La business judgment rule e la clausola dell’adeguatezza degli assetti organizzativi

La business judgment rule e la clausola dell’adeguatezza degli assetti organizzativi

Sommario: Introduzione – 1. Le modifiche codicistiche sugli assetti organizzativi adeguati a carico dell’imprenditore – 2. La finalità della continuità aziendale: dubbi interpretativi e spunti critici – 3. La Business Judgment rule (BJR) e gli assetti come obbligo strumentale – 4. Il processo decisionale e la BJR: la responsabilità degli amministratori – 5. La discrezionalità delle scelte organizzative e la BJR: il principio di adeguatezza

 

Il nuovo art. 2086, comma II c.c. ha posto alla dottrina numerosi interrogativi che ruotano intorno alla clausola generale che postula la necessità per l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di dotarsi di assetti organizzativi che siano adeguati alla natura e alla dimensione dell’impresa.  Il presente elaborato tenterà di rispondere ai più frequenti quesiti che il tema pone: che ruolo giocano gli assetti organizzativi in merito alla responsabilità degli amministratori? La Business Judgment rule (BJR) in che modo è legata alle scelte organizzative del Consiglio di Amministrazione? Fino a che punto tali scelte possono essere connotate da elementi di discrezionalità

Introduzione

Un tema che sembra appassionare la dottrina giuscommercialistica riguarda la potenziale applicabilità della c.d. Business judgment rule(BJR)[1] alle scelte organizzative degli amministratori soprattutto con riguardo alla costruzione ed alla “ manutenzione” degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili dell’impresa.

La questione ha interessato la dottrina in occasione dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 2086, comma II, c.c. che, come è noto, ha posto in capo all’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva, l’obbligo di dotarsi di assetti adeguati. L’avvento di tale norma, mediante l’art. 375 del Dlgs n. 14/2019 ( Codice della crisi) è stato prorompente ma non inaspettato giacché  la L. n. 155/2017 già conteneva, all’art. 14, comma I, lett. b), il relativo principio[2] e la proposta di decreto legislativo di attuazione recante modifiche al Codice civile, predisposta e resa nota il 22 dicembre 2017 dalla Commissione Rordorf[3], già prevedeva, all’art. 1, comma II, una versione identica a quella fatta propria dal Codice della crisi,  con l’unica differenza che gli obblighi ivi indicati erano estesi anche all’imprenditore individuale.

L’ampio dibattito che si è dipanato attorno all’art. 2086, comma II, c.c. e ad al correlato art. 377 del Codice della Crisi[4] ha condotto parte della dottrina a ritenere che da un lato sia stata sovrastimata la novità delle citate norme, in quanto, l’obbligo degli assetti[5], seppur collocato in un angolo più appartato dell’impianto normativo, era già presente e vivo per tutte le società di capitali[6] e dall’altro che sia stato tralasciato il peso rivoluzionario assegnato al principio di continuità aziendale che sembra uscire da un piano meramente contabile, divenendo il punto di riferimento centrale nella gestione dell’impresa, negli obblighi conseguenti all’eventuale crisi e, da ultimo, nella responsabilità degli organi sociali.

1. Le modifiche codicistiche sugli assetti organizzativi adeguati a carico dell’imprenditore

Tra le modifiche apportate dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza[7] al Codice civile spicca senza alcun dubbio l’obbligo in capo all’imprenditore di predisporre assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alla dimensione dell’impresa. In via preliminare, appare opportuno verificare se si tratti di reali innovazioni o, piuttosto, della codificazione di principi e regole già enucleabili dal previgente sistema societario e dell’impresa.

Nonostante sia collocato nell’ambito dei doveri specifici, la dottrina dominante ha concepito tale obbligo come l’applicazione concreta della regola della diligenza gravante sull’organo gestorio. Ed infatti ad una più attenta indagine si nota che si tratta di un dovere a contenuto generico, applicabile a qualsiasi imprenditore, ponendosi quindi come un principio transtipico[8].

