Italia e danni punitivi: una storia burrascosa

Italia e danni punitivi: una storia burrascosa

Sommario: Introduzione – 1. Uno sguardo oltreoceano: l’esempio degli U.S.A – 2. L’esperienza italiana – 2.1. Corte di Cassazione, sentenza n. 1183/2007 – 2.2. Corte di Cassazione, sentenza n. 11353/2010 – 2.3. Corte di Cassazione, sentenza n. 8730/2011 – 2.4. Corte di Cassazione, sentenza n. 1781/2012 – 2.5. Corte di Cassazione, sentenza n. 7613/2015 – 2.6. Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria di rimessione alle SS.UU. n. 9978/2016 – 2.7. Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza n. 16601/2017

 

 

Introduzione

I danni punitivi sono un istituto tipico dei sistemi di common law, operante nell’ambito della responsabilità civile. Trattasi di un rimedio in forza del quale un soggetto, condannato ad un risarcimento del danno nei confronti di un altro per aver posto in essere una condotta illecita connotata da malice (assimilabile alla nostra concezione di dolo) o gross negligence (colpa grave), può vedersi condannare, altresì, al pagamento di un’ulteriore somma, eccedente il mero quantum del pregiudizio arrecato. La comminatoria di tale importo addizionale, pertanto, esula da una funzione prettamente compensatoria, rivestendo – al contrario – un ruolo deterrente-afflittivo tipico delle sanzioni di natura penale. Esso, dunque, non mira semplicemente a riequilibrare la situazione tra le parti della controversia ripristinando lo status quo ante, bensì persegue l’ulteriore finalità di scoraggiare il danneggiante stesso – e, in generale, la collettività – dal reiterare condotte simili a quelle oggetto di condanna, annullando in tal modo il fascino esercitato dalla realizzazione di eventuali profitti mediante il compimento di illeciti.

1. Uno sguardo oltreoceano: l’esempio degli U.S.A.

Ai fini di una miglior comprensione della materia, particolare attenzione merita l’esperienza statunitense, ove la natura afflittivo-sanzionatoria dei punitive damages è stata oltremodo esaltata, tanto da rendere necessario un processo di costituzionalizzazione dell’istituto.

Un passo decisivo in tale direzione è stato rappresentato dal noto caso BMW of North America inc. v. Ira Gore. La controversia prendeva le mosse dalla vicenda del Signor Gore, il quale, alcuni mesi dopo aver acquistato in Alabama nel 1990 un’autovettura BMW per $ 40.000,00, si rivolgeva ad un carrozziere per alcune modifiche e, in tale occasione, veniva informato del fatto che il veicolo era stato in precedenza già riverniciato. L’acquirente scopriva, così, che la macchina aveva subito dei danni prima della consegna da parte del produttore BMW al distributore e che, di conseguenza, essa era stata riverniciata. Non solo: la circostanza non rappresentava un unicum, bensì era giustificata dalla policy adottata da BMW. La società, invero, prevedeva che, qualora una vettura riportasse danni prima di essere venduta, nell’ipotesi in cui tali danni fossero quantificabili per un valore inferiore al 3% del valore complessivo della vettura stessa, quest’ultima potesse essere riparata e venduta come nuova. In sede di processo fu dimostrato che BMW aveva reiterato la medesima condotta negli Stati Uniti in circa 1.000 casi.

In primo grado, si ritenne che la policy di BMW configurasse una condotta fraudolenta e, pertanto, la giuria liquidò i compensatory damages in $ 4.000,00 e i punitive damages in $ 4.000.000,00 (dimezzati successivamente dalla Corte Suprema dell’Alabama). Una simile ingente somma venne giustificata alla luce della circostanza che, per poter essere considerato adeguato, il calcolo della sanzione avrebbe dovuto tenere necessariamente conto non tanto del valore del danno arrecato al singolo Signor Gore, bensì del numero totale di acquirenti che si trovassero in una situazione analoga a quella di quest’ultimo: $ 4.000,00 x 1.000,00 = $ 4.000.000,00.

