La Brexit ed i diritti dei cittadini italiani (e degli altri Stati dell’UE-27) nel Regno Unito

La Brexit ed i diritti dei cittadini italiani (e degli altri Stati dell’UE-27) nel Regno Unito

Sommario: 1. L’accordo politico per il recesso del Regno Unito dall’UE – 2. Le caratteristiche dell’ordinamento britannico – 3. Lo “European Union (Withdrawal) Act” 2018: la perdita di diritti derivanti dalla Carta Europea dei Diritti Fondamentali e della tutela legata ai principi fondamentali – 4. Il ruolo delle corti britanniche – 5. Conclusioni

1. L’accordo politico per il recesso del Regno Unito dall’UE

L’accordo per il recesso del Regno Unito dall’ Unione Europea, finalizzato a livello politico, il 14 novembre 2018, fra i negoziatori dell’ UE e del Governo britannico, dovrebbe – per entrare in vigore e produrre quali effetti giuridici un recesso del Regno Unito con il previsto periodo di transizione fino al 31 Dicembre 2020 – venire ratificato dal Parlamento britannico, essere in seguito recepito nella legislazione interna britannica, venir approvato dal Parlamento Europeo e, quale ultimo passaggio, ricevere l’approvazione anche del Consiglio dei Ministri dell’ Unione Europea con il voto favorevole di almeno 20 Stati membri (su 27) che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’ Unione Europea (ad esclusione del Regno Unito stesso).

Qualora l’accordo politico entri in vigore come Trattato internazionale, dal 30 Marzo 2019, fra l’UE-27 ed un ex Stato membro, i diritti dei cittadini italiani (e di altri cittadini di Stati dell’UE-27) residenti nel Regno Unito, come derivanti dall’ ordinamento giuridico dell’UE (comprensivi dunque della liberta’ di circolazione), resterebbero invariati fino al termine del periodo di transizione disciplinato dagli Articoli 126 – 132 dell’accordo, con la sola eccezione di specifici diritti indicati dall’ Art. 11, quarto comma, del Trattato sull’ Unione Europea (TUE), dagli Articoli 20, secondo comma, let. b), 22 e 24, primo comma, del Trattato sul Funzionamento dell’ Unione Europea (TFUE) e dagli Articoli 39 e 40 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (verrebbero, dunque, perduti solamente l’ elettorato passivo ed attivo per il Parlamento europeo nello Stato membro di residenza; il diritto di voto per le assemblee locali, il diritto di utilizzare l’ iniziativa popolare europea). Durante il periodo di transizione, il Regno Unito rientrerebbe ancora, come i 27 Stati membri, nella giurisdizione della Corte di Giustizia dell’ UE ed, ai sensi dell’ Art. 127, sesto comma, durante tale periodo ogni riferimento agli Stati membri, nella legislazione e nella giurisprudenza comunitaria, dovrebbe essere inteso come comprensivo anche del Regno Unito.

