Il requisito dell’accordo nella disciplina contrattuale generale e nella legislazione speciale del lavoro

Il requisito dell’accordo nella disciplina contrattuale generale e nella legislazione speciale del lavoro

di Luigi Antonio Beccaria[1]
Sommario: 1. Considerazioni generali sull’accordo contrattuale nella disciplina codicistica – 2. Il requisito dell’accordo e il complesso rapporto tra principio di autonomia contrattuale e rapporto di lavoro – 3. Le diverse funzioni della forma del contratto nella disciplina generale e nella normativa giuslavoristica – 4. Conclusioni

 

1. Considerazioni generali sull’accordo contrattuale nella disciplina codicistica

Il presente contributo si propone di analizzare le affinità e soprattutto le divergenze intercorrenti tra la disciplina generale codicistica in ambito contrattuale, con particolare riferimento ai requisiti e alle modalità di perfezionamento dell’accordo, e la normativa giuslavoristica: attraverso le differenti modalità di astringimento al vincolo contrattuale, sarà possibile leggere in controluce anche le diverse finalità perseguite rispettivamente dalla normativa generale e da quella speciale giuslavoristica.

Come è noto, l’accordo tra le parti, ai sensi dell’articolo 1325 Cod.Civ., costituisce, unitamente a causa, oggetto e forma (nelle ipotesi in cui ciò sia previsto dalla legge), un elemento essenziale del contratto, la cui assenza determina la nullità dello stesso e conseguentemente l’improduttività ex tunc degli effetti giuridici da esso prodotti.
Nella disciplina generale civilistica del nostro ordinamento, fatte salve ipotesi residuali tra cui si richiama la fattispecie del c.d. contratto imposto, nessuno può infatti essere astretto al vincolo contrattuale senza espressa manifestazione di volontà, tanto che il requisito dell’accordo si definisce “formato”, da un punto di vista metagiuridico, quando interviene uno scambio di dichiarazioni unilaterali e recettizie di volontà, la proposta e l’accettazione, le quali assumono rilevanza giuridica in quanto siano conosciute, o, quanto meno, giungano all’indirizzo del destinatario.

La proposta, costituendo un atto giuridico di natura negoziale teleologicamente indirizzato a provocare l’accettazione da parte del destinatario, postula la volontà del preponente di obbligarsi contrattualmente e deve prevedere non una semplice dichiarazione generica di disponibilità, ma una completa formulazione del regolamento negoziale, in modo tale da richiedere la pura e semplice accettazione dell’altro contraente, senza ulteriori integrazioni. Il nostro ordinamento recepisce, all’articolo 1326 Cod.Civ., il principio cosiddetto  cognitivo, in applicazione del quale, affinché il contratto sia concluso, è necessario che il proponente abbia conoscenza dell’accettazione dell’altra parte, la quale deve pervenire all’offerente nel termine da lui indicato, pena l’inefficacia dell’accettazione stessa. Il proponente può ritenere efficace l’accettazione tardiva, purché ne dia immediatamente avviso all’altro contraente.

L’accettazione, inoltre, deve essere manifestata nella forma richiesta dal proponente, il quale può però rinunciarvi ritenendo sufficiente un’adesione manifestata in modo diverso.

Quando l’accettazione non è conforme all’offerta, essa equivale ad una nuova proposta: come noto, il reciproco scambio di proposte formalmente o sostanzialmente (che introducano dunque modificazioni dal punto di vista economico o normativo) prende il nome empiricamente diffuso di trattativa.

Il contratto si conclude, di regola, nel momento in cui chi ha fatto la proposta viene a conoscenza dell’accettazione dell’altra parte, ma a tal proposito esiste un’eccezione rappresentata dal contratto concluso attraverso un comportamento concludente.

Qualora su richiesta del proponente o per la natura del contratto la prestazione deve essere eseguita immediatamente, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio la sua esecuzione. Tale modalità non costituisce una deroga al principio della bilateralità del consenso, in quanto la volontà di aderire al vincolo contrattuale si desume dal comportamento di colui che inizia l’adempimento della prestazione.