Contrariata dalla decisione, la società promuoveva ricorso avanti la Corte Suprema, lamentando l’avvenuta violazione del XIV emendamento della Costituzione americana (“due process clause”), in considerazione della spropositata quantificazione dei danni punitivi. Tale emendamento impone che ogni processo debba essere “giusto”, affermando così un principio basilare che si estrinseca in una duplice direzione: sotto il profilo formale, implica la necessità che il processo decisionale rispetti il criterio di ragionevolezza; sotto il profilo sostanziale, sottende l’esigenza di assicurare che il contenuto della decisione stessa risulti coerente con l’impianto di giustizia e i criteri da esso affermati, evitando di incorrere in provvedimenti “grossly excessive”.

La Corte, pertanto, cristallizzò nella propria sentenza (20 maggio 1996) tre criteri – meglio noti come “i tre guideposts” – indispensabili ai fini della rispondenza del risarcimento punitivo al principio del “due process”: la proporzionalità rispetto alla gravità della condotta illecita; la necessità che il rapporto tra compensatory damages e punitive damages rispetti il criterio di ragionevolezza; l’opportunità che i punitive damages siano parametrati e commisurati alle sanzioni previste dalla legislazione statale per condotte analoghe a quelle prese in considerazione.

Alla luce di tali linee guida, la Corte dichiarò manifestamente eccessiva la condanna di BMW al pagamento di $ 2.000.000,00 a titolo di danni punitivi. Invero, nel caso di specie: il danno cagionato agli acquirenti era stato meramente economico; un rapporto punitive damages / compensatory damages di 500:1 non poteva che ritenersi sproporzionato; l’ordinamento giuridico dello Stato dell’Alabama prevedeva per le pratiche di commercio sleale una pena massima di $ 2.000,00 e, anche considerando le legislazioni degli altri Stati, non si rinveniva una pena superiore a $ 10.000,00.

All’esito del processo, il giudizio fu dunque rinviato avanti la Corte Suprema dell’Alabama, che ridusse la sanzione da $ 2.000.000,00 a $ 50.000,00.

In questo come in altri casi successivi l’intervento della Corte Suprema degli U.S.A., che ha offerto una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto in esame, unitamente al ruolo giocato anche dalle leggi correttive adottate dai singoli Stati, ha permesso di ridurre notevolmente gli sviluppi negativi derivanti dall’applicazione “selvaggia” del rimedio qui analizzato.

2. L’esperienza italiana

L’ordinamento giuridico italiano ha tradizionalmente inteso configurare la responsabilità civile quale istituto avente funzione esclusivamente riparativo-compensatoria e, dunque, scevro da qualsiasi implicazione afflittivo-sanzionatoria, riservata al diritto penale. Invero, fin dalla sentenza a SS.UU. n. 500/1999, la Corte di Cassazione ha inteso cristallizzare tale concezione, identificando il danno risarcibile nel pregiudizio “arrecato non iure” e, dunque, nella “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento”. Da tale premessa, la Corte ha fatto discendere la conseguenza che l’art. 2043 c.c. non mira alla sanzione di condotte vietate, ma risulta finalizzato unicamente “ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’altrui attività”. Tale impostazione appare, inoltre, avvalorata dal dettato letterale dell’art. 1223 c.c. – applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale in virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 2056 c.c. – in forza del quale il risarcimento del danno deve limitarsi a coprire le conseguenze “immediate e dirette” del danno.

Conseguentemente, si è registrata una forte resistenza ad ammettere l’ingresso dei danni punitivi nel nostro ordinamento. Ciononostante, di recente la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha aperto uno spiraglio in tal senso. Ma, per meglio comprendere come sia stato possibile addivenire a tale pronuncia, risulta opportuno esaminare le principali tappe attraverso le quali si è snodato questo lungo percorso giurisprudenziale.

