La Cassazione traccia la linea di confine tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione

La Cassazione traccia la linea di confine tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione

Cass. pen., Sez. II,  3 novembre 2016,  n. 46288.

1. La vicenda processuale.

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione ritorna sulla controversa questione relativa ai criteri di distinzione tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione.

Nel caso di specie, gli imputati venivano condannati in primo grado e in grado di appello, per il delitto previsto dall’articolo 629 c.p., in quanto, in concorso tra loro, avevano esercitato violenze e minacce in danno  della persona offesa, debitrice nei confronti di uno dei coimputati, per ottenere l’adempimento del debito. In particolare,  essi costringevano la vittima a consegnare la sua autovettura a titolo di pegno,  oltre a fargli firmare un documento ricognitivo del debito  a titolo di ulteriore garanzia.

Avverso la sentenza di appello, a mezzo dei propri difensori, i coimputati proponevano ricorso per Cassazione, deducendo  una serie di motivi.  Nello specifico, i ricorrenti si dolevano dell’errata qualificazione giuridica dei fatti accertati, ritenendo che dovevano essere  sussunti, tutt’al più,  nell’alveo dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone  e non nell’ipotesi più grave di estorsione.

2. Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione.

Preliminare all’esame della sentenza in commento, appare opportuno svolgere una breve disamina in ordine ai delitti di cui agli articoli 392, 393 e 629 c.p.

Le fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sono contemplate nel Libro II, Titolo III,   rubricato: “ Dei delitti contro l’amministrazione della giustizia”. Tali reati sono connotati da una portata plurioffensiva, in quanto volti a tutelare l’interesse pubblico al ricorso obbligatorio alla giurisdizione,  quale espressione  del cosiddetto “monopolio giurisdizionale” nella risoluzione delle controversie, oltre l’interesse privatistico attinente al destinatario della minaccia o della violenza.

I presupposti della condotta delittuosa sono: un conflitto tra contrastanti pretese giuridiche,   in quanto la condotta violenta deve essere finalizzata all’esercizio di un diritto non riconosciuto dall’antagonista; la titolarità di un diritto  la cui realizzazione possa essere ottenuta attraverso l’amministrazione della giustizia; la possibilità di ricorrere all’Autorità giudiziaria.

 Nell’articolo 392 c.p., la condotta penalmente rilevante consiste “in qualsiasi fatto positivo e violento perpetrato  nei confronti di cose diretto a rimuovere l’ostacolo per l’attuazione del preteso diritto”.  Nello specifico, il comma 2   dell’articolo in esame  fornisce una definizione di “violenza sulle cose”,  individuandola in qualsiasi comportamento di danneggiamento, trasformazione o  mutamento di destinazione della cosa.

Invece,  nell’articolo  393 c.p., la condotta tipica consta  di comportamenti violenti o minacciosi contro la persona. Per quanto riguarda i concetti di violenza o minaccia,  questi possono essere mutuati dagli articoli  581, 610 e 612  del codice penale.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, i reati in esame sono punibili a titolo di dolo.

Secondo l’orientamento prevalente[1], al dolo generico deve aggiungersi   quello specifico, consistente nella finalizzazione della condotta all’attuazione del preteso diritto nel ragionevole convincimento della sua legittimità.

Il delitto di estorsione  è inserito dal legislatore nei delitti contro il patrimonio ed è disciplinato dall’articolo 629 c.p. Si tratta di un reato comune, non essendo richiesto dalla norma che il soggetto attivo rivesta una particolare qualifica soggettiva.

L’articolo 629 c.p. incrimina la condotta di chi, mediante violenza o minaccia, coarti la volontà della vittima  costringendola a tenere determinati comportamenti lesivi del proprio patrimonio  che  determinano  un ingiusto profitto per l’autore e un  danno per la persona offesa.  Da ciò emerge la natura plurioffensiva del delitto in esame, che  mira a tutelare il patrimonio e la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.

Il delitto de quo, per le modalità di esecuzione del fatto criminoso, rientra nel novero dei reati la cui realizzazione è subordinata ad una cooperazione artificiosa della vittima.

Per quanto attiene all’elemento soggettivo, è  dibattuta  in dottrina e  in giurisprudenza la qualificazione del dolo.

L’indirizzo giurisprudenziale tradizionale e parte della dottrina[2]  ritengono che  l’estorsione sia un  reato a dolo specifico,  integrato dalla consapevolezza da parte dell’agente di usare la violenza o la minaccia, al fine di procurare a sé, o ad altri, l’ingiusto profitto con altrui danno.

L’orientamento maggioritario e un’ altra parte della dottrina[3], invece, sostengono che il delitto in esame  sia sorretto dal dolo generico,  in quanto  la realizzazione  del profitto con altrui danno non sta fuori al fatto-reato, ma ne costituisce l’evento che, in quanto tale, deve essere voluto dall’agente.

3. I rapporti tra i due delitti nell’esperienza giurisprudenziale.

Delineati gli elementi essenziali dei due delitti, senza alcuna pretesa di esaustività, occorre prendere in esame i diversi orientamenti giurisprudenziali,   che si sono registrati in tema di distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni   e quello di estorsione.

Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale[4], i due delitti si distinguono non per la materialità del fatto,  che può  essere anche   identica, ma per l’elemento soggettivo: nell’articolo 393 c.p., l’agente persegue la realizzazione del profitto nella convinzione ragionevole, anche se errata, di esercitare un suo preteso diritto;   nell’articolo  629 c.p., invece, l’agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la consapevolezza che quanto pretende non gli è dovuto.

Invece, un  diverso orientamento giurisprudenziale[5]  sostiene che la linea di confine   tra i due reati sia  individuabile nelle modalità in cui si esplica la condotta.