L’accordo raggiunto a livello politico fra i negoziatori dell’ UE e del Governo britannico contiene inoltre una parte, dall’ Art. 9 all’ Art. 39, dedicata ai diritti dei cittadini degli Stati dell’ UE-27 nel Regno Unito e dei cittadini britannici negli Stati dell’ UE-27. Una prima sezione di questa parte dell’accordo, dall’ Art. 9 all’ Art. 29, disciplinerebbe in distinti capitoli i diritti di residenza, di lavoro e di riconoscimento delle qualifiche professionali dei soli cittadini italiani (cosi’ come di altri Stati dell’ UE) che risultino residenti nel Regno Unito al termine del periodo di transizione, e dei lavoratori frontalieri. Il diritto di residenza ed il diritto al lavoro verrebbero assicurati entro ai sensi degli Articoli 21, 45 e 49 del TFUE e della Direttiva 2003/48 (relativa alla liberta’ di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati dell’UE). Nel contesto complessivo dell’accordo di recesso raggiunto a livello politico, ad un primo esame tali contenuti sembrerebbero poter offrire sufficienti garanzie di conservazione dei diritti, considerando che, ai sensi del suo Art. 4, le disposizioni dell’ accordo avrebbero effetto diretto (analogamente alle disposizioni della legislazione UE aventi i requisiti per produrre effetto diretto) ed il Regno Unito dovrebbe assicurare tale effetto attraverso la disapplicazione, da parte delle proprie autorita’ amministrative, ed in sede giudiziaria, di disposizioni interne incompatibili con l’accordo stesso, a seguito dell’ introduzione di una legislazione interna che recepisca i contenuti dell’accordo in esame. Vi sono, d’altra parte, due fattori che potrebbero ridurne l’ efficacia. Da un lato, l’accordo stesso concederebbe la possibilita’ al Regno Unito di subordinare il riconoscimento dei diritti sopra indicati alla necessita’, per i cittadini italiani (e degli altri Stati dell’UE), di presentare istanza per ottenere un apposito status introdotto nella legislazione britannica. Al riguardo, il Governo del Regno Unito – gia’ precedentemente alla finalizzazione dell’ accordo – aveva indicato la volonta’ di richiedere ai cittadini italiani (e degli altri Stati dell’ UE-27) che intendessero restare nel Paese dopo il suo recesso dall’ UE di acquisire un nuovo status di “stabiliti” (“settled status”), ottenibile dopo 5 anni di residenza continuativa in loco previa presentazione di una specifica istanza e pagamento di una tassa amministrativa (pari a 65,00 £). L’ ottenimento del “settled status”, che sarebbe possibile dopo 5 anni di residenza per i cittadini italiani (e di altri Stati dell’UE-27) che giungano nel Regno Unito entro il termine del periodo di transizione, ossia entro il 30 Dicembre 2020, risulterebbe essere – dopo il periodo di transizione – la precondizione per il riconoscimento e l’ esercizio di tali diritti in base all’ accordo di recesso, ed il termine ultimo per la presentazione della domanda per il “settled status” e’ stato indicato dal Governo britannico – per l’ ipotesi di ratifica dell’accordo di recess – nel 30 giugno 2021. Entro questa data, anche i cittadini italiani (e di altri Stati dell’UE) che non abbiano ancora maturato 5 anni di residenza continuativa nel Paese potrebbero chiedere un riconscimento del loro status, presentando domanda per un “pre-settled status” (previo pagamento della medesima tassa amministrativa) che consentirebbe loro di restare nel Paese fino al compimento del quinto anno di residenza continuativa, quando dovrebbero presentare una nuova istanza per la conversione del “pre-settled status” in “settled status”. Dall’altro lato, dopo la scadenza del periodo di transizione, la competenza della Corte di Giustizia non si estenderebbe piu’ al Regno Unito, salva la facolta’ per i tribunali britannici di richiedere alla Corte di Giustizia, entro gli 8 anni dalla conclusione del periodo transitorio, l’ interpretazione di clausole dell’accordo di recesso. La tutela giurisdizionale dei diritti derivanti dall’ accordo di recesso per i cittadini (italiani e degli altri Paesi) dell’ UE-27 nel Regno Unito dovrebbe essere assicurata – nelle intenzioni dei negoziatori dell’accordo – dalle corti britanniche, ed una “autorita’ independente” creata dalla legislazione britannica dovrebbe monitorare la tutela di tali diritti.

Una seconda sezione della parte dell’ accordo di recesso relativa ai diritti dei cittadini, dall’ Art. 30 all’ Art. 39, assicurerebbe invece il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in base all’ Art. 48 del TFUE ed ai Regolamenti UE 883/2004 e 987/2009 e verrebbe estesa anche ai cittadini italiani (e di altri Stati dell’UE-27) che abbiano lasciato il Regno Unito prima del termine del periodo di transizione, garantendo la totalizzazione ai fini previdenziali degli anni di versamento contributivo nel Regno Unito con gli anni di versamento in Italia (od in altri Ssati dell’ UE). Il periodo di transizione avrebbe, dunque, un ruolo fondamentale nell’ individuazione dei beneficiari della parte dell’accordo relativa ai diritti dei cittadini.