2.1. Corte di Cassazione, sentenza n. 1183/2007

Nel 1985 P.V.K., un ragazzo dell’Alabama, perdeva la vita in un incidente stradale occorso mentre si trovava alla guida della propria moto. La causa del decesso si rivelò essere un trauma cranico: infatti, in conseguenza dello scontro, il casco si sganciava. Accertato un difetto di progettazione della fibbia, la Signora P.J., madre del giovane, promuoveva una causa contro i responsabili del sinistro e anche nei confronti della società italiana Fimez S.p.A., produttrice e distributrice del casco. All’esito del giudizio, la società veniva condannata al pagamento di $ 1.000.000,00.

Poiché Fimez non risultava essere proprietaria di beni negli U.S.A., P.J. adiva la Corte d’Appello di Venezia per la delibazione della sentenza in Italia a fini esecutivi. La Corte, tuttavia, rigettava l’istanza, ritenendo che il provvedimento americano non rappresentasse una condanna al risarcimento, bensì una condanna ai danni punitivi, non riconosciuti dall’ordinamento italiano.

Desiderosa di ottenere giustizia, la Signora promuoveva ricorso avanti la Corte di Cassazione, che, però, confermava la non delibabilità della sentenza de qua, facendo proprie le motivazioni della Corte d’Appello e ribadendo che “nel vigente ordinamento l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito, mediante l’allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi in re ipsa”.

La Corte, dichiarando i danni punitivi in contrasto con l’ordine pubblico interno, affermava così l’estraneità del concetto di sanzione rispetto al risarcimento del danno, la cui finalità è quella di provvedere al ripristino della sfera giuridica del soggetto danneggiato, rimuovendo le conseguenze negative del pregiudizio da quest’ultimo subito.

2.2. Corte di Cassazione, sentenza n. 11353/2010

La Fondazione del Teatro dell’Opera di *** proponeva ricorso avanti la Corte di Cassazione contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma. Quest’ultima, in riforma del provvedimento di primo grado (2002), aveva accolto la domanda di risarcimento danni promossa da Gi.Ma. in relazione al provvedimento di mancata ammissione dello stesso alla Scuola di Danza gestita dal Teatro, nonché all’indebita pubblicazione dell’immagine del ragazzo su di una locandina.

Con particolare riferimento al secondo di tali profili, la Corte ha effettuato, calandola nel caso di specie, una approfondita disamina dell’ipotesi di lesione del diritto d’immagine alla luce della Legge sul diritto d’autore: se, da un lato, l’art. 96 pone un generale divieto di pubblicazione dell’immagine altrui che non sia preceduta dal consenso del diretto interessato, dall’altro lato, l’art. 97 mitiga tale divieto, rendendolo inoperante ove la pubblicazione sia sorretta da una motivazione di ordine pubblico. Ebbene, poiché l’immagine di Gi.Ma. era stata riprodotta su di una locandina promozionale di uno spettacolo della Scuola di Danza, il caso in esame veniva ricondotto nel novero dell’art. 96 della Legge sul diritto d’autore. Con riferimento all’an, pertanto, nulla quaestio circa il diritto del ragazzo ad essere risarcito: il Teatro, pubblicando una sua foto, si era appropriato indebitamente dei vantaggi economici che sarebbero spettati in via esclusiva a Gi.Ma., quale unico titolare del diritto di sfruttamento della propria immagine. Con riferimento al quantum, invece, la Corte dichiarava che – fermo restando il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali, intesi quale pregiudizio economico arrecato al ragazzo dall’illecita pubblicazione – nel caso di impossibilità nel fornire prova di specifiche voci di danno patrimoniale, “la parte lesa può far valere […] il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione in relazione alla diffusione del mezzo sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità perseguite e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione”.