In altre parole, si tratterebbe di una clausola generale la cui portata precettiva prende luce dal contesto in cui il dovere imprenditoriale si colloca, un contesto delineato dalla formula normativa che rinvia alla natura dell’attività economica esercitata e alle caratteristiche merceologiche e dimensionali.

Escludendo i settori, come quello finanziario, in cui la disciplina regolamentare lo ha declinato in puntuali prescrizioni organizzative, si tratta di un dovere a contenuto indeterminato, limitandosi la legge ad affermare la relatività della nozione di adeguatezza ricollegandola alla natura e alle dimensioni dell’impresa[9]. Spetta quindi all’interprete il compito di definire il contenuto dell’obbligo, il significato da attribuire alla clausola generale di adeguatezza e il tipo di sindacato che è necessario operare sulle scelte organizzative.

E’ necessario, preliminarmente, delimitare il campo dell’indagine chiarendo che il sintagma  “assetti organizzativi”, per il modo con cui è stato trasfuso nel codice civile sulla base dell’influenza esercitata dalla regolamentazione introdotta nelle discipline settoriali, non va inteso come riferito all’intera organizzazione imprenditoriale, ma in un’accezione più limitata a quelle procedure e a quelle prassi operative tramite le quali è possibile assicurare l’affidabilità delle informazioni e dei dati aziendali sulla base dei quali si formano i processi decisionali, la corretta individuazione e il presidio dei principali rischi connessi all’attività esercitata, una chiara individuazione delle gerarchie, competenze e responsabilità delle diverse funzioni aziendali.

Nel tentarne una definizione si è fatto riferimento alle indicazioni desumibili dalle discipline settoriali, alle elaborazioni della scienza aziendalistica in tema di organizzazione, agli spunti contenuti nel Codice di Autodisciplina e soprattutto alle linee guida recepite dalle Norme di comportamento del collegio sindacale elaborate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ai fini della vigilanza di cui all’art. 2403 c.c. Nonostante l’apprezzabile sforzo, che comunque fornisce un contributo alla definizione delle condotte gestionali richieste dalla legge, occorre prendere atto che non sono concepibili assetti universalmente validi e che le indicazioni provenienti dalle fonti sopracitate non possono essere meccanicamente applicate come regole valide in tutte le situazioni.

Le discipline settoriali trovano uno specifico fondamento nella natura dei rischi che si ricollegano all’attività e negli interessi pubblicistici che intendono tutelare e, per quanto riguarda il contributo delle scienze aziendalistiche, occorre tener presente che la nozione di adeguatezza non coincide con quella di efficienza e di efficacia con cui la scienza aziendalistica seleziona le misure organizzative che permettono di perseguire nel modo migliore gli obiettivi che l’impresa si propone di realizzare.

Inoltre, occorre notare  che la natura  relativa della nozione di adeguatezza degli assetti organizzativi non dipende unicamente dal tipo di attività e dalle dimensioni dell’impresa (e dunque dall’applicazione di un criterio di proporzionalità), ma è soprattutto correlata alle scelte strategiche e al contesto in cui la società si trova ad operare che, definendo il quadro dei rischi a cui essa è esposta, richiedono una coerente predisposizione delle strutture organizzative.

Vi sono aspetti dell’organizzazione in cui la presenza di chiari riferimenti normativi in merito al risultato che occorre conseguire semplifica l’individuazione del livello di adeguatezza richiesto.

L’esempio più evidente riguarda il sistema contabile la cui predisposizione, per essere adeguata, deve necessariamente consentire la corretta rilevazione dei fatti di gestione al fine di rendere attendibili le verifiche periodiche sull’andamento della gestione e le comunicazioni finanziarie rivolte ai soci e al pubblico ed essere in grado di fornire quei dati che sono richiesti ai fini della formulazione dei piani previsionali. E il percorso con cui pervenire a questo risultato è segnato in dettaglio dalle norme in materia contabile che inevitabilmente condizionano le misure organizzative necessarie a garantirne il rispetto.