Il nostro ordinamento ammette, in una certa misura, il diritto di ripensamento (il cosiddetto ius poenitendi), che si traduce nella revoca delle dichiarazioni di proposta e accettazione, la quale può però avvenire solo fintantoché il contratto non sia stato concluso per effetto della regola contenuta nell’art. 1326 cod. civ.: la revoca della proposta sarà dunque efficace purché giunga a conoscenza dell’accettante prima che il proponente abbia conosciuto dell’accettazione e, parallelamente, la revoca dell’accettazione è efficace purché giunga a conoscenza del proponente prima dell’accettazione.

A tale regola fondamentale il legislatore aggiunge delle tipologie contrattuali per le quali, ai fini della conclusione del contratto stesso, non è sufficiente la concorde volontà delle parti validamente manifestata, ma è necessario un ulteriore atto di carattere materiale, vale a dire la consegna (cosiddetta traditio): tale distinzione si riflette nei contratti cosiddetti “reali” (tra cui si ricordano il mutuo e il pegno, ove la res viene fisicamente consegnata), in cui il consenso validamente manifestato risulta essere condizione necessaria ma non sufficiente per la conclusione del contratto, da quelli “consensuali”, per la cui conclusione è invece sufficiente lo scambio di dichiarazioni.
Ulteriori eccezioni al principio base stabilito dall’art. 1326 cod. civ. sono quelle costituite dalla disciplina in tema di vendita obbligatoria, sinteticamente riassumibili nelle seguenti ipotesi:  vendita di cose di genere, in cui la proprietà si trasferisce nel momento dell’individuazione, ossia nell’istante in cui il bene appartenente al genere viene specificamente determinato come oggetto della vendita stessa; la vendita di cosa altrui, in cui la proprietà si trasferisce nel momento in cui il venditore acquista la proprietà da un terzo; la vendita a rate, in cui il passaggio della proprietà si verifica con il pagamento dell’ultima rata; ed infine la vendita di cosa futura. In questo ultimo caso l’acquirente diventa proprietario del bene nel momento in cui la cosa viene ad esistenza. Se ad essere acquistata è la cosa sperata (c.d. emptio rei speratae), la vendita si configura come un contratto commutativo, per cui se la res non verrà ad esistenza, il contratto sarà nullo per l’assenza dell’elemento essenziale dell’oggetto ed il compratore, conseguentemente, non sarà tenuto a pagare il prezzo.

Se invece l’oggetto dell’acquisto è la speranza che il bene venga ad esistenza (c.d. emptio spei), la vendita si configurerà come un contratto aleatorio e da ciò consegue che se il bene non verrà ad esistenza, il compratore sarà obbligato a pagare il prezzo.

In definitiva, si può affermare che, al di là delle fattispecie sinteticamente ripercorse che derogano in modo più o meno incisivo dalla regola generale, il requisito dell’accordo rappresenta la perfetta estrinsecazione del principio di autonomia che governa l’ambito privatistico, all’interno del quale le parti sono libere di disciplinare le modalità di esecuzione del contratto (cosiddetta libertà normativa o regolamentare) e hanno la possibilità di attribuire all’oggetto dello stesso il valore economico che più ritengono opportuno per i loro interessi (cosiddetta libertà patrimoniale), sempreché, naturalmente, la volontà non sia viziata e che i soggetti avessero la capacità di agire al momento della stipulazione del contratto.

Il contratto, nella sua declinazione generale, è infatti considerato lo strumento che, in ambito orizzontale e quindi nella sfera che regola i rapporti all’interno della collettività dei consociati, attua in concreto il principio di libertà di iniziativa economica, tutelato a livello costituzionale dall’articolo 41, il quale non è inserito all’interno della sezione relativa ai principi fondamentali ma nella parte prima (Dei diritti e doveri dei cittadini), Titolo III (rapporti economici); tale collocazione, come è noto, rappresenta il frutto dell’accordo tra le tre diverse e contrapposte anime presenti in sede di Assemblea Costituente: quella liberale, di cui è espressione il comma I (libertà d’iniziativa economica); quella cattolica, di cui è espressione il comma II (l’utilità sociale e la tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana); e infine quella comunista/socialista di cui è espressione il comma III (cosiddetti limiti “positivi” alla libertà d’iniziativa economica).