La portata innovativa di tale pronuncia risiede nella circostanza che la Corte di Cassazione, ricorrendo all’istituto della retroversione degli utili e attribuendo al risarcimento del danno nel caso de qua, oltre alla tradizionale funzione di ristoro del pregiudizio arrecato, anche quella di ri-trasferimento in capo alla parte lesa dei vantaggi indebitamente conseguiti dal soggetto danneggiante, ha cominciato ad insinuare l’idea di un ampliamento della sfera del risarcimento.

2.3. Corte di Cassazione, sentenza n. 8730/2011

La società New Hampshire Consultores e Servicos L.D.A. si rivolgeva al Tribunale di Roma affinché quest’ultimo condannasse le società Media 2001 s.r.l. e TVR Voxson s.p.a. al risarcimento del danno per aver diffuso abusivamente su un proprio canale una serie televisiva americana, della quale l’attrice aveva acquistato nel 2000 i diritti di utilizzazione esclusiva sul territorio nazionale. Il Tribunale accoglieva la domanda, quantificando il danno in € 289.215,86, oltre interessi e rimborso spese di lite.

Successivamente, la Corte d’Appello, adita dalle convenute, confermava nel 2009 la sentenza di primo grado.

Non soddisfatte, nel 2010 le società Media 2001 s.r.l. e TVR Voxson s.p.a. proponevano ricorso avanti la Corte di Cassazione, dogliandosi – tra l’altro – dell’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione con riferimento ai principi fondanti la quantificazione del danno: invero, il criterio utilizzato era stato il corrispettivo pattuito per la cessione in perpetuo dei diritti di utilizzazione, nonostante fosse stata accertata la temporaneità (trecento mesi) dell’indebita utilizzazione. A fronte di tale situazione, la Cassazione, riconosciuta l’illogicità e contraddittorietà della sentenza impugnata, ha accolto il motivo di ricorso, rinviando la causa alla Corte d’Appello di Roma. Tuttavia, la Corte non si è fermata qui, ma è andata più in profondità, spingendosi – analogamente a quanto già fatto nella precedente sentenza n. 11353/2010 – ad affermare la necessità di parametrare il danno risarcibile in caso di lesione del diritto d’autore ai vantaggi indebitamente tratti dal danneggiante (e non, dunque, al pregiudizio economico effettivamente subito). Non solo: per la prima volta, la Corte ha dichiarato che, in situazioni simili a quella qui in considerazione, il risarcimento dei danni può essere piegato “ad una funzione in parte sanzionatoria, diretta ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i vantaggi, più che ripristinatoria di effettive perdite patrimoniali; in parte ispirata ai principi in tema di indebito arricchimento, per cui l’utilizzatore abusivo è tenuto a restituire al titolare dei diritti sull’opera le utilità che ne abbia abusivamente tratto”.

È la prima volta che la Corte di Cassazione ammette la possibilità di conferire una veste almeno parzialmente afflittiva a istituti inerenti il risarcimento del danno, mostrando un cenno di apertura verso la possibilità di riconoscere alla responsabilità civile una natura polivalente. Tuttavia, la Corte non tardò a tornare sui propri passi.

2.4. Corte di Cassazione, sentenza n. 1781/2012

Nel 2009 la Corte d’Appello di Torino dichiarava il riconoscimento e l’efficacia in Italia di una sentenza pronunciata nel 2004 dalla Corte Suprema di Cambridge – Massachusetts, con la quale quest’ultima aveva condannato la Ruffinatti s.r.l. al risarcimento del danno per $ 5.000.000,00 – oltre interessi per oltre $ 3.000.000,00 – nei confronti di O.R. per un infortunio da questi subito sul lavoro a causa di un macchinario prodotto dalla società stessa.