Lo stesso non può essere affermato, invece, in relazione alla predisposizione di un sistema strutturato di controlli interni in quanto il ruolo centrale assegnato agli stessi non trova riscontro nella disciplina societaria di diritto comune, con la sola eccezione del sistema monistico[10], probabilmente dovuta, come ritiene parte della dottrina, all’idea del legislatore che il sistema monistico sia naturalmente  destinato alle grandi imprese. Considerata l’attenzione rivolta dal legislatore al tema degli assetti organizzativi, l’assordante silenzio dedicato alle società non quotate non può ritenersi casuale, ma piuttosto va inquadrato nella tendenza a non gravare le società minori di oneri organizzativi tali da generare costi difficilmente sopportabili e da complicare in modo eccessivo i processi decisionali compromettendo la correttezza della gestione[11].

Naturalmente questo non comporta che per le società per azioni di diritto comune vi sia un generale esonero dall’istituzione di un sistema di controlli interni: al contrario, occorre valutare quale sia l’effettivo “rischio organizzativo” al quale la società è esposta al fine di verificare la conseguente necessità di dotarsi di un sistema di controlli adeguato alla complessità della struttura imprenditoriale e alla natura ed entità dei rischi che l’attività esercitata comporta.

2. La finalità della continuità aziendale: dubbi interpretativi e spunti critici

Il novellato art. 2086 c.c., pur regolando in termini generali il dovere di istituire e monitorare adeguati assetti organizzativi, estendendolo ad ogni imprenditore collettivo[12], lo pone anche in correlazione alla finalità di “tempestiva rilevazione della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale[13]”.

Il tema impone un rilievo sul piano interpretativo. La dottrina si è chiesta se lo “stato di crisi” e la “perdita di continuità aziendale” operino sullo stesso piano, sì che entrambe rinviano alla nozione di crisi, o se abbiano una diversa operatività, sì che la perdita di continuità aziendale anticipa la crisi o, addirittura, la oltrepassi comportando l’insolvenza[14].  Il contrasto interpretativo dipende dall’intrinseca polisemia e ambiguità della nozione di continuità aziendale. Essa può essere intesa sia in senso statico, come funzionamento del complesso aziendale quale strumento produttivo di nuova ricchezza, così che la sua perdita coinciderebbe con la cessazione del suo funzionamento; ma anche in senso dinamico e prospettico, concepita come capacità del complesso aziendale di mantenere la produzione di nuova ricchezza nel prevedibile futuro, sì che la sua perdita si identificherebbe, più che nella attuale cessazione di attività, nella prospettiva di una futura e prossima cessazione.

Aderire alla prima accezione implicherebbe che la rilevazione tempestiva della perdita della continuità aziendale arriverebbe troppo in ritardo e non ci sarebbe ragione di inserirla tra le finalità degli assetti organizzativi che devono fungere da cautela e strumento di allerta. Nella seconda accezione la continuità aziendale indica una capacità prospettica, la cui perdita è valutabile sulla base di indici che non segnalano un’immediata cessazione dell’attività e dell’azienda quale “complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito[15]”. La migliore dottrina ha poi segnalato che qualora si trattasse di indici segnalatori della probabilità di perdita di continuità aziendale, sarebbe un’inutile ridondanza rispetto alla tempestiva rilevazione dello stato di crisi. Una conferma in questa direzione si può trarre dalla evidente funzionalizzazione dell’obbligo di adeguati assetti organizzativi anche alla rilevazione tempestiva della crisi nella disciplina degli “strumenti di allerta”.

