Il reato di tortura in Italia

Il reato di tortura in Italia

La tortura è una pratica barbara e disumana che viene effettuata da parte degli appartenenti alle Forze dell’Ordine al fine di estorcere informazioni o confessioni coartate.

Tale usanza violenta e feroce, purtroppo, è tutt’ora ammessa in molti Stati (tra cui alcuni Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, Indonesia, Corea del Nord, Nepal, Pakistan, Myanmar, Iraq, Libia, Messico e altri).

Le tecniche di tortura più comunemente note sono il c.d. “water-boarding”, l’impiego di scosse elettriche in più parti del corpo, la privazione del sonno, ecc.

A livello internazionale, sono numerosi i meccanismi di tutela che vietano l’uso della tortura e di altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti: la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000), la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (1984) e, infine, lo Statuto di Roma, che istituisce la Corte penale internazionale (1998).

Tra questi, in particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 sancisce l’obbligo per gli Stati firmatari di prevedere nei propri ordinamenti una puntuale disciplina normativa che definisca e punisca gli atti di tortura.

L’Italia ha ratificato la predetta Convenzione con la Legge n. 498 del 1988, ma il percorso di stesura e approvazione di una Legge volta a punire la tortura sarà lungo e tormentato.

Solo nel 2017, infatti, con la Legge n. 110, viene introdotto in Italia il reato di tortura, che risulta, ora, disciplinato agli articoli 613bis e 613ter del Codice Penale, all’interno del titolo XII dedicato ai delitti contro la persona.

La legge predetta approda nel nostro ordinamento a seguito delle numerose pressioni provenienti dalle Istituzioni Europee e Internazionali, in particolare dopo la condanna emanata da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza del 7 aprile 2015 (Caso Cestaro c. Italia, ric. n. 6884/11), nella quale lo Stato Italiano veniva sanzionato per la inadeguatezza del proprio ordinamento circa una efficace prevenzione e repressione delle condotte di tortura, contrarie all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

La sentenza in questione faceva riferimento alla triste vicenda dei fatti di Genova del 2001, laddove le Forze di Polizia italiane si sono rese responsabili di atti di tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti nei confronti di civili manifestanti, durante la convocazione del G8 nel Luglio 2001.

Dopo svariati anni di processi, i responsabili delle torture non vennero mai puniti da parte dei tribunali italiani, a causa della mancanza di una norma che sanzionasse specificatamente le ipotesi di tortura, con ciò, quindi, permettendo che la prescrizione penale inglobasse tali condotte, configurate come reati minori (nello specifico, lesioni e percosse).

Il motivo di tale inerzia del Legislatore a disciplinare e punire un atto così crudele come la tortura è da ricondurre all’opposizione degli esponenti delle Forze dell’Ordine, che ritengono che una previsione di tale tenore comporterebbe dei limiti all’esercizio delle proprie funzioni di repressione del crimine e contribuirebbe ad fomentare il divario ideologico tra la popolazione civile e il personale militare.

Analizzando, ora, le modifiche che la Legge n. 110/2017 ha apportato, il nuovo articolo 613bis c.p. punisce “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante”; la pena, in questi casi, è della reclusione da quattro a dieci anni.

Se il fatto è commesso da un Pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, che agisca, quindi, in abuso dei propri poteri, la pena è aumentata fino a 12 anni di reclusione.

Un’ulteriore circostanza aggravante è prevista, poi, nell’ipotesi in cui la vittima riporti delle lesioni gravi (aumento di 1 terzo), gravissime (aumento della metà), o se ne consegue la morte (ipotesi di reato aggravato dall’evento): in questo caso, la pena è aumentata fino a 30 anni di reclusione in caso di morte non voluta da parte dell’agente; la pena sarà, invece, dell’ergastolo laddove il reo abbia volutamente cagionato la morte della vittima.

La violenza considerata dalla norma in esame comprende sia la c.d. “violenza propria”, ossia l’utilizzo di forza fisica (anche attraverso uno strumento) su persone o cose, sia la c.d. “violenza impropria”, ovvero l’utilizzo di qualsiasi mezzo idoneo a coartare l’autodeterminazione della vittima.

Ebbene, la disciplina in esame risulta parzialmente diversa da quella dettata dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, laddove il reato di tortura si atteggia a reato proprio, commesso dal Pubblico Ufficiale in ipotesi di abuso di potere.

Viceversa, nell’art. 613bis c.p., il reato in questione è configurato come un reato comune, prevedendo, poi, una circostanza aggravante nel caso in cui venga commesso da un Pubblico Ufficiale, con esclusione di responsabilità, peraltro, nel caso in cui la tortura sia conseguenza di legittime misure privative o limitative di diritti.

Tale disparità, in realtà, è stata fonte di numerosi dibattiti, laddove parrebbe differenziare le ipotesi di tortura commesse dai privati cittadini, da quelle commesse, invece, dai Pubblici Ufficiali, di talché rischiando di indebolire la tutela contro le torture inflitte da parte degli appartenenti alle Forze dell’Ordine.

Inoltre, mentre la Convenzione ONU del 1984 prevede la configurazione del reato di tortura mediante una condotta a forma libera, la normativa italiana punisce esclusivamente chi pone in essere tortura “mediante più condotte”, con ciò limitando le ipotesi alle sole fattispecie che presentano una pluralità di condotte ed escludendo, quindi, la configurazione del reato nei casi in cui venga posto in essere un unico atto di violenza, non reiterato ma comunque idoneo a cagionare sofferenza.

