell’ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Cass. sez. II n. 45300/2015).

In materia commerciale, costituisce tentata estorsione la condotta di chi ponga in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad impedire l’apertura di un esercizio commerciale, per preservare gli interessi di un proprio congiunto che eserciti una attività simile (Cass. sez. II n. 3371/2013).

In ordine alla determinazione del locus commissi delicti nel caso di estorsione tentata, trattandosi di una figura di reato complesso che assorbe il reato di minaccia, bisogna tener conto nelle modalità con cui si è realizzata la minaccia, ed infatti, in caso di minacce estorsive realizzate telefonicamente, il locus commissi delicti è quello in cui la vittima ha recepito le suddette minacce (Cass. sez. II n. 25239/2015).

In via di esemplificazione, ricorre la tentata estorsione e non si configura desistenza volontaria quando, in ipotesi di costringimento alla corresponsione di una determinata somma di denaro, la consegna della stessa non avviene non perché l’imputato volontariamente decide di non continuare la condotta costrittiva, bensì perché la vittima oppone ferma resistenza. Pertanto, l’imputato non potrà beneficiare dell’esimente della desistenza volontaria ex art. 56, co. 3, c.p. (Cass. sez. II n. 3793/2020; Cass. sez. II n. 41167/2013).

Proprio con riferimento alla desistenza volontaria, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che non è sufficiente, ai fini dell’applicazione della suddetta esimente, che la violenza o la minaccia non siano continuative ma si sostanzino in diversi contatti verbali distanziati nel tempo, bensì è necessario che la condotta di inattività del soggetto attivo sia protragga per un tempo sufficiente a dimostrare che l’originario progetto estorsivo sia stato abbandonato (Cass. sez. V n. 32742/2010).

Ed infatti, non si configura desistenza volontaria nella condotta di fuga dell’autore da un negozio, realizzata a seguito dell’intervento della polizia, dopo aver posto in essere un tentativo di estorsione (Cass. sez. I n. 46179/2005).

Al pari, non costituisce desistenza volontaria bensì tentativo punibile, la condotta del soggetto attivo che si rivolge ai Carabinieri consentendo il ritrovamento del veicolo oggetto del reato, dopo essersi convinto di non poter ricevere la somma di denaro richiesta alla vittima e dopo aver scoperto dello svolgimento di indagini, giunte anche ad un importante risultato, nei suoi confronti (Cass. sez. II n. 7036/2014). Stessa soluzione nel caso di estorsione interrotta a causa della denuncia della vittima alla polizia giudiziaria (Cass. sez. VI n. 40678/2011).

Non è possibile parlare di desistenza volontaria, per esempio, nel caso in cui, in tema di stupefacenti, le trattative per l’acquisto della sostanza stupefacente siano interrotte per il mancato accordo sulla vendita e non per un’autonoma determinazione del soggetto attivo (Cass. n. 4881/2019).

La giurisprudenza dà un’ulteriore specificazione dell’istituto della desistenza nelle sue pronunce in tema di concorso di persone del reato, statuendo che, purché questa si configuri anche nei confronti degli altri concorrenti, è necessario che la desistenza di uno dei compartecipi produca un processo causale che sia idoneo ad arrestare anche l’azione degli altri compartecipi. Qualora ciò non accada, l’esimente della desistenza volontaria non sarà applicabile anche agli altri concorrenti, in quanto gli stessi presumibilmente avranno posto in essere delle condotte eziologicamente orientate alla consumazione e che avranno già prodotto conseguenze irreversibili, seppur anche nella forma del tentativo (Cass. sez. VI n. 14188/1999; Cass. sez. II n. 48128/2013).

La giurisprudenza, dunque, richiede la sussistenza di un quid pluris consistente nella neutralizzazione del contributo fornito e nell’impedimento dell’evento di reato preso di mira (Cass. sez. II n. 22503/2019).

Per esemplificare, “il recesso di uno dei correi dal suo luogo di vigilanza non produce alcun effetto idoneo ad eliminare le conseguenze della sua precedente condotta allorché questa ha raggiunto lo scopo di costringere la persona offesa a recarsi nella località prestabilita, deponendovi la somma pretesa, e la mancata realizzazione della estorsione sia stata conseguenza solo dell’intervento delle forze dell’ordine in precedenza informate dalle vittime” (Cass. sez. II n. 6481/1986; Cass. sez. II n. 16077/2019).

Pertanto, risulta evidente quanto sia labile il confine tra la fattispecie di estorsione tentata e l’applicazione della disciplina della desistenza volontaria, soprattutto nei casi in cui non sia chiaro se la volontà di arresto della propria condotta sia autonoma ovvero indotta da fattori esterni.

Si può certamente arrivare alla soluzione che laddove la condotta criminosa dell’autore venga arrestata a causa di una impossibilità assoluta nella continuazione, non potrà parlarsi di desistenza volontaria, in quanto tale impossibilità deriva da fattori esterni alla sfera volitiva dell’agente; viceversa, tuttavia, non potrà arrivarsi ad un’automatica applicazione dell’istituto di cui al comma terzo dell’art. 56 c.p. in quanto sarà necessario operare un’analisi della situazione concretamente esistente e della residualità della possibilità di continuarne l’esecuzione.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto, si auspica un intervento della Suprema Corte al fine di individuare più specificamente i criteri da seguire per meglio delineare il discrimen tra i due istituti.


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Marika Zanerolli

Nata a Piazza Armerina nel 1994. Diplomata al Liceo Classico nel 2013. Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Catania nell'ottobre 2018. Diplomata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali "A. Galati" di Catania nel luglio 2020. Ha svolto Tirocinio ex art. 37 L. 111/11 presso la Prima Sezione Civile del Tribunale di Catania e pratica forense presso uno studio legale specializzato in diritto penale. Attualmente, abilitata all'esercizio della professione forense.

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