L’ incerta fine della sessuofobia

L’ incerta fine della sessuofobia

Sotto la spinta della mutata sensibilità storico-collettiva, nonché dell’urgenza sociale di criminalizzare condotte dirette a comportamenti discriminatori di genere, nel  settembre del  2013 la Camera dei Deputati ha approvato il testo unificato delle proposte di legge (Scalfarotto ed altri) in tema di contrasto alle discriminazioni fondate sulla omofobia e sulla  transfobia.

Il  provvedimento, tuttora in corso di esame alla Commissione giustizia del Senato, ha novellato  l’ art. 3 della legge n.654 del 1975, di ratifica ed esecuzione della Convenzione di New York del 7 marzo 1966 (denominata legge Reale) e la cosiddetta legge Mancino (decreto legge n.122 del 1993 convertito dalla legge n.205 del 1993), quali basici referenti normativi della vigente disciplina giuridica italiana antidiscriminazioni.

Più in particolare, mentre la  finalità “mediata” della  novazione legislativa  è  la modifica della cornice  edittale ex articolo 3 della legge Reale, l’obiettivo  precipuo è di ricondurre sotto l’ombrello definitorio  della nozione giuridica di discriminazione anche gli atteggiamenti motivati dall’identità sessuale della vittima del reato, così come definita dalla proposta medesima.

Di tal guisa, si assiste ad un “rinnovamento giuridico” delle fattispecie delittuose già positivizzate (dalla legge Mancino-Reale, poi novellata dal provvedimento legislativo n.85 del 2006, in materia dei cosiddetti reati di opinione) in punto di acquisita significatività criminale dell’orientamento sessuale.

Il passo per la configurazione di modelli criminosi “sessualmente orientati” è breve.

Invero, al di là del tormentato iter  parlamentare, il progetto  in discorso desta non pochi problemi in punto di teoria del reato e della sua compatibilità con la tavola costituzionale.

Nel volgere in chiaro gli assunti di fondo sottesi  alla questione di diritto, per prima cosa, s’impone la precisa  individuazione  del bene giuridico che si è inteso proteggere dai pluriformi atteggiamenti discriminatori.

Nel superare le molteplici sortite giurisprudenziali in merito, ispirate da diversi orientamenti di politica criminale giudiziaria, la giurisprudenza e la dottrina dominanti sono concordi nel sostenere  che il bene giuridico protetto sia la dignità dell’uomo in quanto è su questa base che viene correntemente operato il bilanciamento fra beni di rilievo costituzionale: da un lato quello della libertà del pensiero ex articolo 21 Cost., dall’ altro quello della pari dignità degli uomini ex art. 3 Cost. . La significatività penale di tale bene primario è in linea con il sacro dovere democratico di protezione dei diritti inviolabili dell’uomo (art .2 Cost.) inteso non solo come singolo ma anche e, soprattutto, come componente delle  formazioni sociali ove si estrinseca la sua personalità. Ne consegue che ove si sposi  la lettura  giusnaturalistica dell’articolo 2 della Costituzione (la Repubblica riconosce i preesistenti  diritti inviolabili dell’ uomo) e si consideri l’identità sessuale quale declinazione del diritto alla identità personale nel più ampio assetto valoriale della  persona umana, di riflesso la proposta in discorso appare come l’ultimo tassello per un compiuto statuto della persona umana.

Sulla base di queste riflessioni valoriali, la novazione legislativa è stata salutata con favore da più parti, in primis dalla giurisprudenza  sempre più “spinta verso i lidi” di un’ attività “concretizzatrice” del diritto più che di esegesi, in ragione del vuoto di tutela normativo. Ma questo atteggiamento non è stato dirimente per le criticità proprie della riforma.

Innanzitutto, l’arricchimento del catalogo delle condotte discriminatorie, punite secondo l’attuale legge Mancino-Reale con l’ inserimento di condotte aventi stigma sessuale, avviene in seguito a una progressiva presa di coscienza delle possibili, molteplici manifestazioni e direzioni delle condotte discriminatorie o finalizzate a discriminare. In tutti questi casi, la condotta discriminatoria muove dalla sottolineatura di una diversità e di una appartenenza a determinate categorie o gruppi di persone accomunate da un fattore, un’ origine etnica o geografica, un credo religioso, un orientamento sessuale, visto come connotato negativo, come oggetto di dileggio, di disprezzo, di odio, o come segno di pretesa inferiorità.