Quest’ultima nel 2010 impugnava la decisione avanti la Corte di Cassazione, lamentandone l’illogicità e contraddittorietà della motivazione. Invero, già nel giudizio di delibazione, la società aveva evidenziato l’entità spropositata della condanna, sia sotto il profilo del danno in sé e per sé sia sotto il profilo degli interessi. Quanto al primo aspetto, aveva affermato che la somma liquidata in sentenza ($ 5.000.000,00) dovesse necessariamente ricomprendere una consistente quota a titolo di danni punitivi, rilevata l’eccessiva discrepanza rispetto all’importo dei danni quantificati dallo stesso O.R. nel proprio atto di citazione ($ 330.677). Con riferimento al secondo profilo di doglianza, invece, la società aveva lamentato la natura usuraria degli interessi. Da ultimo, la Ruffinatti s.r.l. aveva posto l’accento sull’assenza di qualsivoglia motivazione all’interno della sentenza straniera, tale da rendere impossibile l’individuazione dei criteri ai quali la Corte estera avesse ancorato la quantificazione degli importi liquidati.

Ciononostante, la Corte d’Appello di Torino aveva affermato di non poter procedere per mere presunzioni e di non poter negare il riconoscimento della sentenza a causa della semplice “sensazione” di trovarsi davanti ad un caso di danni punitivi e interesse usurari, non ravvisando nel testo espliciti elementi a sostegno di tale tesi. Tuttavia, la Corte aveva poi proceduto proprio per presunzioni nel ritenere, da un lato, che l’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno superasse di gran lunga quello di cui all’atto di citazione in quanto, “probabilmente”, la Corte straniera aveva tenuto conto della gravità del fatto e del pregiudizio; dall’altro che, sempre “probabilmente”, gli interessi calcolati dovevano intendersi comprensivi anche della rivalutazione monetaria.

Ebbene, nel 2012 la Corte di Cassazione, rilevava l’illogicità e contraddittorietà della decisione impugnata, stante l’omessa valutazione in concreto della ragionevolezza e proporzionalità di quanto liquidato rispetto al danno effettivamente cagionato, anche con riferimento ai criteri risarcitori operanti in Massachusetts.

Sintomatica è la circostanza che la Corte d’Appello abbia minimizzato le conseguenze della mancanza di motivazione nella sentenza straniera e ignorato che tale contingenza rendesse impossibile la verifica della compatibilità con l’ordine pubblico interno, impedendo di individuare i criteri applicati dal giudice americano e, conseguentemente, di ricondurre la somma liquidata a titolo di risarcimento nell’alveo dei punitive damages piuttosto che dei rimedi compensativo-riparatori ammessi dal nostro ordinamento.

Di talché, la Corte accoglieva il ricorso della società, non solo ribadendo le conclusioni alle quali era giunta nella propria precedente sentenza n. 1183/2007 – e, dunque, l’estraneità di qualsivoglia funzione sanzionatoria all’istituto del risarcimento danni – ma anche dichiarando l’inammissibilità per il nostro ordinamento di un “arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro; ne consegue che, pure nelle ipotesi di danno “in re ipsa”, in cui la presunzione si riferisce solo all'”an debeatur” […] e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale, permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario”. Una condanna al pagamento di danni punitivi avrebbe, dunque, quale proprio risvolto, la giustificazione di un arricchimento del soggetto danneggiato, che non sarebbe sorretto da alcuna causa, ma una simile conseguenza, sarebbe contraria ai dettami dell’ordinamento italiano, che vieta qualsiasi spostamento di ricchezza privo di motivazione.

2.5. Corte di Cassazione, sentenza n. 7613/2015

A fronte del ritardo nell’adempimento dell’obbligo di consegna al sequestratario di alcune azioni rappresentative del capitale sociale della Mondello Immobiliere Italo-Belge s. a., l’Autorità giudiziaria belga condannava il detentore di tali azioni al pagamento di un importo giornaliero per ogni giorno di ritardo a titolo di astreinte. Il detentore, tuttavia, presentava ricorso avanti la Corte di Cassazione contro il provvedimento di delibazione della sentenza straniera, pronunciato dalla Corte d’Appello di Palermo, adducendone la contrarietà all’ordine pubblico interno, sulla scorta della supposta assimilabilità delle astreintes ai danni punitivi.