Come tutte le libertà, anche quella contrattuale incontra limitazioni, le quali sono rappresentate da norme imperative e quindi inderogabili, principi di ordine pubblico, tutelanti interessi collettivi, e principi di buon costume, i quali esprimono il comune senso della morale in un determinato luogo e in un determinato periodo di tempo.

Il principio di autonomia contrattuale consente ai contraenti di essere parte di contratti atipici[2], ovvero accordi per cui il codice civile non prevede norme ad hoc e che le parti possono attuare importando, direttamente da esperienze giuridiche straniere, una figura che il nostro ordinamento non conosce, oppure combinando tra loro più parti di un contratto tipico per costruirne uno atipico. La giurisprudenza, per individuare la disciplina applicabile a tale fattispecie, ha elaborato la cosiddetta teoria dell’assorbimento o prevalenza della causa, per cui il giudice, sulla base della funzione che il contratto svolge deve, attraverso una valutazione comparativa, individuare quello che tra i contratti tipici svolge la medesima causa o causa affine, in modo tale da poter dirimere in modo uniforme le controversie che dovessero eventualmente sorgere dal contratto atipico creato dalle parti nell’esercizio della autonomia loro attribuita.

Tale libertà di ricorrere a contratti atipici incontra un limite, quello di dover realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Come si può evincere dalla sintetica panoramica di cui si è dato conto, la disciplina contrattuale generale, che presume un principio di “parità” di armi tra le parti paciscenti, postula quale pietra angolare del sistema la libertà delle parti in ordine alla conclusione dei contratti, inquadrati come principale veicolo di trasmissione delle ricchezze e prevalente motore degli scambi economici tipici dei sistemi occidentali – capitalistici.

2. Il requisito dell’accordo e il complesso rapporto tra principio di autonomia contrattuale e rapporto di lavoro

Alla luce di quanto sopra ricostruito non è difficile osservare l’oggettiva ed esistente difformità dell’ambito giuslavoristico rispetto alla generalità dei contratti come disciplinati all’interno del codice civile, sia da un punto di vista intrinseco, sia dal punto di vista della declinazione del principio di autonomia, sia per quanto riguarda le fonti normative poste alla base del suddetto accordo.

Si consideri che nell’epoca attuale appare impossibile non considerare l’origine contrattuale del rapporto di lavoro subordinato, in cui però la volontà manifestata dalle parti stipulanti è in larga parte eterodiretta (si veda amplius infra), a causa dell’inevitabile squilibrio di forza contrattuale esistente tra le parti del contratto di lavoro (in funzione del quale, ad esempio, il datore di lavoro può assumere provvedimenti di ‘giustizia privata’, esercitando il potere disciplinare, e può conformare la prestazione lavorativa del lavoratore, disponendo in significativa misura del suo tempo).

Da un lato, infatti, il contratto può affondare le sue radici nelle relazioni economiche della vita, diventando il mezzo utile per la realizzazione della libertà dei singoli e dei gruppi che perseguono i propri interessi; dall’altro, la realtà socio-economica conduce numerosi individui a porsi al servizio dell’altrui organizzazione aziendale, pur potendosi liberamente determinare da un punto di vista astratto / giuridico.

Il datore di lavoro, soggetto socialmente ed economicamente più forte (almeno secondo un luogo comune che trova frequentemente traduzione nella realtà), può imporre la sua volontà riguardo al trattamento economico e alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa senza che il lavorante, pure formalmente libero ed uguale, possa apporre una valida resistenza. L’autonomia individuale, quindi, è sempre stata relazionata ad una libertà contrattuale unilaterale esercitata dal datore di lavoro, a riprova della verità storica secondo la quale la libertà non è comunque fruibile nella stessa maniera e misura da ambedue i contraenti.

Il contratto individuale di lavoro funge, in ogni caso, da “fonte del rapporto”, in senso meramente costitutivo, pur rimanendo la disciplina quasi interamente dettata dall’esterno, cioè alimentata dai sistemi normativi regolatori, dalla presenza di un soggetto terzo, identificato con le rappresentanze sindacali, le quali sono incaricate, in modo collaborativo, di strutturare, in un sistema di economia di mercato, i rapporti intercorrenti tra i soggetti collettivi nell’ambito delle connessioni di produzione e lavoro.