Il periodo di transizione offrirebbe, infine, un arco temporale durante cui i futuri rapporti di cooperazione fra l’ UE-27 ed il Regno Unito dovrebbero essere negoziati, sulla base di una dichiarazione di intenti politica circa la creazione di una “ambiziosa partnership economica”, comunque destinata a restare priva di effetti giuridici fino al momento in cui i negoziati sulle future relazioni vengano conclusi con la stipula di un Trattato internazionale e tale Trattato divenga vincolante nell’ ordinamento interno da un lato del Regno Unito, dall’ altro degli Stati dell’UE-27. L’interpretazione ed applicazione di tale Trattato sarebbero governate dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul Diritto dei Trattati, il cui Articolo 26 richiede l’esecuzione dei Trattati in buona fede, in base al principio del “Pacta sunt servanda”, ed il cui Articolo 60 consente ad una delle parti contraenti di recedere dal Trattato in caso di violazione operata dall’altra parte contraente.

L’ incertezza sul futuro esito dei negoziati che dovranno essere condotti durante il periodo di transizione pone la necessita’ di chiarire le conseguenze che, in caso di esito negativo dei negoziati, potrebbero derivare per i diritti dei cittadini dell’ UE-27 dopo il termine dello stesso periodo di transizione. Queste conseguenze potrebbero verificarsi, d’ altra parte, gia’ dal 30 Marzo 2019 nell’ ipotesi di rigetto dell’ accordo politico raggiunto fra UE-27 e Regno Unito. Il Governo britannico, con un “policy paper” pubblicato in data 6 dicembre 2018, ha indicato l’ intenzione di mantenere la propria linea in merito al “settled status” per i cittadini UE-27 anche in caso di mancata ratifica dell’ accordo politico in sede parlamentare e di recesso dall’ UE senza accordo, pur con condizioni piu’ restrittive circa i beneficiari, che sarebbero solamente coloro che giungano nel Paese entro il 29 Marzo 2019, e circa il termine per presentare l’ istanza, che scadrebbe il 31 Dicembre 2020 (in luogo del 30 giugno 2021). Cionostante, le catteristiche dell’ ordinamento britannico risultano fondamentali per comprendere se tale “settled status” possa o meno ritenersi sufficiente quale garanzia di conservazione dei diritti, soprattutto nell’ ipotesi di assenza di un Trattato internazionale fra Regno Unito ed UE-27.

2. Le caratteristiche dell’ ordinamento britannico

L’ordinamento britannico presenta catteristiche fortemente distintive rispetto agli ordinamenti di altri Stati europei. In tutti gli altri Stati europei (ed in quasi tutti gli Stati extra-europei) l’ ordinamento giuridico interno trova la sua fonte primaria in una Costituzione, fonte di rango superiore rispetto alla legislazione adottata dal Parlamento ed in grado di limitare la discrezionalita’ del Parlamento stesso, vincolandolo al rispetto di diritti fondamentali garantiti nella Costituzione, consistenti, in genere, sia in diritti umani fondamentale che in diritti di carattere economico. Nel caso del Regno Unito, una Costituzione – intesa in questo significato di fonte giuridica di rango superiore rispetto alla legislazione introdotta dal Parlamento – non venne invece mai adottata. Malgrado il termine “constitution” sia usato anche nel linguaggio giuridico britannico, in quest’ ultimo tale termine designa soltanto un gruppo di leggi normalmente approvate dal Parlamento che hanno ad oggetto le modalita’ di funzionamento del Parlamento stesso o di altri organi e l’esercizio dei pubblici poteri,   ed una serie di prassi consolidate dalla loro costante ripetizione nel tempo. Un noto testo di diritto “costituzionale” britannico (C.Turpin, A. Tomkins, British Government and the Constitution, spiega, 2011), spiega infatti, che: “What we do not have is a ‘codified’ constitution, or any sort of overarching, superior constitutional text. A considerable part of the British constitution consists of written Acts of Parliament which regulate the system of government or the exercise of public power”. Nonostante alcuni documenti abbiano origine antica e siano stati tradizionalmente indicati come importanti pietre angolari di un ordinamento democratico– come la celebre Magna Charta Libertatum del 1215 o la Bill of Rights del 1689 – tali documenti hanno lo stesso rango delle (altre) leggi normalmente approvate dal Parlamento, e possono essere espressamente modificati ed abrogati (come accaduto sopratutto nel caso della Magna Charta, della quale la maggioranza delle clausole sono state abrogate dai vari Parlamenti nel corso dei secoli successivi.