L’art. 12, comma I, c.c.i. indica quali strumenti di allerta oltre agli obblighi di segnalazione in capo agli organi di controllo societari e ai creditori pubblici qualificati, anche gli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, finalizzati alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione. In aggiunta a ciò, quando l’art. 13, comma I, c.c.i. descrive cosa debba intendersi per indicatori della crisi, fa riferimento a squilibri “rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei successivi”. Dunque, appare chiaro che le prospettive di continuità aziendale siano parte integrante degli indici rilevanti per la tempestiva emersione o segnalazione dello stato di crisi e che dunque non si debba attendere la rilevazione della perdita di continuità aziendale, ma semmai la rilevazione di indici che rendano probabile in prospettiva la perdita di continuità aziendale[16].

3. La Business Judgment rule (BJR) e gli assetti come obbligo strumentale

La dottrina di stampo statunitense, nota come Business Judgment rule[17], assolve alla funzione di circoscrivere il rischio per gli amministratori di società di essere giudicati responsabili per avere assunto decisioni imprenditoriali che si rivelino errate e comporta l’insindacabilità giudiziale di questo tipo di scelte.

La BJR può essere considerata ius receptum nei principali ordinamenti dell’Europa continentale e nei Paesi anglosassoni, nonostante l’applicazione della regola sia tutt’altro che uniforme.

Tale dottrina, come noto, pone l’attenzione sul processo decisionale anziché sulla valutazione sostanziale del merito della decisione. Assente un conflitto d’interessi o un’infedeltà degli amministratori, la regola di stampo statunitense previene il giudice dal valutare, col senno del poi, quelle decisioni che, seppur rivelatesi pregiudizievoli per la società, siano state il prodotto di un procedimento razionale e per le quali gli stessi amministratori si siano avvalsi di tutte le informazioni ragionevolmente disponibili. La ratio di tale regola consiste sia nell’intrinseca incertezza della funzione amministrativa e nel connesso rischio di insuccesso, del quale non devono farsi carico i gestori bensì i soci, ma anche nell’esigenza di circoscrivere la revisione giudiziaria sulle decisioni relative alla gestione.

La regola è tradotta nel nostro ordinamento come segue: “in tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità nel merito delle sue scelte di gestione trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c. (nel testo applicabile ratione temporis), sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere[18]”.

Con specifico riguardo al tema degli assetti adeguati, la dottrina è concorde nel ritenere che il relativo obbligo gravante sugli amministratori sia caratterizzato dalla natura squisitamente strumentale. In altre parole, si tratta di un obbligo suscettibile di essere sanzionato in via autonoma nel caso di sua violazione da parte dell’organo amministrativo, ma che certamente assume rilievo quale “mezzo” che agevola l’adempimento di altri obblighi sia generici che specifici degli amministratori o, specularmente, agevola l’accertamento della violazione degli stessi.

Tale assunto rimanda in maniera evidente a due specifici doveri che hanno da sempre rappresentato il “terreno fertile” della responsabilità dell’organo gestorio: l’obbligo di convocare “senza indugio” l’assemblea in caso di perdite[19] e quello di accertare e di iscrivere nel Registro delle imprese il verificarsi di una causa di scioglimento[20] della società, con la conseguenza di dover limitare la gestione alla mera conservazione del patrimonio sociale[21].

In relazione all’obbligo di convocare “senza indugio” l’assemblea nelle ipotesi di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c., incidono in modo positivo le previsioni legislative concernenti gli assetti adeguati, intesi quale dovere strumentale.

L’istituzione di efficaci e funzionanti assetti, soprattutto di carattere amministrativo e contabile, potrà infatti consentire agli amministratori un monitoraggio pressoché continuativo dello stato patrimoniale, economico e finanziario della società. Strumenti aziendalistici quali i bilanci effettivi di verifica, parte degli “assetti contabili”, permettono agli amministratori di ottenere tempestive informazioni e quindi, nel caso, adempiere all’obbligo specifico di convocare l’assemblea “senza indugio” in caso di perdite oltre la soglia legale.