Le relazioni sindacali si svolgono anzitutto sul terreno della prassi e soltanto in parte si lasciano catturare dalle regole giuridiche, le quali, dove esistono, rappresentano un mero tentativo di indirizzare su determinati percorsi i comportamenti degli attori collettivi. L’azione dei sindacati, la quale procede in una serie di modelli tipici e tuttavia variabili in relazione ai diversi contesti nazionali e momenti storici, presenta un dato costante, rappresentato dalla volontà di regolazione accorpata delle condizioni di lavoro che si realizza soprattutto tramite la stipulazione, in vari ambiti e a vari livelli, dei contratti collettivi.

Essi sono quindi stipulati tra le contrapposte associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, le quali non entrano nel contratto, formalmente, per se stesse in qualità di parti del contratto su cui si riverbereranno gli effetti (obbligatori) prodotti dal contratto stesso, ma per tutelare gli interessi dei soggetti che rappresentano, a cominciare, ovviamente, da quelli formalmente affiliati alle stesse.

Il contratto collettivo è considerato una fonte atipica o comunque una fonte fatto, i cui contenuti sono riconosciuti in anticipo dalle norme di legge, le quali prevedono in automatico deleghe alla contrattazione, come meri presupposti di fatto in vista del completamento delle fattispecie delineate da tali disposizioni.

La generale tutela degli interessi dei lavoratori rappresentati, propria della fonte collettiva e concretamente declinata in funzione delle specificità dei singoli settori, si articola una pluralità di diverse funzioni.

Le più classiche sono la funzione normativa, la quale detta le regole destinate a valere per una serie indeterminata di contratti individuali di lavoro subordinato rientranti nell’ambito di applicazione del contratto collettivo, e la funzione obbligatoria, la quale istituisce diritti e obblighi valevoli per e tra gli stessi soggetti collettivi, senza coinvolgere direttamente i singoli lavoratori.

Dalla prospettiva del datore di lavoro, la concezione privatistica comporta che se un’impresa non aderisce al sindacato di categoria firmatario del CCNL, non è tenuta, in linea astratta, ad applicare il medesimo, e, più ampiamente, che se un’impresa non è iscritta ad alcun sindacato non è tenuta ad applicare alcun CCNL.

La seconda implicazione è che, tra più contratti collettivi astrattamente applicabili, l’impresa  è tenuta ad impiegare quello stipulato dal sindacato al quale essa ha liberamente aderito, a prescindere dall’oggettiva attività svolta. In sostanza, l’inquadramento individuale della singola impresa in una data categoria è governato dal principio volontaristico, per cui, in teoria può darsi un inquadramento individuale non conforme al settore merceologico di appartenenza. Esiste in verità una disposizione di legge dell’articolo 2070 cod. civ. secondo la quale l’appartenenza alla categoria, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore, ma è ormai dato acquisito che tale norme riflette l’impostazione corporativa e deve ritenersi a tutti gli effetti abrogata.

Dalla prospettiva del lavoratore, analogamente, il regime privatistico dovrebbe comportare che, al fine di applicare il contratto collettivo al rapporto di lavoro che lo veda come parte, anch’egli dovrebbe essere iscritto al rispettivo sindacato firmatario di tale accordo collettivo.

A partire dalla descritta situazione di base, la giurisprudenza ha introdotto correttivi fondamentali, finalizzati all’estensione dell’efficacia soggettiva del CCNL al di là della cerchia degli imprenditori e dei lavoratori sindacalmente affiliati, tra i quali il superamento della necessità di una duplice affiliazione sindacale, dell’impresa e del lavoratore[3];  va da sé che la finalità di tale orientamento giurisprudenziale risiede proprio nell’esigenza di ridurre ogni possibile spazio di autonomia contrattuale “generale” in capo alle parti, facendo sì che, a prescindere da ogni eventuale affiliazione sindacale, il lavoratore subordinato, ossia la ‘parte debole’ del rapporto, possa astringersi ad un vincolo i cui lineamenti essenziali (non ultimo la retribuzione) siano già stati determinati aliunde con dei meccanismi idonei a garantire il dettato costituzionale di cui all’art. 36, che esprime il principio di sufficienza (e proporzionalità) della retribuzione.

Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, come precedentemente accennato, è costituito da una parte normativa, in cui sono indicati i criteri generali di gestione del rapporto di lavoro tra cui la maturazione degli scatti di anzianità, delle ferie e dei permessi, la durata del periodo di prova e del periodo di preavviso, il trattamento economico normativo connesso ad assenze indipendenti dalla sfera di controllo del lavoratore come malattia ed infortunio, o ancora l’inquadramento dei lavoratori in riferimento alla mansione svolta; è presente altresì una parte economica, dedicata alla retribuzione dei lavoratori in corrispondenza della mansione cui sono adibiti e del conseguente livello di inquadramento.

Da tale osservazione deriva una conseguenza logica fondamentale, in base alla quale, in ambito giuslavoristico, le parti del contratto (lavoratore e datore di lavoro) non si accordano autonomamente in merito alle condizioni del rapporto di lavoro né soprattutto rispetto al suo elemento essenziale, la retribuzione pattuita (almeno per quanto riguarda il minimo contrattuale), ma sono obbligate a rispettare quanto stabilito dai CCNL, per cui, a differenza della sfera privata, il requisito dell’accordo in senso stretto sembra difettare, anche e soprattutto, come detto, sull’aspetto (tecnicamente l’oggetto del contratto ex artt. 1346 ss. cod. civ.) di maggiore interesse per le parti, ossia la valutazione economica delle prestazioni dedotte in contratto.

Nello specifico, tra gli elementi fissi della retribuzione è presente la paga base (o minimo contrattuale), la quale è stabilita dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro ed individua il compenso minimo, dunque inderogabile in peius, stabilito in egual misura per i lavoratori con pari qualifica e pari livello di inquadramento.

Generalmente gli importi sono determinati con riferimento ad un periodo mensile e frazionati ad ora o a giornata in base a divisori convenzionalmente previsti. Oltre agli elementi fissi, si possono trovare, all’interno della fattispecie retributiva, voci aggiuntive, la cui apposizione ha natura meramente accessoria ed è dunque rimessa autenticamente alla libera determinazione delle parti.

Tra essi si riconosce il superminimo[4], ovvero una quota di retribuzione che il datore di lavoro ed il lavoratore concordano direttamente all’atto dell’assunzione, o durante il corso del rapporto, e che non deriva da fonti esterne quali la contrattazione collettiva.

Esso può essere riconosciuto a livello individuale o collettivamente per tutti i dipendenti dell’impresa e la caratteristica di tale elemento accessorio è quella di determinare un aumento dell’importo totale della retribuzione lorda, oltre al fatto che può essere assorbibile o non assorbibile.

Nel primo caso vi è la possibilità in capo al datore di lavoro di compensare un incremento retributivo derivante da qualsiasi fonte con quella parte di retribuzione che le parti hanno congiuntamente definito come assorbibile. Mentre gli aumenti retributivi derivanti da fonti collettive non possono essere mutati, quelli liberamente pattuiti tra le parti possono essere ridotti in misura corrispondente alla progressiva crescita di un’altra voce retributiva.

Il superminimo non assorbibile rappresenta, invece, un aumento di merito o ad personam ed è onere del lavorante dimostrare che le parti abbiano attribuito all’eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla eccezionale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente.

Peraltro, proprio al momento di revisione del presente documento, è stato approvato al senato il disegno di legge contenente “Norme in materia di parità retributiva tra donne e uomini e di sostegno alle madri lavoratrici“, che all’art. 5 prevede l’istituzione di sgravi contributivi in favore delle imprese che documentino di aver raggiunto un’uniformità retributiva tra i lavoratori uomini e le lavoratrici donne all’interno dell’impresa: considerando che, sulla scorta di tutte le riflessioni svolte, la retribuzione minima inderogabile in peius è già stabilita da una fonte eteronoma (il CCNL) ed è uniforme per tutti, va da sé che la parità retributiva sarà raggiunta solo attraverso la pattuizione di elementi individuali (superminimi) di pari livello a prescindere dal genere del/della dipendente.
Sarà interessante, una volta entrata in vigore la norma, osservare i contributi dottrinali relativi alle evoluzioni della nozione di accordo, atteso che anche in questo caso sembra potersi sottolineare una seppur lieve compressione del principio di autonomia privatistica con finalità di tutela e garanzia.