In assenza di una Costituzione, il principio cardine dell’ ordinamento britannico, dal 1689 (anno della “gloriosa rivoluzione” inglese che, in sostanza, trasferi’ al Parlamento, con la Bill of Rights, l’ esercizio della maggioranza dei poteri in precedenza esercitati dal monarca ) consiste nella sovranita’ parlamentare assoluta: il Parlamento puo’ introdurre ed abrogare qualuque legge di ogni tipo, senza limitazioni (A.W.Dicey, An Introduction to the Law of the Constitution, 1885: “Parliament can make and unmake any law whatsoever). L’ abrogazione di una legge precedente puo’ avvenire tramite l’ introduzione di una legge successiva che si limiti a regolare diversamente la materia (abrogazione implicita) o, nel caso di documenti ritenuti particolarmente importanti (come la Magna Charta o la Bill of Rights) , tramite una legge successiva che espressamente indichi l’abrogazione di (parti di ) tali documenti. Il principio della sovranita’ assoluta del Parlamento implica anche che nessun Parlamento e’ vincolato dal precedente, e nessun Parlamento puo’ vincolare i successivi. Come viene infatti spiegato nello stesso sito Internet del Parlamento di Westminster: “Parliamentary sovereignty is a principle of the UK constitution. It makes Parliament the supreme legal authority in the UK which can create or end any law. Generally, the courts cannot overrule its legislation and no Parliament can pass laws that future Parliaments cannot change. Parliamentary sovereignty is the most important part of the UK constitution.”

In sintesi, il Parlamento di Londra – che legifera unicamente in nome del monarca e giura fedelta’, all’ atto dell’ insediamento, soltanto al monarca stesso – e’ titolare dell’ esercizio di un potere assoluto.

Durante il periodo di appartenenza all’ UE e di adesione alla Convenzione Europea dei Diritti Umani (a loro volta riconosciuti come parte integrante del diritto dell’ UE), il principio della sovranita’ parlamentare assoluta e’ stato limitato dall’ adesione all’ ordinamento sovranazionale dell’ UE, che ha garantito una serie di diritti (es.: non-discriminazione in base alla nazionalita’; libera circolazione, accesso a condizioni paritarie al mercato del lavoro, alla sanita’, tutela dei consumatori, etc..) derivanti dai Trattati istitutivi dell’ UE (ed in precedenza della CEE e della CE; attualmente Trattato sull’ Unione Europea e Trattato sul Funzionamento dell’ Unione Europea) e della correlata competenza della Corte di Giustizia dell’ UE a salvaguardia effettiva degli stessi. Questi diritti sono stati, dunque, durante il periodo di appartenenza all’ UE, sottratti alla discrezionalita’ del Parlamento britannico.

Nel 1972, il Parlamento britannico – dopo il raggiungimento dell’accordo per l’adesione del Paese all’ ordinamento sovranazionale europeo (che avrebbe avuto effetto dal 1 gennaio 1973) – aveva emanato lo European Communities Act, una legge di portata generale in base alla quale aveva accettato di auto-limitare la propria sovranita’ in tutte le aree di intervento dell’ ordinamento comunitario.

A seguito di un ritiro dall’ UE, il 29 marzo 2019, senza un Trattato internazionale (fra Regno Unito ed UE-27) che limiti ancora la discrezionalita’ del Parlamento briannico, e del venir meno dell’ applicazione del diritto dell’ UE al Regno Unito (cosi’ come della competenza della Corte di Giustizia dell’UE), il principio britannico della sovranita’ parlamentare assoluta riprenderebbe dunque la sua piena espansione, cioe’ la portata ominicomprensiva (ossia riguardante tutte le aree della sfera pubblica e privata) che ha gia’ avuto, in precedenza, dal 1689 al 1973.

Ne conseguirebbe che tutti i diritti gia’ acquisiti nel Regno Unito da cittadini italiani (ed in generale dell’UE-27), in forza dell’ ordinamento giuridico dell’ UE, potrebbero (dopo l’ uscita dall’ UE), anche in caso di concessione del “settled status”, venire cancellati in ogni momento dal Parlamento britannico (con conseguente alterazione del contenuto del “settled status”), cioe’ – in termini politici – da una maggioranza parlamentare britannica che sostenga un Governo intenzionato, per i piu’ svariati motivi, ad operare in tale direzione.