Ebbene, la sacra  garanzia dell’ uguaglianza e della  pari dignità della persona-cittadino,  deve compenetrarsi con la garanzia degli altri valori costituzionali, innanzitutto la libertà di espressione (art 21 Cost.): il bilanciamento tra beni primari è il vero  nodo gordiano della questione,  risolvibile con una “sapiente  perimetrazione”  del disvalore penale delle condotte improntata a una maggiore severità in tema di reati di opinione.

Attesa la portata  del principio  “cogitationis poenam nemo patitur” avvinto ai  cardini penalistici  della materialità, della offensività e della colpevolezza , il diritto penale moderno non punisce la mera  volontà criminosa rimasta “ interiore” ma avvince il momento” ideativo” al momento “aggressivo”, sia sotto forma di effettiva lesione che  nella forma della mera esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato. Ciò trova sponda giustificativa nella continua “cura descrittiva” con cui il legislatore penale guarda alle “ aggettivazioni comportamentali” (un esempio per tutti l’art. 56 c.p.). Ne consegue che sono proprio le “aggettivazioni penali”, sintesi del dovere legislativo di precisione normativo- redazionale, a contribuire a sostenere il  bilanciamento tra interessi di pari valore costituzionale (come avvenuto con la riforma dei reati di opinione improntata innanzitutto alla rilettura costituzionalmente orientata delle figure criminose concepite in epoca fascista e poi  ad un maggiore rigore lessicale: a sostegno il novellato art. 241c.p. “atti violenti diretti e  idonei”).

Orbene, concordando in pieno con la logica lockiana soggiacente all’impianto della legge Mancino-Reale, secondo cui la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi oltre il limite segnato da altri principi costituzionali (poi tonificata anche  da costante giurisprudenza della Corte Costituzionale), con la proposta di legge  “Scalfarotto ed altri” si obietta la possibilità di reintroduzione dei cosiddetti  reati di opinione se non la si “monitora” opportunamente in senso penale e non la  si accordi con i principi che animano la Costituzione.

Ma al bilanciamento tra i beni primari e perciò agli “argini costituzionali” posti a un possibile impiego estremo ed abusivo della libertà di espressione  (come nel caso di  diffusione di opinioni contrastanti con il principio di non discriminazione) devono giustapporsi  criteri discretivi penali volti a distinguere ciò che è penalmente rilevante da ciò che non lo è.

Il miglior criterio a cui fare riferimento è quello dell’offensività in concreto o, se si preferisce, quello della “pericolosità”. In termini estesi, occorre distinguere i comportamenti ontologicamente pericolosi ovvero che siano tali da creare ex se una lesione del principio di pari dignità, da quelli la cui pericolosità vada valutata in concreto. Tale determinazione costituisce l’orientamento dominante della Suprema Corte di Cassazione: i reati che implicano un contrasto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini sono da risolvere alla luce del principio anzidetto.

 In definitiva il bilanciamento tra beni costituzionali di pari rango primario  rinvenibile in queste fattispecie criminose non dovrebbe portare ad una violazione del principio della libertà di espressione sulla sola base di una valutazione astratta della pericolosità della condotta, bensì concreta, a meno che non ci si trovi al cospetto di comportamenti intrinsecamente caratterizzati da una carica offensiva al valore egualitario e non discriminatorio del principio di cui all’articolo 3 della Costituzione. Si tratta di una lettura esegetica che ben si addentella anche al quadro normativo sovranazionale.

Tracciate le coordinate dirimenti, il progetto in discorso continua a sollevare obiezioni.