3. Le diverse funzioni della forma del contratto nella disciplina generale e nella normativa giuslavoristica

Un’ulteriore ed evidente distinzione tra la normativa generale disciplinata dal codice civile in ambito contrattuale e quella osservata in ambito giuslavoristico è rappresentata dal requisito della forma, ossia tecnicamente la modalità attraverso cui le parti palesano la propria volontà contrattuale.

Il principio generale del moderno sistema dei contratti è quello della libertà delle forme, tanto che gli accordi possono risultare da dichiarazioni espresse o essere, invece, taciti: è sufficiente, perché il contratto sia valido e produttivo di effetti giuridici, che la volontà delle parti si sia manifestata, qualunque sia il modo o la forma della sua espressione, superando l’antico formalismo dei contratti ed assecondando le esigenze di massima circolazione e di massima produzione della ricchezza.

Il favore legislativo è per la conclusione, e non per la mancata conclusione, degli affari; ed è per la rapidità delle contrattazioni. La legge vuole che i beni circolino e che le obbligazioni sorgano: quanto più e quanto più rapidamente la ricchezza circola, e quante più prestazioni vengono eseguite, tanto maggiore è il contributo che ne deriva allo sviluppo economico complessivo, alla prosperità generale.

La forma scritta e, ancor più, la forma solenne costituiscono, invece, un intralcio alla conclusione del contratto e un freno che rallenta la rapidità delle contrattazioni. Per la circolazione dei beni mobili queste esigenze sono protette in massimo grado: la moderna società capitalistica si basa, essenzialmente, sulla circolazione della ricchezza mobiliare (acquisto delle materie prime, vendita dei prodotti finiti).

A questo generale principio fanno eccezione i contratti immobiliari, ovvero quelli che trasferiscono la proprietà o altri diritti reali su beni immobili o che costituiscono o modificano o estinguono diritti reali su questi beni, nonché le locazioni di beni immobili stipulate per una durata superiore a nove anni. In questa specifica situazione, tali contratti debbono, a pena di nullità, essere conclusi in forma scritta, la quale può consistere in un atto pubblico o in una scrittura privata, fondamentali per formare il titolo per la trascrizione del contratto nei registri immobiliari (art. 1350 cc).

Nella sfera del diritto del lavoro la conclusione di un contratto subordinato richiede una mutua e libera espressione di consenso, che può aversi, nella pratica, in vari modi. La stragrande maggioranza dei contratti di predetta fattispecie è stipulata per iscritto, benché, per quanto riguarda la tipologia standard di tale accordo, non siano richiesti requisiti di forma scritta, né ad substantiam ad probationem[5].

Tale forma è invece obbligatoria, e quasi sempre ad substantiam, nei contratti di lavoro subordinato non standard o atipici, e ciò a fini di garanzia per il lavoratore, che deve essere reso edotto della riduzione di diritti, o comunque della diversità di disciplina che si ha in questi rapporti, e quindi ciò che deve risultare per iscritto è la parte del contratto che realizza la deviazione dalla disciplina tipica, che per sua stessa natura è finalizzata alla tutela della “parte debole” del contratto.

Un primo esempio di quanto descritto è rappresentato dalla clausola di prova, la quale, come previsto dalla norma 2096 cod. civ. può essere apposta al contratto di lavoro nella fase iniziale della sua esecuzione.

La durata del periodo di prova è prevista, normalmente, dai contratti collettivi nazionali di categoria (ma entro un massimo legale di sei mesi) e la sua funzione tipica è quella di consentire ad entrambe le parti di valutare il reciproco ‘gradimento’: al datore di lavoro, cui preme in modo particolare, per effetto dell’ampia libertà di licenziamento che comporta, esso permette di valutare l’attitudine professionale del lavoratore; a questi, a propria volta, la prova dà modo di sperimentare le proprie capacità e di valutare il tipo di lavoro e l’ambiente. Il maggior tratto di specialità della disciplina del lavoro in prova é costituita dal regime del licenziamento, che rappresenta un’eccezione alla regola del giustificato motivo, contemplando la facoltà di recesso ad nutum[6], senza obblighi di preavviso, per entrambe le parti, ma ciò purché il periodo di prova non si sia protratto per più di sei mesi.