Gli Ermellini, però, dichiaravano il rimedio de quo compatibile con l’ordinamento italiano, nonostante tale strumento abbia insita in sé un’evidente componente sanzionatoria. Trattasi, invero, di una forma di esecuzione indiretta che, mediante la minaccia di irrogazione di sanzioni patrimoniali, opera una coartazione della volontà del debitore, onde costringerlo ad adempiere agli obblighi giudizialmente posti a suo carico.

Nella sentenza in esame, la Corte ha operato una minuziosa distinzione tra le astreintes e i punitive damages. Preliminarmente, si rileva che le astreintes sono del tutto estranee all’istituto del risarcimento del danno, in quanto quest’ultimo assolve ad una funzione reintegrativa, mentre le prime sono misure coercitive con finalità deterrente. Se è vero che questo è un punto di contatto con i danni punitivi, è altresì vero che le analogie si fermano qui: le astreintes sono volte a sollecitare l’adempimento di un obbligo che un provvedimento giudiziale ha posto a carico di un determinato soggetto nei confronti di un altro. Esse, pertanto, trovano applicazione nell’ambito di un rapporto diretto tra parti specificamente individuate e sono conseguenti ad una condanna, la cui violazione prevede il pagamento di un determinato importo – che cresce all’aumentare del ritardo – quale forma di induzione diretta all’adempimento (funzione deterrente propria); i punitive damages rappresentano la sanzione comminata in caso di lesione di un interesse altrui, ma esplicano un effetto coartativo solamente in via indiretta attraverso una “punizione esemplare”, che sfugge al principio di proporzionalità. Invero, tale funzione non è assolta solo nei confronti di chi, nel caso concreto, ha cagionato un danno, bensì anche nei confronti della collettività, che, in tal modo, viene indotta ad astenersi in futuro dal violare il principio del neminem laedere e ad adempiere alle proprie obbligazioni contrattuali, così da non rischiare di incorrere in sanzioni simili (funzione deterrente indiretta).

Ciò implica che l’irrogazione di una astreinte consegue allo svolgimento di un processo, mentre la comminatoria dei danni punitivi lo anticipa. A riprova delle notevoli differenze sottese ai due istituti in esame, la Corte rileva che all’interno dello stesso ordinamento italiano siano presenti istituti riconducibili alle astreintes, quali, a titolo esemplificativo, l’art. 614 bis c.p.c. o l’art. 709 ter c.p.c.. Tale dato confuta la tesi della contrarietà dell’istituto all’ordine pubblico interno, non potendosi validamente affermare che l’eseguibilità di un rimedio affine ad altri pacificamente impiegati dal nostro ordinamento minacci il rispetto dei principi su cui esso si basa.

Nonostante nella sentenza in esame la Corte abbia ribadito che la finalità precipua del risarcimento danni è quella riparativa “tanto da restare imprescindibile il parametro del danno cagionato”, la stessa si è però, per la prima volta, spinta oltre, riconoscendo che ad esso vengono comunque “ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti (posto che la minaccia del futuro risarcimento scoraggia dal tenere una condotta illecita, anche se, secondo gli approdi dell’analisi economica del diritto, l’obiettivo di optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato) e la sanzione (l’obbligo di risarcire costituisce una pena per il danneggiante) Si riscontra, dunque, l’evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi […] specialmente a fronte di un animus nocendi”. Si tratta di un importante segnale di apertura, che ha posto le basi per la decisione delle Sezioni Unite.

2.6. Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria di rimessione alle SS.UU. n. 9978/2016

Il Signor Duffy subiva delle lesioni durante una gara motociclistica a causa di un vizio del proprio casco, prodotto dalla società italiana AXO Sport e rivenduto dalla NOSA Inc. (Florida). Il danneggiato intentava, dunque, causa alle predette società avanti la Circuit Court of the 17th Judicial Circuit for Broward Count.

