Il silenzio inadempimento con riguardo agli atti amministrativi generali

Il silenzio inadempimento con riguardo agli atti amministrativi generali

Per ‘’silenzio amministrativo’’ si intendono tutte quelle ipotesi nelle quali all’inerzia della pubblica amministrazione viene fatto conseguire un dato risultato, attribuendo al silenzio uno specifico significato.

Accanto alle ipotesi di silenzio significativo si collocano quelle c.d. di ‘’silenzio inadempimento’’: qui l’inerzia della amministrazione integra la violazione di uno specifico obbligo di legge, in base al quale essa è tenuta a rispondere alla richiesta del privato mediante l’adozione di un provvedimento espresso entro i termini di durata massima del procedimento amministrativo.

Secondo la legge, in particolare, le amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali sono obbligati a concludere i procedimenti di propria competenza, in assenza di un diverso termine fissato dalla legge o dalle stesse amministrazioni competenti, entro trenta giorni dall’avvio del procedimento.

In caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunciarsi, l’istante ha diritto di ottenere il pagamento di un indennizzo da mero ritardo, salva la possibilità di agire per il risarcimento del danno nel caso in cui il ritardo sia dovuto a colpa dell’amministrazione.

La mancata emanazione dell’atto nei termini costituisce, inoltre, elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e contabile del dirigente e del funzionario inadempiente. A tal fine, l’art. 2 della l. n. 241 del 1990 prevede la possibilità di trasmettere alla Corte dei Conti tutte le sentenze che accolgono il ricorso avverso il silenzio inadempimento, nonché l’obbligo di comunicazione per quelle passate in giudicato.

Sussiste il c.d. ’’silenzio inadempimento’’, dunque, tutte le volte in cui la p.a. abbia violato l’obbligo di provvedere alla richiesta del privato mediante l’emanazione di un atto espresso, e debba pertanto considerarsi come inadempiente.

In tali ipotesi è consentito al privato, interessato all’emanazione dell’atto omesso, adire il giudice al fine di ottenere l‘accertamento dell’illegittimità della condotta della p.a. e la  conseguente declaratoria dell’obbligo di provvedere.

La tutela avverso il silenzio inadempimento è prevista dagli artt. 31 e 117 c.p.a., secondo i quali, decorsi i termini di durata massima del procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento in capo alla p.a. dell’obbligo di provvedere; l’azione è esperibile finché dura l’inerzia della p.a. e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per provvedere, scaduto il quale il privato potrà eventualmente riproporre l’istanza alla p.a. e, in caso di nuovo contegno omissivo, esercitare una nuova azione avverso il silenzio.

Come previsto espressamente dall’art. 31 c.p.a., in sede di giudizio avverso il silenzio inadempimento il giudice può conoscere della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratti di attività vincolata, ovvero non residuino ulteriori margini di discrezionalità e non siano necessari ulteriori adempimenti istruttori.

Deve dunque escludersi la possibilità del giudice di valutare la fondatezza dell’istanza in presenza di attività discrezionale c.d.’’pura’’, non essendo a questi consentito di stabilire l’an o il quomodo del provvedimento da adottare.

Sulla stessa linea d’onda si pone anche l’esclusione del potere del giudice amministrativo di valutare la fondatezza dell’istanza del privato nel caso in cui siano necessari ulteriori adempimenti istruttori, in quanto in tale ipotesi il sorgere della situazione soggettiva che si vuole conseguire è strutturalmente condizionato alla formazione di atti e provvedimenti non ancora esistenti o all’effettuazione di valutazioni discrezionali non ancora compiute.

Ai sensi dell’art. 133 c.p.a., sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge, le controversie in materia di silenzio di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a. e di provvedimenti espressi adottati in sede di verifica di segnalazione certificata, denuncia e dichiarazione di inizio attività.

Secondo alcuni la norma avrebbe così coniato una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, relativa a tutte le ipotesi di silenzio rifiuto.

Contro tale interpretazione si pone però l’orientamento giurisprudenziale predominante, secondo il quale la competenza del giudice amministrativo in tema di silenzio rifiuto sussiste solo ed esclusivamente in relazione alle pretese sulle quali egli abbia la propria giurisdizione.

Secondo tale concezione, in particolare, qualora il privato deduca la lesione di un diritto soggettivo ad opera di un comportamento inerte della p.a., la sua pretesa andrebbe tutelata davanti al giudice ordinario a mezzo di una normale azione di accertamento.

L’art. 133 c.p.a., infatti, va letto in combinato disposto con il richiamo, effettuato dalla medesima disposizione, ai provvedimenti espressi in materia di s.c.i.a. e d.i.a.: la nuova norma, pertanto, non prevederebbe una nuova materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma si limiterebbe ad affermare che nelle materie di avvio mediante denuncia o segnalazione, tale giurisdizione investirebbe sia le ipotesi di cattivo uso del potere inibitorio e sanzionatorio della p.a., sia i casi in cui esso non venga esercitato.

Come previsto dall’art. 117, comma 5, c.p.a., se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l’intero giudizio prosegue con tale rito.