Un altro caso che fa riferimento alla necessità della forma scritta è rappresentato dall’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato: costituendo infatti il lavoro a tempo indeterminato il la modalità ‘normale’ di rapporto di lavoro, va da sé che il contratto a tempo determinato rappresenti una deviazione dalla norma, e, per effetto dei riverberi negativi che è suscettibile di causare sul lavoratore (in tema di maggior precarietà, minor facilità di accesso al credito eccetera), richiede la forma scritta, in assenza della quale il contratto si riterrà ope legis a tempo indeterminato.

Unica deroga al principio di necessità della forma scritta per i rapporti a termine si rinviene solamente per quelli aventi di durata puramente occasionale, comunque non superiore ai dodici giorni. Qualora il contratto sia stipulato sin dall’inizio per un periodo di tempo superiore ai dodici mesi, l’indicazione per iscritto deve riguardare anche la causale (ossia la ragione di natura tecnica – organizzativa che giustifica il ricorso al lavoro a termine nei casi la cui apposizione è prevista dalla legge).

Un ulteriore esempio, relativo all’esigenza della forma scritta ma soltanto ad probationem, concerne la fattispecie del contratto a tempo parziale. Qualora il datore di lavoro non riesca a fornire tale prova, sulla base delle medesime argomentazioni svolte in relazione al contratto a tempo determinato, si prevede non la radicale nullità dell’accordo bensì che il rapporto di lavoro sia dichiarato a tempo pieno, fermi restando, per il periodo anteriore alla data della pronuncia, i diritti alla retribuzione e al versamento dei contributi previdenziali dovuti ma limitatamente alle prestazioni effettivamente rese.

Anche per la disciplina dell’apprendistato è previsto un requisito di forma scritta, ma soltanto ai fini della prova del contratto, il quale deve contenere, in forma sintetica, il piano formativo individuale, nel quale viene definito, anche sulla base di moduli e formulari previsti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali, il programma di formazione da seguire.

4. Conclusioni

Come si è visto, il diritto dei contratti e il diritto contrattuale del lavoro perseguono finalità radicalmente diverse: in un caso prevale la visione macroeconomica volta alla moltiplicazione degli scambi e alla circolazione delle ricchezze, mentre nell’altro prevalgono le esigenze protezionistiche della parte debole.

Tali finalità vengono perseguite attraverso l’approntamento di normative differenti sotto tutti i profili: sotto il profilo sostanziale, con l’istituzione in un caso di norme indirizzate alla speditezza e nell’altro alla creazione di vincoli; sotto il profilo estintivo, con una regolamentazione del recesso che in un caso può risolversi nella mera attribuzione di un diritto potestativo ovvero nella previsione del mutuo consenso in ordine alla cessazione degli effetti del contratto, laddove invece nel diritto del lavoro vengono posti numerosi limiti alla facoltà di una delle parti (id est: il datore di lavoro) di recedere unilateralmente dal contratto, dovendo tale fuoriuscita sussumere a una serie di vincoli stabiliti dalla stratificazione normativa (iniziata con la legge n. 604/1966) in tema di giustificato motivo e giusta causa; sotto il profilo formale, con l’introduzione nel diritto del lavoro di una serie di vincoli formali in larga parte assenti nella disciplina generale; e infine con una diversa concezione del principio di autonomia contrattuale, che nella normativa codicistica viene largamente incoraggiata, mentre nella materia giuslavoristica viene compressa al punto di lasciare che il puro accordo tra le parti venga demandato, nei suoi contenuti essenziali, ad un soggetto esterno al regolamento contrattuale.