La causa si concludeva con una sentenza favorevole al motociclista, confermata poi anche in secondo grado. In particolare, NOSA accettava una proposta transattiva del soggetto danneggiato, acconsentendo alla corresponsione, a titolo di risarcimento, di $ 1.436.136,87, comprensivi di danni punitivi. Il giudice della Florida disponeva, inoltre, che la AXO manlevasse la NOSA. La stessa Autorità si pronunciava poi in ordine alle spese processuali con due ulteriori sentenze.

La NOSA adiva, dunque, la Corte d’Appello di Venezia per la delibazione della sentenza, ma AXO si opponeva, sollevando una serie di doglianze, tra le quali la contrarietà della decisione straniera all’ordine pubblico italiano, in quanto contenente una condanna ai danni punitivi. Tuttavia, la Corte rilevava che l’obbligo di AXO avesse il proprio titolo non tanto nel risarcimento del danno quanto nell’obbligo di manleva; che, in ogni caso, AXO avrebbe potuto esporre le proprie difese nell’ambito del processo celebratosi in Florida, al quale aveva preso parte senza sollevare alcuna eccezione; che AXO non si era opposta all’accordo raggiunto tra il Signor Duffy e NOSA; che l’importo oggetto di transazione, considerate le peculiarità concrete del caso di specie, non potesse considerarsi esorbitante né tale da assumere la qualifica di “punitivo”. Il giudice veneziano, pertanto, pronunciava il riconoscimento della sentenza straniera ai fini dell’esecuzione.

AXO proponeva, dunque, ricorso avanti la Corte di Cassazione, ribadendo – tra l’altro – la contrarietà dei punitive damages e del provvedimento delibato all’ordine pubblico interno. La Prima Sezione, investita della decisione, considerata la delicatezza della questione, riteneva opportuno rimetterla al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. In particolare, la Prima Sezione, ripercorrendo per tappe il lungo percorso giurisprudenziale in tema di ammissibilità dei danni punitivi nel nostro ordinamento, evidenziava la necessità di fare chiarezza sul punto, ponendo soprattutto l’accento sull’evoluzione subita negli anni dalla nozione di “ordine pubblico”: in origine, il concetto in esame individuava esclusivamente i principi e le norme inderogabili posti alla base dell’ordinamento giuridico, concorrendo a “caratterizzare la struttura etico-sociale della società nazionale in un determinato momento storico”; successivamente, esso si è ampliato e modificato, giungendo ad identificarsi con il “complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzi tutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”. Tale trasformazione è sintomo / conseguenza di un processo di “globalizzazione giuridica”, che va nella direzione di una sempre maggior integrazione dei vari ordinamenti nazionali, guardando con fiducia ad una dimensione sovranazionale e transnazionale del fenomeno giuridico.

La Prima Sezione afferma, poi, che un tale cambiamento di prospettive rispetto al passato non possa non avere un’incidenza sulla questione in esame. Invero, dovendosi desumere i valori fondamentali dell’ordinamento non tanto dalla normativa interna in quanto tale, bensì dai principi espressi a livello costituzionale e internazionale, il giudice che si dovesse trovare a valutare la delibabilità di una sentenza straniera non dovrebbe ritenere quest’ultima incompatibile con l’ordinamento interno per il sol fatto di contenere il richiamo ad un istituto ad esso sconosciuto. La norma straniera dovrà, pertanto, ritenersi incompatibile con l’ordine pubblico solamente ove essa sia in contrasto con valori di rango costituzionale e non quando essa, seppur divergente dalla normativa interna in materia, ben possa rappresentare una valida alternativa, rispetto a quella privilegiata dal nostro legislatore, per attuare egualmente i dettami della Costituzione.

