Interesse legittimo e tutela cautelare

Interesse legittimo e tutela cautelare

Per interesse legittimo si intende la posizione giuridica soggettiva che attribuisce al privato poteri e facoltà, procedimentali e processuali, idonei a controllare il corretto esercizio del potere della p.a., al fine di ottenere o tutelare un bene della vita.

L’interesse legittimo non aveva cittadinanza nel nostro ordinamento, infatti, il precedente sistema, fondato sull’art. 2 LAC (legge 2248/1865 all. E), riconosceva al GO la sola disapplicazione degli atti amministrativi lesivi di diritti soggettivi e l’eventuale risarcimento del danno provato. Disapplicazione che lungi dall’eliminare definitivamente l’atto illegittimo, si limitava a considerarlo tamquam non esset con riferimento alla controversia in corso.

Da ciò, ne conseguiva un significativo vuoto di tutela per le posizioni diverse dal diritto soggettivo. Solo con la leggi Crispi (legge n. 5992 del 1889) si affermò la giustiziabilità dinanzi al GA degli interessi legittimi, sottoforma di annullabilità del provvedimento illegittimo.

Tale assunto ha, altresì, trovato conferma nel dettato Costituzionale, in particolare agli artt. 24, 103 e 113 Cost. volti ad enunciare il principio di effettività della tutela.

A fronte di un processo amministrativo di tipo attizio, basato essenzialmente sulla sola tutela caducatoria, analogamente anche la tutela cautelare si fondava su un’unica forma di tutela, ovverosia la sospensione dell’atto impugnato.

Tale modus operandi non poneva problemi di sorta per gli interessi legittimi oppositivi che, producendo effetti positivi per il ricorrente, potevano essere sospesi in sede cautelare.

Ex adverso, la tutela cautelare iniziava a presentare criticità in materia di interessi legittimi pretensivi dal momento che la sospensione di un atto di diniego non produce benefici immediati, ovvero non comporta l’attribuzione del bene della vita cui il privato aspira.

Proprio al fine di colmare tali vuoti di tutela, nonché al fine di liberare la tutela cautelare dalla gabbia della tipicità, la giurisprudenza fece ricorso ad un escamotage distinguendo gli atti negativi, in senso improprio dagli atti negativi, veri e propri.

Gli atti negativi in senso improprio sono atti di diniego idonei a produrre in capo al privato un obbligo di attivarsi avvicinandosi, pertanto, a quelli positivi e dunque sospendibili (si pensi, a titolo esemplificativo, alla richiesta di esonero dal servizio militare).

Gli atti negativi veri e propri producono un effetto preclusivo per il privato in ordine all’attività che intende svolgere e sono sospendibili mediante l’autorizzazione o l’ammissione con riserva.

Il Legislatore dinanzi ai suddetti tentativi giurisprudenziali volti ad estendere l’ambito della tutela cautelare non rimase inerte, infatti, consapevole anche del mutamento del procedimento amministrativo – da processo attizio a quello sul rapporto –  modificò, con legge n. 205 del 2000, l’art. 21 l. Tar ampliando in maniera esponenziale l’armamentario della tutela de qua.

Si abbandonò la secolare equazione “tutela cautelare = sospensiva”, riconoscendo al privato la possibilità di domandare tutte “le misure più idonee” ad assicurare gli effetti della decisione di merito.

Ne consegue una palese implementazione dell’interesse legittimo in sede cautelare, del resto, confermata con l’avvento del codice del processo amministrativo.

A norma dell’art. 55, co. 1 c.p.a. “Se il ricorrente, allegando di subire un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso, chiede l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria, che appaiono, secondo le circostante, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, il collegio si pronuncia con ordinanza emessa in camera di consiglio”.

Dall’analisi letterale della disposizione succitata è possibile enucleare i presupposti di operatività dell’istituto.

In particolare, il Legislatore del 2010 riconosce alla tutela cautelare una veste atipica: le misure cautelari si differenziano in collegiali o monocratiche ovvero ante causam.

Per la misura cautelare collegiale (ex art. 55) è richiesto un pregiudizio grave ed irreparabile, per le misure monocratiche (ex art. 56) o ante causam (ex art. 61) è richiesta una situazione di estrema o eccezionale gravità ed urgenza.

La misura cautelare monocratica, infatti, consente al ricorrente, in caso di “estrema gravità ed urgenza”, tali da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera del consiglio, di chiedere al Tar la disposizione delle misura cautelari provvisorie.