Tale proposta prevede la punizione con la reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a seimila euro per chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi fondati sull’ omofobia o transfobia; con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi partecipi o presti assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi fra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi fondati sull’omofobia,  transfobia, con pene della reclusione da uno a sei anni per chi le promuove o dirige. La proposta prevede, altresì, l’estensione dell’ applicazione della circostanza aggravante cosiddetta di odio, per cui la finalità o motivazione omofobica o transfobica nella commissione di un reato diventerebbe una circostanza aggravante ai fini della previsione della pena.

Dalla lettura del progetto si osserva che vengono date per scontato le nozioni di omofobia e di transfobia, nonostante non siano auto-evidenti (a differenza della nozione di discriminazione definita dettagliatamente  dall’ articolo 43 del T.U. sull’ immigrazione) e, per di più, risulta incerto il confine rispetto ad atteggiamenti discriminatori sessuofobici esclusi dall’ ambito di applicazione della legge di cui si discute. Ciò giustifica la sua  esposizione all’accusa di non essere in linea con il principio di tassatività e di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, su cui si è meditato in precedenza, e ciò ancor più vistosamente considerando gli emendamenti “Verini-Gitti” a cui è stata sottoposto (comma 3-bis ex art.3 della legge n.654/1975), in cui tra l’altro si legge: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente, ovvero, anche se assunte all’ interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”.

Ripercorrendo il cammino descritto con altre parole, la non sufficiente precisione nella individuazione delle condotte penalmente sanzionate mette a dura prova  uno dei cardini per il bilanciamento tra valori di pari rango costituzionale e, perciò,  la sua compatibilità con i principi ispiratori della tavola costituzionale.

Ma al di fuori di ipoteche teoriche, l’ immediato riferimento è agli emendamenti approvati nel corso del dibattito alla Camera che, nella prima parte, non solo sollevano dubbi in punto di tassatività/determinatezza della fattispecie descritta(osteggiando il ruolo proprio della legge penale che in quanto “guida comportamentale” deve essere intelligibile dai cittadini) ma, per di più, determinano celate abrogazioni della normativa vigente.

In termini estesi, risulterebbe abrogata la seconda parte dell’articolo 3 lettera a) della legge n.654/1975 (istigazione alla commissione o commissione di atti di discriminazione) esponendo, così, il testo finale a profili di illegittimità costituzionale rispetto all’ articolo 117 ,comma 1 Cost. poiché si  tratta di legge di ratifica e di esecuzione di una convenzione internazionale; in secondo luogo si profilerebbero dubbi di costituzionalità per la esegesi della parte del comma che vieta “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’ incitamento alla discriminazione”. Ma il profilo di analisi più delicato concerne la potenziale ammissibilità, di dubbia compatibilità con l’ articolo 21 della Costituzione, di una serie di comportamenti che per il solo fatto di essere “riconducibili al pluralismo di idee”(la cui definizione non è auto-evidente) e purché  non siano manifestazione di odio o di violenza, sono da considerarsi leciti a prescindere dalla connotazione concreta di tali condotte.

Per tale via con un semplice emendamento,  immediato riflesso della dialettica democratica, si è operata una sorta di eterogenesi dei fini: la normativa antidiscriminatoria diviene fortemente discriminatoria dal momento che prevede zone franche non giustificate da alcun “appiglio testuale costituzionale” e difficilmente inquadrabili per via di una non puntuale descrizione legale del fatto di reato.

Orbene, sopravvive come unica condotta di fatto, ad oggi punibile, la lettera b) della legge Mancino-Reale ovvero l’atto criminoso di istigazione all’ odio o alla violenza.

Quello che ne è risultato è un provvedimento molto debole non più in grado di tutelare le minoranze che avrebbe  dovuto presidiare, con la conseguenza che i profili di illegittimità costituzionale degli emendamenti inficiano tutta l’ossatura del progetto, fino a giungere ad una eclatante antinomia: lo Stato di diritto non presidia i valori della persona.

Ne consegue che tale strumento normativo, in “estenuante  attesa” di  approvazione anche in Senato, si presenta come un’ arma spuntata nonostante venga considerato, allo stato attuale,un importante passo in avanti,una sorta di spartiacque culturale nel cammino epocale già tracciato dalla legge “Cirinnà”.


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