La clausola Covid e l’obbligo di rinegoziazione dei contratti: un futuro inevitabile? Il caso Legabasket

La clausola Covid e l’obbligo di rinegoziazione dei contratti: un futuro inevitabile? Il caso Legabasket

La necessità di una rinegoziazione può avvertirsi rispetto alle condizioni di un contratto che sia già in corso di esecuzione, a fronte di “sopravvenienze” non previste all’epoca della sua conclusione e che siano tali da impedire o rendere troppo difficoltoso il perdurante adempimento.

Le sopravvenienze si devono intendere come tutti gli eventi futuri e imprevedibili, la cui verificazione prescinde dalla volontà delle parti e che siano tali, però, da incidere sulla regolare prosecuzione del contratto. Il fenomeno della rinegoziazione, così inteso, è inscindibilmente legato al fattore tempo, il cui solo scorrere può determinare il sopravvenire di una situazione dalle parti non preventivabile in sede di stipulazione del contratto. Per questa ragione, il campo di analisi può essere ristretto a quelle tipologie di contratti che da questo fattore, in qualche forma, dipendano: i contratti di durata, le cui prestazioni si sviluppano nel tempo tramite un’esecuzione che può essere continuata o periodica e i contratti a esecuzione differita, il cui adempimento è collocato a un apprezzabile intervallo di tempo rispetto alla loro conclusione.

Il tema è più che mai rilevante nell’attuale momento storico, caratterizzato da una profonda crisi sanitaria ed economica, provocata dal focolaio internazionale di infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2: una sopravvenienza quasi da manuale. Ci troviamo, infatti, nel pieno di una pandemia tale da stravolgere tutti gli assetti economici preesistenti e, per questo, destinata a incidere, in termini di costi o di impossibilità ad adempiere, su tutti i contratti commerciali che abbiano effetti protratti nel tempo e che siano stipulati o ancora da stipulare.

La rinegoziazione del contratto viene spesso intesa come alternativa rispetto alla – più semplice – previa distribuzione del rischio contrattuale fra le parti coinvolte. In un’ottica più marcatamente economica, infatti, l’eventuale modificazione della realtà che circonda ogni stipulazione contrattuale dovrebbe, ab origine, essere presa in considerazione dalle parti alla stregua di rischio preventivabile e, quindi, essere allocata, in maniera più o meno equilibrata, fra le stesse, in modo che nessuna nuova contrattazione si renda necessaria in futuro. Un esempio di allocazione del rischio già legislativamente disciplinata è quella di cui all’art. 1664 c.c. in materia di appalto, destinata a operare in assenza di una specifica pattuizione delle parti.

In mancanza di una simile disciplina legislativa o pattizia, la possibilità di intavolare una nuova trattativa fra le parti comporta il necessario ridimensionamento dei principi espressi dai brocardi “pacta sunt servanda” e “rebus sic stantibus”: sarebbe impensabile una revisione contrattuale senza l’accoglimento di una interpretazione quantomeno elastica del dogma della intangibilità delle scelte delle parti cristallizzate nel contratto.

Una volta chiariti i caratteri predominanti di questo istituto si rende necessario, prima di tutto, individuare le fonti della sua disciplina nell’ambito del diritto sovranazionale e, solo in seguito, interrogarsi sul suo possibile collocamento all’interno del nostro ordinamento, soprattutto alla luce dell’attuale crisi pandemica.

L’obbligo di rinegoziazione dei contratti non è una figura giuridica sconosciuta alla dottrina e alla giurisprudenza nazionali, ma non può essere considerata un istituto proprio del nostro diritto civile. Si tratta di un obbligo molto diffuso nella prassi commerciale e nella contrattualistica internazionale e, tuttavia, privo di una disciplina generale nell’ambito del nostro Codice civile. Per questa ragione, la sua principale fonte di disciplina si può rinvenire a livello internazionale nei Principi UNIDROIT e a livello europeo nei PECL (Principles of European Contract Law).

In base a queste normative la necessità di una rinegoziazione si può porre a fronte di due fondamentali sopravvenienze: la c.d. hardship e la c.d. force majeure. L’analisi, in questa sede, verterà solo sulla prima delle due, trattandosi dell’unica che può sicuramente fondare un obbligo di rinegoziazione. La forza maggiore è, infatti, una evenienza ben nota anche al nostro ordinamento e, nella maggior parte dei casi, viene invocata dalla parte svantaggiata solo come causa di esclusione della sua responsabilità in relazione all’inevitabile inadempimento. Essa, infatti, viene definita come l’evento imprevedibile che impedisce od ostacola una delle parti nell’adempimento di una o più delle sue obbligazioni contrattuali. Ai sensi dell’art. art. 7.1.7 n. 2 dei Principi UNIDROIT, la forza maggiore non esclude il diritto, in capo alla parte che non abbia ricevuto la prestazione che le spettava, a ottenere la risoluzione del contratto se la prestazione era fondamentale. L’effetto della forza maggiore è quello di giustificare l’inadempimento della parte svantaggiata, ma non impedisce affatto che la vicenda si concluda con una risoluzione. E proprio di forza maggiore, in effetti, si è discusso, durante l’attuale pandemia, rispetto ai contratti stipulati prima del dicembre 2019 e, quindi, in tempi non sospetti: ciò al fine di escludere la responsabilità da inadempimento del debitore ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. (in questi termini l’art. 91 del Decreto legge n.18 del 2020 c.d. Decreto Cura Italia). Ma quel che qui preme analizzare è, piuttosto, il futuro dei contratti commerciali, una volta che il Covid-19 è divenuto un evento tristemente noto e risulta allora possibile ricercare soluzioni meno drastiche e orientate in senso conservativo dei rapporti.