Ai sensi dell’art. 2 bis della l. n. 241 del 1990, le pubbliche amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza della inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Secondo la lettera delle legge, si osserva, il risarcimento del danno è quindi strettamente legato all’inosservanza del termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento, mentre risulta indipendente dalla fondatezza sostanziale della pretesa avanzata dal privato.

Per la giurisprudenza, tuttavia, il risarcimento del danno non può essere la conseguenza ineluttabile di ogni violazione del termine, in quanto il riferimento all’ingiustizia del danno comporta la necessità di verificare di volta in volta se il privato sia effettivamente meritevole di tutela. Il risarcimento del danno, in particolare, può essere negato nel caso in cui costui abbia presentato un’istanza palesemente infondata e ove di tale infondatezza egli sia o debba essere consapevole.

Sul piano della quantificazione, il danno da mero ritardo è risarcito secondo criteri differenti a seconda che sia o meno collegato alla spettanza da parte del privato del provvedimento richiesto.

Nel caso in cui, infatti, il danno da ritardo non sia collegato alla spettanza del bene della vita finale, esso sarà risarcibile secondo il parametro dell’interesse contrattuale negativo, in base al quale si devono prendere in considerazione le altre possibilità di guadagno che si sarebbero concretizzate se il privato non avesse atteso la risposta oltre il termine legale.

Al contrario, quando il danno da ritardo sia qualificato dalla dimostrazione della fondatezza sostanziale della pretesa del privato, allora esso dovrà essere parametro all’utilità che quel provvedimento richiesto, se tempestivamente ottenuto, avrebbe assicurato e, quindi, al coefficiente dell’interesse contrattuale positivo.

Accanto al diritto al risarcimento del danno, si colloca quello al pagamento di un  mero indennizzo nel caso in cui il ritardo non sia dovuto a dolo o colpa dell’amministrazione: ai sensi dell’art. 2 bis della l. n. 241 del 1990, infatti, fatto salvo quanto previsto dal comma 1 ed a esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunciarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo; in tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.

Il ricorso volto a far valere la responsabilità per inadempimento della p.a. va proposto con atto notificato alla p.a. e ad almeno un controinteressato; il procedimento si svolge in camera di consiglio e viene deciso, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, con sentenza in forma semplificata.

In caso di accoglimento del ricorso, il giudice ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore generalmente a trenta giorni; in alternativa, il giudice può – con la sentenza che definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata – nominare un commissario ad acta che provveda in luogo dell’amministrazione.

In alternativa al ricorso giurisdizionale, tuttavia, l’art. 2 della l. n. 241 del 1990 consente al privato di rivolgersi al dirigente della p.a. rimasta inerte, individuato dall’organo politico tra le figuri apicali della amministrazione, onde ottenere da quest’ultimo la conclusione del procedimento avviato con la sua istanza entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto.

Allo scopo di scongiurare ritardi nell’individuazione del soggetto responsabile, la disposizione prevede che in caso di omessa individuazione di quest’ultimo, il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale, al dirigente preposto all’ufficio ovvero al funzionario di più elevato livello presente nella p.a.

Tanto premesso, posto che la nozione stessa di ‘’silenzio inadempimento’’ presuppone la sussistenza in capo alla p.a. di un obbligo di provvedere, occorre ora chiarire quando effettivamente tale obbligo possa considerarsi esistente.

L’obbligo di provvedere della p.a. sussiste, sostanzialmente, in tutte le ipotesi in cui una specifica norma attribuisce espressamente al privato il potere di presentare un’istanza: in tali casi, si dice, il legislatore prende atto della sussistenza in capo al richiedente di una posizione giuridica differenziata.

Anche in mancanza di una specifica norma attributiva del potere di presentare istanza, tuttavia – sottolinea la giurisprudenza – è possibile che il privato si trovi nella posizione giuridica di pretendere dall’amministrazione l’emanazione di un dato atto e sia dunque titolare nei confronti di questa di un interesse pretensivo.

L’obbligo di provvedere, per contro, deve certamente ritenersi escluso con riferimento ai comportamenti materiali, nonché a fronte di pretese illegali, manifestamente infondate o non accoglibili per motivi formali o pregiudiziali.

Quanto alla categoria di atti avverso i quali tale obbligo può considerarsi sussistente, la giurisprudenza esclude gli atti normativi, come i regolamenti, e gli atti amministrativi generali, come per esempio i bandi di concorso, stante l’impossibilità – afferma il Collegio – di individuare specifici destinatari degli atti in questione in capo ai quali possa radicarsi una posizione giuridica qualificata e differenziata definibile come di interesse legittimo.

Secondo quanto ritenuto dal giudice amministrativo, in particolare, sebbene il mero carattere regolamentare o generale dell’atto di cui si invoca l’adozione non precluda sul piano testuale l’operatività del rito avverso il silenzio, occorre tuttavia osservare che, a causa del rivolgersi di tali atti ad una pluralità indifferenziata di destinatari, non  preventivamente individuabile, risulta particolarmente complessa l’individuazione dei requisiti della legittimazione e dell’interesse ad agire in capo a chi si attivi per l’adozione di tali provvedimenti.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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