3. Lo “European Union(Withdrawal) Act” 2018: la perdita di diritti derivanti dalla Carta Europea dei Diritti Fondamentali e della tutela legata ai principi fondamentali

Un chiaro segnale in tale direzione e’ costituito proprio dalla legge approvata dal Parlamento britannico per dare corso giuridicamente al ritiro dall’ UE, cioe’ la legge chiamata “European Union (Witdrawal) Act 2018”, promulgata dalla monarca il 26 giugno 2018. Questa legge, che abroga lo European Communities Act del 1972 a decorrere dal 29 marzo 2019, cancella completamente dall’ ordinamento interno britannico, da tale data, la Carta Europea dei Diritti Fondamentali (sezione 5, capoverso 4 della legge: “The Charter of Fundamental Rights is not part of domestic law on or after exit day”), che (in assenza di una Costituzione) rappresentava, nel Paese, la piu’ significativa fonte di importanti diritti economici e sociali. La legge in considerazione, pur trasformando in diritto britannico il corpus giuridico derivante dall’ ordiamento dell’UE, lascia liberi Governo e Parlamento britannico di operare modifiche a propria discrezione, decidendo quali diritti (gia’ derivanti dall’ ordinamento dell’UE) conservare e quali sopprimere.

La legge in considerazione impedisce, inoltre, ai cittadini (anche britannici) di fare affidamento sui principi generali che erano stati introdotti nel Paese tramite l’ ordinamento dell’ UE (eguaglianza, proporzionalita’, certezza giuridica, legittima aspettativa, etc..) nei rapporti con le autorita’ britanniche (Allegato 1, clausola 3(1) della legge: “There is no right of action in domestic law on or after exit day based on a failure to comply with any of the general principles of EU law”). Al riguardo, anche Amnesty International, nel suo rapporto annuale sui diritti fondamentali a livello mondiale, ha segnalato la forte riduzione dei diritti che – quando la legge in esame era ancora in fase di proposta – si delineva nel Regno Unito (Amnesty International Report 2017-2018, p. 381-382), una riduzione effettivamente realizzata con l’entrata in vigore della legge. Una successiva analisi di Amnesty International e dell’ organizzazione Liberty ha evidenziato soltanto alcuni esempi di diritti garantiti dalla Carta dei Diritti Fondamentali e che verranno perduti, nel Regno Unito, con la scomparsa della Carta dall’ ordinamento interno: diritto alla protezione dei dati di carattere personale (Art. 8); diritto all’ obiezione di coscienza (Art. 10); diritto all’ istruzione (Art. 14); diritto degli anziani a condurre una vita dignitosa ed indipendente (Art. 25); diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale, che si estende a tutte le aree, compresa l’ immigrazione, e che garantisce anche il patrocinio gratuito ove necessario (Art. 47). Diversi altri diritti garantiti dalla Carta – ma non preesistenti nella medesima estensione nell’ odinamento britanico, appaiono destinati a scomparire o ad essere fortemente ridotti, come ad esempio i diritti legati al lavoro in termini di limitazione della durata massima del lavoro (derivanti dalla Direttiva europea 88/2003) e ferie annuali (Art. 31) e la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (Art. 30). Oltre alla perdita della liberta’ di circolazione concessa dall’ ordinamento dell’UE (liberta’ di circolazione che il Governo britannico ha ripetutamente dichiarato di voler escludere), i cittadini italiani (ed altri cittadini dell’ UE-27) che decidessero di (cercare di) rimanere nel Regno Unito, ottenendo il “settled status”, trovano dunque – pur nella continuazione dei diritti- base di residenza, di lavoro e di accesso alla sicurezza sociale – la prospettiva di una forte riduzione di altri importanti diritti.