Con riferimento all’obbligo di cui al comma I dell’art. 2486 c.c., i danni risarcibili derivano dal fatto che gli amministratori, omettendo di accertare e di iscrivere senza indugio la causa di scioglimento nel registro delle imprese, ne hanno ritardato gli effetti[22] , potendo continuare, dunque, a gestire la società senza doversi limitare[23] ai soli atti conservativi dell’integrità e del valore del patrimonio sociale[24].

Il comma II dell’art. 2486 c.c. segna il passaggio della responsabilità per il compimento di nuove operazioni a quella per la violazione dei doveri di conservazione del patrimonio sociale, ove ne scaturisca un danno, ma il momento in cui scatta l’obbligo è pur sempre il medesimo: la perdita del capitale sociale o più esattamente la riduzione dello stesso al di sotto del limite legale.

Oggi, l’obbligo previsto in capo all’imprenditore collettivo di dotarsi, ai sensi dell’art. 2086, comma II, c.c., di un idoneo assetto organizzativo, amministrativo e contabile, anche ai fini della rilevazione tempestiva della crisi, accentua la natura strumentale di tale obbligo.

Dunque, se così fosse, il rilievo che norme concernenti gli assetti adeguati posseggono risulta evidente; da un lato la presenza di idonei assetti amministrativi e contabili costituisce un fondamentale strumento che consente agli amministratori di adempiere all’obbligo di accertare senza indugio il verificarsi di una causa di scioglimento relativa alla riduzione del capitale al di sotto del limite legale o, al contrario, agevola la prova di non aver tempestivamente avviato iniziative per affrontare ed auspicabilmente superare la crisi; dall’altro, laddove la norma violata non concerna direttamente gli assetti[25], è esclusa l’applicabilità della BJR, poiché in tal caso il danno è la conseguenza della violazione di altre disposizioni.

4. Il processo decisionale e la BJR: la responsabilità degli amministratori

Il disposto di cui all’art. 2086, comma II, c.c. quando prescrive l’obbligo di dotarsi di assetti adeguati gioca un ruolo di rilievo rispetto al tema della responsabilità degli amministratori in relazione alle scelte discrezionali di gestione, ossia in rapporto alla BJR.

Infatti, dinanzi ad un danno causato da una errata scelta gestionale degli amministratori, la loro responsabilità dipenderà, in misura prevalente, dalla presenza o meno di adeguati assetti e dal loro corretto funzionamento.

Risulta particolarmente condivisibile l’espressione della dottrina nord-americana secondo cui “the due care standard in a corporate context is applied not to the decision of the director, but rather to the decision-making process[26]”.

È nota l’evidente difficoltà nell’individuare una soluzione soddisfacente ed equilibrata al tema della discrezionalità delle scelte gestionali. Infatti, aldilà del criterio generale secondo cui le decisioni degli amministratori debbano, per essere esenti da censure, conformarsi a criteri di prevedibilità ed evitabilità delle conseguenze insoddisfacenti e pregiudizievoli, sussiste il rischio concreto che il giudizio ex post sia in realtà sganciato da effettivi punti di riferimento.

In tale quadro, l’obbligo di istituire assetti adeguati, ossia la presenza di un funzionante sistema organizzativo, amministrativo e contabile, idoneo in una certa misura a consentire una verifica preventiva di efficacia ed efficienza delle scelte di gestione, può giocare un ruolo decisivo nell’individuazione di un solido criterio a cui ancorare la responsabilità degli amministratori.

Il processo decisionale appare allora decisivo nell’attribuzione della responsabilità all’organo gestorio.

In altri termini, le scelte di gestione che abbiano causato danni al patrimonio sociale determineranno la responsabilità degli amministratori qualora il processo di decision making sia risultato difettoso. Al contrario, qualora si constati la presenza e il funzionamento di idonei assetti e procedure, gli amministratori andranno esenti da responsabilità. Pertanto, “the due care standard in corporate law is applied to the decision- making process and not to its result. Even though a decision made or a result reached is not that of the hypothetical ordinarily prudent person, no liability will attach as long as the decision making process meets the standard[27]”.