Un’ulteriore perplessità suscita, poi, la punizione delle ipotesi di torture psicologiche esclusivamente nei casi in cui il trauma sia verificabile: è evidente che tale condizione potrebbe costituire un limite in tutte quelle ipotesi in cui l’accertamento dei fatti avvenga a distanza di tempo, rendendo sicuramente più ardua la verificazione del trauma subito.

E ancora, il testo della norma risulta foriero di ambiguità laddove fa esplicito riferimento al “trattamento inumano e degradante”, vale a dire una condotta che si caratterizzi allo stesso tempo quale inumana e degradante, mentre la Convenzione delle Nazioni Unite prevede la disgiuntiva “inumani o degradanti”, allargando, quindi, il campo delle condotte che rientrerebbero nelle ipotesi di tortura e garantendo, quindi, una maggiore tutela.

Ma la previsione più allarmante tra tutte è, probabilmente, quella che concerne i termini di prescrizione: il reato di tortura, infatti, non è inserito nell’elenco previsto dall’art. 157, comma 6, c.p., che prevede il raddoppio dei termini di prescrizione per determinate fattispecie di reato caratterizzate da una particolare gravità dell’offesa.

Alla luce di quanto sopra, pertanto, il reato di cui all’art. 613bis c.p. è soggetto al termine di prescrizione ordinario previsto per i delitti (in questo caso, dieci anni).

L’art. 613ter c.p. disciplina, invece, il reato di istigazione alla tortura, punito con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni; la condotta criminosa consiste nell’istigare “in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso”.

La Legge n. 110/2017, oltre a prevedere le nuove ipotesi di reato poc’anzi analizzate, contiene, inoltre, delle modifiche al codice di procedura penale (art. 191 c.p.p.) e al Testo Unico in materia di immigrazione (d.lgs. 286/1998): in particolare, sono previste delle ipotesi di inutilizzabilità, nel processo penale, di dichiarazioni estorte attraverso la tortura (salvo il caso in cui tali dichiarazioni siano utilizzate contro l’autore della tortura); sono vietate, poi, le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni (c.d. refoulement) verso Paesi nei quali vi è fondato motivo di ritenere che il soggetto rischi di essere sottoposto a tortura.

Da segnalare, infine, l’esclusione di qualsiasi ipotesi di immunità diplomatica nei confronti di stranieri accusati di tortura in altri Stati o sottoposti a procedimenti penali presso Tribunali Internazionali.

Sebbene la disciplina normativa in esame costituisca un importante passo in avanti in materia di tutela dei diritti umani nel nostro Paese, diverse sono le perplessità che scaturiscono all’indomani dell’approvazione della Legge.

Alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte, invero, non sorprende che nel giugno 2017, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, aveva inviato una nota ai vertici legislativi italiani, specificando alcune preoccupazioni in merito all’adozione della citata Legge.

Gli atti di tortura costituiscono, infatti, una violazione della dignità personale, che non comprende unicamente la sfera dell’integrità fisica, ma anche, e soprattutto, la sfera psicologica, la libertà della persona di autodeterminarsi e condurre una vita dignitosa.

Purtroppo, nella storia si è assistito a diversi casi di tortura perpetrati da parte delle Forze dell’Ordine di diversi Paesi: alcuni di questi sono stati duramente sanzionati da parte degli organismi giurisdizionali interni e internazionali (si pensi al caso di Abu Omar, o ancora alle torture inflitte da parte dei regimi dittatoriali dell’America Latina negli anni ’60 e ’70, nonché alle tragiche vicende che hanno interessato i centri di detenzioni statunitensi di Guantanamo Bay e Abu Ghraib); altri, tristemente, sono tutt’ora rimasti impuniti, a causa dell’inerzia degli Stati a garantire una effettiva tutela (si fa riferimento, ad esempio, al tragico caso di Giulio Regeni, barbaramente torturato e ucciso da parte delle Forze dell’Ordine egiziane, per cui ancora, a distanza di 4 anni non si è giunti ad una pronuncia di condanna).

 

 

 


-Cancellaro F., “Tortura: nuova condanna dell’Italia a Strasburgo, mentre prosegue l’iter parlamentare per l’introduzione del reato”, in DirittoPenaleContemporaneo.it, 29 giugno 2017;
-Camera dei Deputati (https://www.camera.it/leg17/561?appro=OCD25-270);
-Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 7.4.2015, ric. N. 6884/2011;
-Oggiano F., “Perché in Italia ancora non esiste il reato di tortura?”, in TheVision.it, 1 agosto 2019;
-Policarpio I., “Reato di tortura in Italia: disciplina, pena e aggravanti”, 4 novembre 2019

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Simona Maria Destro Castaniti

Simona Destro Castaniti ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (2018). Abilitata all'esercizio della professione forense da Novembre 2021. Ha svolto il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. 69/2013, presso l'Ufficio GIP/GUP del Tribunale di Reggio Calabria. Specializzata in Diritto Internazionale, ha svolto diversi progetti all'estero (USA, Costa Rica, Kosovo) e ha partecipato a diversi progetti MUN (risultando vincitrice). Parla quattro lingue: italiano, inglese, spagnolo, portoghese.

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