In forza del principio della sovranita’ parlamentare assoluta, nell’ ottica dell’ ordinamento britannico un Trattato internazionale possiede, inoltre, il medesimo rango della legislazione emanata dal Parlamento. Si tratta, cioe’, di un ordinamento c.d. “dualistico” che considera due fonti del diritto – la fonte internazionale, e la fonte interna – come aventi lo stesso rango: per tale motivo, un Trattato internazionale, per avere efficacia nel Regno Unito, deve essere accompagnato da una legislazione interna approvata dal Parlamento. Cosi’ come lo European Communities Act del 1972 consenti’ l’ ingresso del corpus giuridico dell’ ordinamento europeo nel Regno Unito, nel caso di un Trattato internazionale fra Regno Unito ed UE-27 (inteso a limitare la discrezionalita’ del Parlamento britannico dopo l’ uscita dall’UE) tale Trattato dovrebbe essere dunque accompagnato (in base all’ ordinamento britannico) da una legislazione interna approvata dal Parlamento britannico, che ne recepisca i contenuti.

Cio’ e’ risultato essere uno dei punti di contrasto nel negoziato dell’ UE, la quale ultima – consapevole del principio britannico della sovranita’ assoluta del Parlamento – assunse la posizione per cui i diritti dei cittadini dell’ UE-27 nel Regno Unito dovessero essere garantiti esclusivamente dal Trattato internazionale che sancisca il ritiro del Regno Unito dall’UE, e che la Corte di Giustizia dell’ UE avesse competenza su tale Trattato. Cio avrebbe offerto la possibilita’ per i cittadini dell’ UE-27 di fare affidamento su tale Trattato per far invalidare eventuali leggi britanniche che, in futuro, riducano o sopprimano tali diritti.   Questa posizione – che, di per se’ stessa, permetterebbe una tutela per i diritti dei cittadini dell’ UE-27 indicati in detto Trattato nella misura in cui il Trattato sottragga i diritti dei cittadini UE-27 alla discrezionalita’ del Palamento britannico – contrasta tuttavia da un lato con il ruolo che le corti britanniche hanno in base all’ ordinamento interno del Regno Unito, dall’ altro con l’ intenzione ripetutamente espresso dal Governo britannico. di rifiutare la competenza della Corte di Giustizia dell’UE sull’ eventuale Trattato internazionale in esame. Quale risultato del compromesso raggiunto tramite l’accordo politico, come gia’ ricordato la Corte di Giustizia continuarebbe ad avere competenza soltanto durante il periodo di transizione, mentre, per 8 anni successivi alla fine del periodo di transizione, le corti britanniche, inclusa la Corte Suprema, avrebbero la facolta’ – ma non l’ obbligo (diversamente dai giudici di ultima istanza degli Stati membri, in base all’ Art. 267 del TFUE) – di sollevare questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia per l’ interpretazione delle clausole dell’accordo di recesso.

4. Il ruolo delle corti britanniche

Accanto alla legislazione approvata dal Parlamento, l’ ordinamento britannico ha un secondo caposaldo nella “common law”, cioe’ una serie di precedenti giurisprudenziali costituiti da sentenze delle Corti di rango superiore riguardo a specifici casi, che hanno acquisito forza vincolante per successive controversie aventi ad oggetto le stesse materie sulle quali tali sentenze sono intervenute (la “common law” ha una tradizione piu’ radicata in Inghilterra che non in Scozia, la quale ultima, fino al 1707, era uno Stato indipendente che aveva avuto pregressi rapporti con l’ Europa continentale e sopratutto con la Francia, da cui aveva copiato, nel proprio ordinamento, una serie di istituti giuridici). Relativamente alle situazioni non regulate da una legislazione approvata dal Parlamento, la “common law” e’ dunque pienamente fonte del diritto, ma una successiva legislazione emanata dal Parlamento puo’ modificare od estinguere diritti creati dalla “common law”. I diritti degli individui creati dalla “common law” non sono, dunque, immuni da una successiva legislazione del Parlamento che, con maggioranza semplice, intendesse modificarli od estinguerli. Nel 2005, e’ stata creata una Corte Suprema che ha sostituito la Camera dei Lords come organo giudicante di ultima istanza per le controversie fra organi pubblici e soggetti privati, cosi’ come fra soggetti privati.