Difatti, se la  violenza o la  minaccia è circoscritta, tollerabile e, soprattutto,  connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, allora si configurerà il  delitto di cui all’articolo  393 c.p.;  laddove, invece, la condotta minacciosa o violenta si estrinsechi con una forza intimidatoria e una particolare pervicacia  che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio diritto, allora  la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto ingiusto con conseguente sussunzione della condotta sotto la fattispecie dell’estorsione. Dunque, secondo tale filone giurisprudenziale, occorre verificare il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa, per cui si rimane nell’ambito dell’estorsione quando venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine.

Tale seconda impostazione è stata sottoposta a dure critiche.

Una parte della dottrina[6] ha  osservato che il criterio di distinzione,  basato sull’intensità della violenza, si pone in contrasto con il principio di legalità, poiché  introduce un elemento “l’intensità della violenza o della minaccia” estraneo alla previsione legale,  che pone problemi di compatibilità con il principio di  determinatezza, non risultando possibile individuare una soglia di gravità della condotta violenta o minacciosa,  al cui superamento si  configuri  il delitto di estorsione. Tale orientamento finisce per rimettere alla discrezionale valutazione del giudice la linea di confine tra le due fattispecie,   con conseguenze sul piano sanzionatorio.

4. La soluzione adottata da Cass. 46288/2016.

La Suprema Corte,   nella pronuncia in commento,  sostiene che i due reati si distinguono in base all’elemento psicologico e al soggetto agente.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, i giudici di legittimità ritengono che nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, il soggetto attivo persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in concreto eventualmente infondata di soddisfare una personale pretesa, che potrebbe formare oggetto di un’azione giudiziaria. Diversamente, nell’estorsione, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne alcun diritto.

 Con riferimento al soggetto attivo del reato, il Supremo Collegio osserva che  nei delitti di cui agli articoli  392 e 393 c.p., il soggetto agente è solamente “chiunque si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo”; questo  dato testuale comporta che tali fattispecie incriminatrici  rientrino   nei cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, nel senso che  la loro commissione richiede l’intervento diretto del soggetto indicato dalla legge, quindi, di colui che è titolare del  preteso diritto.

Tale assunto rileva, in modo particolare,  nelle ipotesi di concorso di persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poiché nel caso in cui a porre in essere la condotta tipica di violenza e minaccia prevista dagli articoli 392 e 393 c.p.,  non è il soggetto che pretende di far valere un proprio diritto, ma un terzo da questi designato o incaricato si configurerebbe il più grave reato di estorsione; invece, si andrebbe a delineare il concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni,  laddove a porre in essere la condotta materiale sia il soggetto che vanta un diritto, seppur aiutato da un terzo estraneo alla pretesa che si intende far valere.

Inoltre,   i giudici osservano che il contrasto giurisprudenziale tra gli orientamenti che si sono formati nel corso del tempo è “più apparente che reale”. Difatti, gli Ermellini sostengono che anche le pronunce che valorizzano la proporzionalità della condotta violenta o minacciosa   e il fine perseguito, fanno sempre e comunque applicazione dell’elemento soggettivo,  quale elemento di distinzione tra i due reati. Ne deriva  che l’intensità della condotta violenta o minacciosa,  anche se non costituisce il discrimen tra   le due fattispecie, può essere riconosciuta  come indice sintomatico del dolo di estorsione. Infatti,   le condotte  sproporzionate e gratuite di violenza o di  minaccia che comprimono  la libertà di autodeterminazione della persona offesa costituiscono certamente un indizio della configurazione del reato di cui all’articolo  629 c.p. Pur tuttavia, ciò non vuol dire che ogniqualvolta  vi sia violenza o minaccia particolarmente gravi  si configuri sempre l’estorsione.

A sostegno di tale argomentazione, la Corte di Cassazione richiama  l’articolo  393, comma 3, c.p., il quale prevede  che la pena sia aumentata qualora la violenza o la minaccia siano commesse con armi. La circostanza aggravante  de qua evidenzia la possibilità di  qualificare come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall’uso di un’arma,  condotte particolarmente gravi poste in essere con armi, sproporzionate rispetto al fine perseguito, o tali da non lasciare possibilità di scelta alla vittima.

In conclusione, nella pronuncia in esame, la Suprema Corte conferma la condanna per gli imputati,  in applicazione del criterio dell’elemento soggettivo, associandosi all’orientamento giurisprudenziale tradizionale. Tuttavia, la Cassazione non si limita ad affermare  ciò,  ma va ben  oltre, osservando  che l’altro elemento distintivo tra i due reati   è costituito dal soggetto attivo, che connota l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reato proprio esclusivo o di mano propria, così delineando alcuni importanti principi in tema di  concorso di persone nei delitti in esame.


[1] Cass.,  22 gennaio 2010, n. 10030.

[2] V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, V ed.

[3]  G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale parte speciale,  Vol. II, Zanichelli.

[4] Cass., Sez. II, 3 novembre 2015, n. 46628; Cass., Sez. II, 29 maggio 2014, n. 24292; Cass., Sez. II, 19 dicembre 2013, n. 51433; Cass., Sez. II, 12 giugno 2012,  n. 22935; Cass., Sez. II, 29 marzo 2010, n. 12329; Cass., Sez. II, 15 ottobre 1996, n. 9121; Cass., Sez. II, 28 aprile 1989, n. 6445.

[5] Cass., Sez. II, 18 dicembre 2015, n. 1921; Cass., Sez. V, 3 maggio 2013, n. 19230, Cass., Sez. V, 20 luglio 2010, n. 28539; Cass., Sez. II, 5 aprile 2007, n. 14440.

[6] A. LAURINO, Estorsione, ragion fattasi ed intensità della violenza nella giurisprudenza della Suprema Corte, in Cassazione penale, 2012.


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