La misura cautelare anteriore alla causa addirittura consente al soggetto legittimato, nei casi di “eccezionale gravità ed urgenza”, tali da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie con decreto presidenziale, di proporre istanza per l’adozione delle misure interinali e provvisorie che appaiono indispensabili durante in tempo occorrente per la proposizione del ricorso di merito e della domanda cautelare in corso di causa.

Trattasi, peraltro, di strumenti che garantiscono quanto sancito ex art. 1 c.p.a. ovverosia il  principio di effettività della tutela

Le misure de quibus si caratterizzano, altresì, per la necessaria sussistenza del periculum in mora e del fumus bonis iuris, nonché per la loro strumentalità e provvisorietà rispetto al giudizio di merito.

Ciò posto, non può non darsi atto che, ad oggi, l’assunto secondo il quale la tutela cautelare è il regno dell’interesse legittimo non è più una certezza.

In passato, non è mancato chi facendo leva sul non esplicito richiamo ex art. 55, co. 1 c.p.a. al fumus bonis iuris, alla stregua di quanto accade per il pregiudizio grave ed irreparabile, riconosceva nella tutela cautelare la sede dell’implemetazione dell’interesse legittimo.

In altri termini, si diceva che, mentre, nel giudizio di merito al fine di ottenere un provvedimento favorevole l’unico criterio preso in considerazione è la spettanza o meno del bene della vita. Di converso, nel giudizio cautelare al privato basterà allegare il solo “pregiudizio grave” a fronte del quale potrà ottenere tutte “le misure più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione di merito”.

E’ ovvio che, in questo modo, l’interesse legittimo sia esso oppositivo o pretensivo, in sede cautelare, trova un riconoscimento certamente superiore rispetto a quello fornito nel merito.

Senonchè non è mancato chi ha fatto notare come il fumus bonis iuris, lungi dall’essere “assente” al co. 1 art. 55 c.p.a., è insito nella locuzione “circostanze idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”; e, richiamato, del resto anche al successivo co. 9 a mente del quale “l’ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato e indica i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso”.

Vi è di più. L’interesse legittimo subirebbe – recte subisce – un ridimensionamento nei riti speciali, si pensi agli artt. 119 e 120 c.p.a., a fronte dei quali il giudizio di merito è talmente rapito che fa perdere linfa vitale alla tutela cautelare.

Mediante tali riti è data al ricorrente la possibilità di ottenere un giudizio definitivo in breve tempo a fronte di uno provvisorio dal momento che, come detto, la tutela cautelare assicura solo “interinalmente” gli effetti della decisione di merito.

E’ questo un primo segnale tendente a restringe l’ambito applicativo della tutela cautelare, nonché lo spazio che, grazie alla stessa, aveva acquisito l’interesse legittimo.

Conferma di quando detto è stato, da ultimo, valorizzato dall’ Adunanza Plenaria n. 5 del 2015 che chiamata a pronunciarsi sulla bilateralità o meno della tutela cautelare, ha superato il tradizionale orientamento “restrittivo” secondo il quale il pregiudizio è solo unilaterale, ovvero riferibile al privato, sposando l’orientamento più avanguardista secondo il quale il processo amministrativo non può ignorare l’interesse pubblico qualificato, dallo stesso Supremo Consesso, “convitato di pietra del processo amministrativo”.

Il Legislatore, nonostante, ex art. 55 c.p.a. faccia riferimento solo al ricorrente, l’interesse pubblico assume rilevanza in ogni processo amministrativo, sicchè il pregiudizio deve essere inteso come bilaterale, potendo incidere tanto sull’interesse privato quando su quello pubblico.

Non è un caso che lo stesso Legislatore ha espressamente previsto che in determinati casi  l’interesse privato debba essere bilanciato con quello pubblico, aderendo così alla teoria del pregiudizio bilaterale.

E’ il caso dell’art. 125 co. 2 c.p.a. il quale dispone che ai fini dell’accoglimento della domanda cautelare, il giudice deve bilanciare la pretesa con il “preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera”.

Ne consegue che, ogniqualvolta quest’interesse prevalga, la tutela cautelare non potrà essere concessa, salvo la possibilità di far valere le proprie ragioni in sede di merito.

Il privato, infatti, potrà attenere esclusivamente una tutela per equivalente e non anche quella in forma specifica propria del provvedimento cautelare.

Analogo bilanciamento è richiesto all’art. 120, co. 8 ter c.p.a. il quale impone al giudice ai fini della decisione cautelare di “tiene conto dell’esigenze imperative connesse a un interesse generale all’esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione”.

De iure condito, dinanzi a norme che codificano un bilanciamento degli interessi la tutela cautelare nonché l’interesse legittimo da sempre valorizzato dalla stessa subisce, recte sta subendo, un clamoroso ridimensionamento.


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