È facilmente intuibile la portata rivoluzionaria di una simile asserzione. Invero, il fatto che l’ordinamento italiano attribuisca al risarcimento del danno una funzione essenzialmente riparatorio-compensativa non trova fondamento in un principio costituzionale, ma discende da una libera scelta del legislatore, non vigendo alcun divieto in relazione ad un’eventuale connotazione anche sanzionatoria dell’istituto. La stessa Corte ammette che un’apertura in tal senso può essere rinvenuta in una serie di indici normativi, quali l’art. 96, co. 3, c.p.c., l’art. 614 bis c.p.c., l’art. 709 ter c.p.c. e molti altri, i quali sono dotati di una innegabile componente di deterrenza. Di talché, non sarebbe possibile ritenere l’istituto dei danni punitivi in re ipsa in contrasto con l’ordine pubblico interno, ad eccezione dell’ipotesi in cui, a seguito di un’attenta valutazione del caso concreto, la quantificazione del danno risulti abnorme.

2.7. Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza n. 16601/2017

Le Sezioni Unite, investite della questione, facendo proprie le assunzioni della Prima Sezione, hanno dichiarato l’impossibilità di continuare a sostenere quanto affermato nelle proprie precedenti sentenze in merito all’incompatibilità dell’istituto dei punitive damages con l’ordinamento pubblico, alla luce della rivisitazione attualizzata di tale concetto. Inoltre, anche in considerazione dell’introduzione di istituti aventi carattere sanzionatorio, già evidenziata nell’ordinanza di rimessione, risulta ormai innegabile che “accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva”.

Tuttavia, la Corte è stata anche molto chiara nel tracciare alcuni “paletti”. In particolare, partendo dalla disposizione di cui all’art. 67 TFUE – ai sensi del quale “l’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni degli Stati membri” – la Cassazione ha evidenziato che, ai fini del riconoscimento in Italia di una sentenza straniera, è necessario che il contenuto di quest’ultima e le norme da questa richiamate risultino conformi tanto all’assetto giuridico europeo e internazionale, quanto ai principi fondamentali posti alla base della nostra Costituzione.

Nello specifico, di rilievo essenziale risultano: l’art. 23 Cost., che pone una riserva di legge in relazione all’imposizione di prestazioni personali e patrimoniali; l’art. 25 Cost., il quale riconosce il principio di legalità delle pene, estensibile anche alle sanzioni civili aventi carattere afflittivo; l’art. 49 Carta di Nizza, che afferma i principi di legalità e proporzionalità dei reati e delle pene rispetto al fatto concreto.

Da una lettura organica delle disposizioni sopracitate emerge con chiarezza che, ai fini della delibazione di una sentenza straniera contenente il richiamo a risarcimenti punitivi, l’ordinamento estero dovrà ancorare la condanna a precise previsioni normative, che consentano di verificare la tipicità e la prevedibilità dello strumento impiegato nonché la rispondenza a precisi limiti quantitativi.

Si consideri che, per quanto innovativa, la sentenza delle Sezioni Unite non deve essere fraintesa, né deve esserne indebitamente ampliata la portata. Invero, il citato provvedimento non sancisce l’ammissibilità dell’istituto dei punitive damages nel nostro ordinamento, ma si limita ad aprire le porte alla delibazione di sentenze straniere contenenti una condanna ai danni punitivi, qualora si ravvisi il rispetto dei principi basilari individuati: seppur la Corte abbia riconosciuto che, nell’ambito del risarcimento del danno, accanto alla precipua funzione riparativo-compensatoria, convivano ulteriori funzioni eterogenee, quali quelle deterrente, sanzionatoria e afflittiva, il nostro ordinamento non è ancora pronto a conferire a queste ultime pari rilevanza rispetto alla prima. Di talché, al momento risulta possibile dare esecuzione a forme di risarcimento aventi carattere punitivo – purché in concreto non risulti in contrasto con l’attuale nozione di ordine pubblico – ma non è pensabile, ora come ora, l’introduzione nel nostro ordinamento di rimedi assimilabili.


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