Occorre sottolineare, tuttavia, che anche la Corte Suprema, in base all’ ordinamento britannico, non ha il potere di invalidare una legge approvata dal Parlamento, ma solo di interpretarla, in caso di dubbio, per dedurre la volonta’ del legislatore. La Corte Suprema non e’, cioe’, assimilabile ad una Corte Costiuzionale di un altro Stato europeo (che ha il potere di espungere dall’ ordinamento una legge approvata dal Parlamento, se in contrasto con la Costituzione), ne’ alla Corte di Giustizia dell’ UE (che ha il potere di dichiarare una normativa nazionale di unio Stato membro contrastante con i Trattati istitutivi dell’ UE o con la legislazione secondaria dell’ UE, se tale normativa nazionale restringe o viola diritti riconosciuti dall’ ordiamento europeo, e di determinarne la scomparsa dall’ ordinamento del Paese interessato). La circostanza che la Corte Suprema del Regno Unito non sia assimilabile ad una Corte Costituzionale dipende, a sua volta, dall’ assenza di una Costituzione e dallo stesso principio della sovranita’ parlamentare.

Conseguentemente, in caso di una uscita dal Regno Unito dall’ UE senza un Trattato internazionale che, almeno durante un periodo di transizione, sottragga completamente i diritti dei cittadini dell’ UE-27 alla discrezionalita’ del Parlamento britannico e senza la competenza della Corte di Giustizia dell’ UE su tale Trattato, i cittadini dell’ UE-27 nel Regno Unito non potrebbero fare affidamento sulle corti britanniche di rango inferiore, ne’ sulla Corte Suprema del Regno Unito, per tutelarsi contro una eventuale legislazione britannica che, in futuro, riduca i diritti fondamentali legati al “settled status”, continuando nella direzione di riduzione dei diritti gia’ segnata con lo European Union (Withdrawal Act) 2018.

Occorre ricordare, al riguardo, che vari esponenti del partito conservatori hanno gia’ indicato l’ intenzione di abrogare anche lo “Human Rights Act” del 1998, cioe’ la legge interna che aveva dato attuazione, nel Regno Unito, alla stessa Convenzione Europea dei Diritti Umani del 1950, per sostiturlo con una “legge sui diritti britannica” (British Bill of Rights) dai contenuti (attualmente) imprecisati.

5. Conclusioni

Conclusivamente, l’accordo negoziato a livello politico – nel caso otteneresse le necessarie ratifiche per entrare in vigore quale Trattato internazonale – appare idoneo ad assicurare una effettiva tutela sostanziale e giurisdizionale ai diritti dei cittadini italiani (e di altri Stati dell’ UE-27) che risiedano nel Regno Unito soltanto durante il periodo di transizione, quando la perdurante applicazione del diritto dell’ UE (e la correlata competenza della Corte di Giustizia) sottrarrebbe tali diritti alla discrezionalita’ del legislatore britannico. Dopo il periodo di transizione, la persistenza e la tutela dei diritti finirebbero per essere –in sostanza – completamente rimessi alla discrezionalita’ del legislatore e dei tribunali britannici in caso di mancata ratifica dell’accordo politico di recesso, mentre dipenderebbero unicamente dalla volonta’ del Regno Unito di ottemperare alle clausole dell’ accordo di recesso in caso di ratifica dell’accordo e di sua entrata in vigore quale Trattato internazionale. L’ effetto diretto delle disposizioni dell’ accordo, indicato dall’ Art. 4 del medesimo, risulterebbe inoperante, a livello pratico, in caso di mancato esercizio da parte dei tribunali britannici della facolta’ di sottoporre eventuali controversie derivanti da una constazione di mancata applicazione delle disposizioni del Trattato in considerazione alla Corte di Giustizia dell’ UE. Non appare infatti sufficiente, per assicurare l’effetto diretto, una ulteriore disposizione dello stesso Art. 4 che richiede alle corti britanniche di tenere nella “dovuta considerazione” la giurisprudenza della Corte di Giustizia posteriore alla fine del periodo di transizione, che, in assenza di parametri atti a stabilire esattamente le fattispecie in cui tale giurisprudenza debba essere tenuta in considerazione, lascia sostanzialmente liberi i tribunali britannici di valutare quando ed in quale misura la considerazione stessa sia “dovuta”.


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