In conclusione, rispetto alle più rilevanti scelte di gestione, soprattutto se connotate da particolari elementi di discrezionalità, la presenza di business plan, di indagini di mercato, di previsioni di sostenibilità del debito, di valutazioni rischio – paese (nel caso di investimenti esteri), di piani di sviluppo e di recovery, rappresentano elementi fondanti di un adeguato assetto organizzativo della società, il cui rispetto consente di pieno dispiegarsi della BJR.

5. La discrezionalità delle scelte organizzative e la BJR: il principio di adeguatezza

Nell’esaminare la questione centrale a cui questo contributo è dedicato occorre, in primo luogo, domandarsi se anche le scelte organizzative possano essere connotate da elementi di discrezionalità.

A tali quesiti, la dottrina ha fornito risposta positiva sulla base di una serie di argomentazioni.

Nella costruzione degli assetti contabili, ad esempio, la scelta dei sistemi informativi e di contabilità da utilizzare è indubbiamente una scelta discrezionale; così come lo è nell’ambito degli assetti amministrativi, l’individuazione delle procedure e la loro articolazione concreta a seconda della natura e delle dimensioni dell’impresa; anche i profili organizzativi sono un terreno su cui poter operare valutazioni discrezionali.

Il tema, peraltro, è che nella maggior parte dei casi dalle scelte organizzative di carattere discrezionale è difficile immaginare che ne derivi un danno che è il presupposto principale di ogni azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali e, dunque, in tali contesti richiedere l’applicazione della BJR appare fuori contesto.

Nelle limitate e circoscritte ipotesi in cui, al contrario, da una scelta discrezionale di carattere organizzativo derivi un danno come conseguenza diretta ed immediata, sarà necessario verificare il da farsi. Ad esempio, qualora le concrete valutazioni discrezionali in ordine alla cyber security si dimostrino inefficaci, se non gravemente deficitarie, e provocando un danno alla società o a terzi, occorre domandarsi come misurare il grado di responsabilità gravante sugli amministratori.

Su tale specifico punto, una risposta univoca non potrà essere data. Infatti, la soluzione non risiede né nell’invocare pedissequamente l’applicazione della BJR, né negarla a priori sostenendo che la regola si applichi solo alle scelte di gestione. In realtà occorre considerare che il legislatore interno ha stabilito che gli assetti debbano essere connotati dal requisito dell’adeguatezza, clausola generale che risulta di fondamentale importanza per chiarire la questione.

In altri termini, la responsabilità degli amministratori nei casi di danni provocati direttamente da valutazioni discrezionali di carattere organizzativo dovrà essere accertata facendo unicamente capo alla verifica dell’adeguatezza delle scelte compiute, non essendo rilevante l’applicazione della regola statunitense. Una parte della dottrina, nel contestare il precedente assunto, afferma che il confine tra la clausola generale dell’adeguatezza e il principio sottostante la BJR sia in concreto assai labile, ma in ogni caso non sarebbe comunque spiegata la necessità di ricorrere ad una regola di ius mercatorum, quando il legislatore offre in modo netto e rigoroso una regola equivalente.

 

 

 