Occorre notare come tale divaricazione normativa, già abbondantemente riconosciuta, sia destinata, in ragione della progressiva estensione dei diritti sociali, ad aumentare negli anni e nei decenni a venire, spostando sempre più in là la linea di confine tra le ragioni dell’autonomia e quelle della tutela e del benessere collettivo.

 

 

 

 

 


[1] Avvocato e consulente del lavoro in Milano; docente esterno presso Università degli Studi di Milano.
[2]Per quanto riguarda la disciplina relativa ai contratti atipici si veda quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 2665 del 1980, ove si esprime quanto segue: “Un contratto può considerarsi atipico non in relazione alle particolarità del suo oggetto o alla limitata frequenza statistica della sua stipulazione, ma solo in relazione alla non perfetta identità della sua causa con quella normalmente prevista e disciplinata dal diritto positivo”.
[3]Riccardo Del Punta, Diritto del lavoro, dodicesima edizione, p. 251, ove si legge la seguente considerazione: “E’ sufficiente l’iscrizione dl datore di lavoro al sindacato di categoria firmatario del CCNL, affinché questo possa essere invocato anche dal lavoratore non iscritto. L’affiliazione sindacale dell’impresa diviene, in atre parole, la condizione necessaria e sufficiente affinché il lavoratore, benché personalmente non iscritto, possa richiedere, aderendo al contratto collettivo, l’applicazione dello stesso. Ciò a prescindere dal fatto di esperienza che, di solito, un’impresa iscritta applica spontaneamente il CCNL a tutti i lavoratori, senza fare distinzione (anche per evitare complicazioni gestionali) tra iscritti e non iscritti.
[4]Per quanto riguarda la disciplina relativa al superminimo si veda quanto affermato dalla Corte di Cassazione, sez. lav., con sentenza n. 19750 del 2008, ove si esprime quanto segue: ”Il cosiddetto superminimo, ossia l’eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari, che sia stato individualmente pattuito, è normalmente soggetto al principio generale dell’assorbimento nei miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva, tranne che sia da questa diversamente disposto, o che le parti abbiano attribuito all’eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansionisvolte dal dipendente e sia quindi sorretto da un autonomo titolo, alla cui dimostrazione, alla stregua dei principi generali sull’onere della prova, è tenuto lo stesso lavoratore”.
[5] In riferimento alla disciplina della fattispecie della forma ad substantiam e di quella ad probationemsi veda quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 772 del 1965e con sentenza n. 4431 del 2017: “La forma scritta, mentre quando è richiesta ad substantiam, costituisce un elemento essenziale del negozio giuridico, il quale perciò non è valido se non è espresso in quella forma, quando, invece, è richiesta ad probationem, la sua mancanza importa solo una limitazione sul terreno della prova. Quando, per l’esistenza di un determinato contratto, la legge richieda, a pena di nullità, la forma scritta (nella specie, contratto costitutivo di enfiteusi), alla mancata produzione in giudizio del relativo documento non può supplire il deposito di una scrittura contenente la confessione della controparte in ordine alla pregressa stipulazione del contratto de quo, nemmeno se da essa risulti che quella stipulazione fu fatta per iscritto”.
[6]La predetta formula latina, il cui significato letterale è rappresentato da “con un cenno del capo”, indica il potere spettante alle parti di sciogliere il contratto a proprio piacimento, cioè manifestando la loro volontà risolutoria(il cenno sta proprio ad indicare un semplice atto di volontà).  Tale potere, peraltro, ha subito notevoli limitazioni nel campo dei rapporti di lavoro ove la libera recedibilità del datore di lavoro è condizionata dalla disciplina garantista in materia di licenziamento.

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Luigi Antonio Beccaria è nato a Melzo nel 1990. Laureato in Scienze Politiche e Giurisprudenza, è avvocato e consulente del lavoro. La sua principale area di attività è quella giuslavoristica, che esercita presso lo Studio Elit S.a.s. di Melzo, ove esercita l'attività di consulente del lavoro (iscritto all'albo di Milano al n. 2659) e presso lo Studio Legale Camilletti a Milano, ove ha svolto la pratica forense. Collabora da anni con la cattedra di Diritto Privato e con la cattedra di Diritto del Lavoro rispettivamente nelle facoltà di Scienze Politiche e di Economia e Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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