La buona fede: regola genetica e funzionale del contratto

La buona fede: regola genetica e funzionale del contratto

La buona fede rappresenta un principio generale del diritto civile ricavabile dagli articoli 1175 e 1375 del Codice civile in combinato con l’art. 2 della Costituzione, in cui è consacrato il principio di solidarietà. Com’è noto, i principali campi applicativi della buona fede sono i diritti reali, in cui essa rileva come stato soggettivo consistente nell’ignoranza dell’altrui diritto, e il campo del diritto delle obbligazioni, in cui rileva nella sua dimensione oggettiva, come canone di condotta ispirato alla solidarietà, limitativo dei rispettivi scopi egoistici.

In questa seconda accezione, la buona fede svolge una pluralità di funzioni nella regolamentazione dei rapporti tra le parti del contratto che, in senso lato, possono definirsi debitore e creditore.

In prima analisi, quindi, occorre analizzare la funzione genetica della buona fede, per tale intendendosi la capacità di generare obbligazioni ancillari al rapporto obbligatorio principale. Questa funzione è frutto dello sviluppo giurisprudenziale registratosi a partire dagli anni ’80, in cui si è attribuita alla buona fede il valore di clausola precettiva con funzione integrativa del rapporto obbligatorio. Tale operazione ermeneutica, effettuata coordinando il dato codicistico con il principio di solidarietà, ha consentito di inquadrare il rapporto obbligatorio in una logica di cooperazione tra debitore e creditore mediante l’imposizione di un generale “obbligo di protezione dell’altrui sfera giudica”, il quale, a sua volta, si concretizza nella nascita di obbligazioni accessorie finalizzate a ciò. Successivamente, tale obbligo si è tentato di estenderlo finanche ai soggetti terzi del rapporto obbligatorio orbitanti nella sfera giuridica del creditore.

Un’ulteriore funzione integrativa della buona fede è quella di gestione delle sopravvenienze rispetto alle pattuizioni iniziali. In tale accezione, la buona fede impone alle parti di rinegoziare l’assetto di interessi iniziale alla luce di circostanze sopravvenute, che rendono eccessivamente difficoltoso, alla luce del parametro di cui all’art. 1176 cc, l’adempimento per il debitore.

Svolte tali premesse, occorre rilevare che il campo applicativo del principio in esame si estende anche alla funzione di limite funzionale all’autonomia negoziale.

Una prima ipotesi in tale senso è rappresentata dal divieto di abuso del diritto, in cui la buona fede si pone come limite esterno all’esercizio dei diritti, sanzionando quelle condotte che, seppur formalmente lecite, sono in concreto lesive dell’altrui sfera giuridica.

Come dimostrato, infatti, dai leading case “Fiuggi” e “Renault”, il divieto in parola opera quando vi sia un diritto che può essere esercitato in più modalità, e la parte titolare dello stesso lo esercita in modo tale da ledere l’altrui sfera giuridica, sviando, quindi, il modello legale dalla sua funzione originaria. Così, una volta accertata l’abusività dell’esercizio, la parte lesa può invocare i rimedi previsti, tra i quali compare l’exceptio doli generalis; il quale consiste nella disapplicazione delle norme poste a presidio del diritto azionato, negando, quindi, la tutela richiesta alla parte che ne invoca l’applicazione.

In seconda analisi, il principio di buona fede trova applicazione in materia contrattuale, insieme all’art. 41 Cost. e alla teoria della causa in concreto, quale limite funzionale all’autonomia privata.

Dalla prospettiva che si esamina, infatti, il negozio giuridico è un atto di autonomia, mediante cui la parti danno vita a un ordinamento autonomo; rispetto allo stesso, la buona fede agisce sia come regola comportamentale nelle fasi di formazione ed esecuzione, sia come regola di validità, anche se tale aspetto è ancora discusso, nonostante abbia trovato l’avallo della Corte di Cassazione.

Per quanto riguarda la funzione di limite comportamentale, la norma di riferimento è l’art. 1337 cc che opera nei casi di trattativa fallita e nei casi di trattativa dannosa, vale a dire in tutte quelle fattispecie in cui la trattativa conduce a un contratto valido, ma sconveniente.

Queste ultime fattispecie sono state teorizzate come ipotesi di vizi incompleti, cioè di vizi tali da non rendere invalido il contratto. Rispetto a tale ipotesi la buona fede consente il controllo giurisdizionale della “procedural justice” e successivamente della “substantive justice” contrattuale, vale a dire dell’equilibrio negoziale raggiunto dalle parti per il tramite della trattativa dannosa. In ultima analisi, quindi, la buona fede, da regola comportamentale, diviene regola attizia.

A sostegno della tesi militano numerosi argomenti: in primo luogo, il dato letterale dell’art. 1337 cc non consentirebbe di distinguere tra comportamenti che sfociano nella conclusione del contratto o meno; in secondo luogo, l’argomento teleologico imporrebbe di considerare la buona fede come principio con funzione poliedrica; in terzo luogo, da un punto di vista sistematico gli artt. 1440, 1494, 1812 e 1821 del Codice civile sarebbero espressione di una regola generale passibile di applicazione analogica.

Vi è, tuttavia, chi opina contrariamente sostenendo che, ammettendo un sindacato così penetrante sull’autonomia negoziale, la buona fede diverrebbe un “apriscatole giuridico” in grado di minare la certezza dei rapporti giuridici; sarebbe in contrasto, inoltre con il principio del numerus clausus delle ipotesi di invalidità; e, infine, violerebbe la distinzione tra regole comportamentali e regole attizie.

In conclusione, dunque, appare possibile affermare che la buona fede ha assunto un ruolo sempre più centrale nel sistema dei principi del diritto civile, grazie ad una lettura costituzionalmente orientata delle norme che la prevedono. Si è, infatti, appurato che tale principio permea tutti i rapporti obbligatori mediante la nascita di obbligazioni accessorie di protezione; nonché la vita dei contratti, i quali vengono accompagnati sin dalla loro nascita dalla buona fede.


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