[1] La BJR è una dottrina di stampo statunitense che assolve alla funzione di circoscrivere il rischio per gli amministratori di società di essere giudicati responsabili per aver assunto decisioni imprenditoriali che si rivelino successivamente errate e comporta l’insindacabilità giudiziale nel merito di questo tipo di scelte. L. BENEDETTI “L’applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori”, in Riv. Soc., 2019, p.413.
[2] Più precisamente era stabilito tra i principi e i criteri direttivi posti al legislatore delegato: “il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. Analogo principio era previsto, anche sul piano letterale, dall’ art. 13 lett. b) dallo Schema di disegno di legge delega predisposto dalla Commissione Rordorf e reso noto il 22 dicembre 2015.
[3] La “Commissione di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo in vista dell’approvazione del disegno di legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” costituita il 5 ottobre 2017 dal Ministro Orlando per la predisposizione dello schema di decreto delegato, è stata presieduta da Renato Rordorf e composta da esperti tra magistrati, docenti universitari e professionisti e pertanto è stata denominata “Seconda Commissione Rordorf”.
[4] M. IRRERA “La collocazione degli assetti organizzativi e l’intestazione del relativo obbligo”, in NDS – Nuovo Diritto delle Società, p.115, 2020. Dove l’autore dedica ampio spazio al tema in oggetto.
[5] Da sempre in capo agli amministratori
[6] In relazione alle Società per Azioni, la dottrina aveva riconosciuto la sussistenza di tale obbligo in virtù del dettato dell’art. 2403 c.c. in tema di Collegio sindacale, “ là dove si stabiliva che i sindaci dovessero vigilare oltre che sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione; certamente la vigilanza competeva all’organo di controllo, ma l’obbligo di improntare l’attività a principi, appunto, di corretta amministrazione non poteva che riguardare coloro che fossero stati chiamati a gestire l’attività sociale, ossia gli amministratori”. M. IRRERA “Gli obblighi degli amministratori di società per azioni tra vecchie e nuove clausole generali”, in NDS, 2005, p. 217 ss.
[7] D. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14
[8] Espressione attribuibile a S. FORTUNATO “Codice della crisi e codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità”, in RDS – Rivista delle Società, fasc. V, 12/2019, p. 952.
[9] Art. 2381, comma V, c.c.
[10] Art. 2409 octiesdedies, comma V, c.c.
[11] V.C. BUONAURA “Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nelle società per azioni”, in Giur. Comm., fasc. II, 4/2020, p. 439 ss.
[12] La dottrina è concorde nel ritenere che tale obbligo valga anche per l’imprenditore individuale tenendo conto della natura e dimensioni dell’impresa. L. BENEDETTI “l’applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori”, in Riv. Soc., 2019, p. 414.
[13] Con conseguente adozione degli strumenti per il superamento della crisi e del recupero della continuità aziendale.
[14]S. FORTUNATO “Codice della crisi e codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità”, in Riv. Soc., fasc. V, 12/2019, p. 952.
[15] OIC 11, punto 21
[16] per una lettura critica di queste disposizioni si veda L. STANGHELLINI “Il codice della crisi d’impresa: una primissima lettura( con qualche critica)”, in Corr. Giur. 2019, p. 450 ss.
[17] Per una definizione di BJR con riferimento alla dottrina americana, si vedano ex multis BRANSON D.M. “the rule that isn’t a rule – the Business Judgment rule”, Valparaiso University Law Review, V. 36, Valparaiso, IN(USA), p. 631.
[18] Cass., 22.6.2017 n. 15470, in Sistema integrato Eutekne
[19] Artt. 2446 e 2447 c.c.
[20] Art. 2485, comma I, c.c.
[21] Art. 2486, comma I, c.c.
[22] Art. 2484, comma III, c.c.
[23] Come imposto dalla norma citata se avessero provveduto all’iscrizione della causa di scioglimento
[24] Art. 2486, comma III, c.c.
[25] Oggi in particolare l’art. 2086, comma II, c.c.
[26] Espressione traducibile in “il dovere di diligenza in un contesto societario si applica non alle decisioni degli amministratori, quanto piuttosto al processo decisionale”.Cosi C. HANSEN “The ALI Corporate Governance Project: of the Duty of Due Care and the Business Judgment Rule, a commentary”, in Business Lawyer, 41, 1986, p. 1237 ss. e p.1241
[27] Espressione traducibile in “il dovere di diligenza nel diritto societario si applica al processo decisionale e non al suo risultato. Anche se una decisione assunta o un risultato raggiunto non è quello dell’ipotetica e ordinaria persona prudente, nessuna responsabilità potrà attribuirsi qualora il processo decisionale è coerente con gli standard”. Cosi C. HANSEN, vd. Supra.

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