Il concetto di “hardship”, secondo la traduzione letterale, significa “disagio” e può essere equiparato alla nostra “eccessiva onerosità sopravvenuta”, causata dal verificarsi di un evento che alteri l’equilibrio del contratto. L’alterazione può causare l’insostenibile incremento del costo della prestazione che una delle parti è tenuta ad eseguire ovvero l’eccessiva riduzione del valore della prestazione che l’altra ha il diritto di ricevere. È necessario, perché detta ’alterazione abbia rilievo, che l’evento si verifichi o divenga noto alla parte svantaggiata solo dopo la conclusione del contratto; che non potesse ragionevolmente essere preso in considerazione dalla parte svantaggiata al tempo della conclusione del contratto; che non potesse dalla stessa essere controllato e che, infine, il rischio delle sopravvenienze non fosse stato assunto dalla parte in concreto svantaggiata.

La regola relativa agli effetti dell’hardship presente nei Principi UNIDROIT (art. 6.2.3) attribuisce alla parte svantaggiata il «diritto di chiedere la rinegoziazione del contratto», specificando subito che la richiesta «deve essere fatta senza ingiustificato ritardo e deve indicare i motivi sui quali è basata». I PECL (art. 6:111, n.2) stabiliscono che le parti hanno l’obbligo di avviare trattative allo scopo di modificare il contratto ovvero di porvi termine. Premessa la precisazione – da parte soltanto dei Principi UNIDROIT (art. 6.2.3, n. 2) – che la richiesta di rinegoziazione «non dà, di per sé, alla parte svantaggiata il diritto di sospendere l’esecuzione», vengono così disciplinate le conseguenze del mancato accordo «entro un tempo ragionevole», attribuendo al giudice la facoltà, in via alternativa, di: (a) risolvere il contratto in tempi e modi di volta in volta da stabilire, oppure (b) modificare il contratto al fine di ripristinarne l’originario equilibrio (Principi UNIDROIT, art. 6.2.3, n. 7). Nei PECL (art. 6:111, n. 3, lett. b) si precisa che l’eventuale modificazione giudiziale del contratto deve essere realizzata in modo che le perdite e i profitti derivanti dal mutamento di circostanze vengano distribuiti equamente tra le parti. Infine, i PECL prevedono un comma di chiusura della regola, in cui si consente al giudice di condannare al risarcimento dei danni cagionati la parte che abbia rifiutato di avviare le trattative o che le abbia interrotte in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.

L’hardship, al pari della forza maggiore, può essere posta dalle parti di un contratto commerciale di durata quale oggetto di una specifica clausola, il cui modello è fornito, in forma recentemente aggiornata, dalla Camera di Commercio Internazionale. L’obiettivo è quello di fornire un modello che assicuri una maggiore certezza alle parti circa il destino della loro contrattazione, indipendentemente dalla legge nazionale che governa il contratto. Siccome una delle questioni più discusse e uno degli esiti più temuti, in relazione a questo tipo di clausole, è l’eventuale intervento di un soggetto terzo (giudice o terzo) nel caso in cui le parti non siano in grado di accordarsi all’esito della negoziazione, allora la clausola assicura, in questa situazione limite, due opzioni fra cui le parti possono scegliere: la risoluzione disposta su richiesta della parte che invoca la clausola ovvero l’adattamento o la risoluzione disposte, su richiesta che può provenire da entrambe le parti, dal giudice o dall’arbitro.

Una volta chiarite le fonti sovranazionali della disciplina della rinegoziazione, è giunto il momento di interrogarsi sulla sua collocazione all’interno del nostro ordinamento.

Il nostro Codice civile, a differenza di altri codici europei, contempla l’ipotesi della eccessiva onerosità sopravvenuta all’art. 1467 c.c., che molto, come si è accennato, ha a che spartire con la clausola di hardship appena esaminata. Il legislatore del 1942, tramite questa norma, ha infatti inteso fornire una via d’uscita alle parti che abbiano stipulato contratti di durata o a esecuzione differita e che, per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, si trovino a fronteggiare una prestazione del tutto squilibrata rispetto a quanto in origine pattuito. La via d’uscita, però, è in questo caso rappresentata dalla risoluzione del contratto con gli effetti stabiliti dall’art. 1458 c.c., e solo in via secondaria il Codice (art. 1467, comma 2 c.c.) riconosce alla controparte avvantaggiata la possibilità di evitare la risoluzione medesima offrendo di modificare in maniera equa le condizioni del contratto. Si tratta di una disciplina che, pur considerando, in certi termini, l’eventualità di una rinegoziazione delle condizioni del contratto, sceglie di subordinarla alla domanda di risoluzione, come se si trattasse solo di uno strumento idoneo ad evitare quest’ultima. È evidente che nell’impostazione nel nostro codice la risoluzione occupa comunque una posizione preminente nella disciplina della fase esecutiva dei contratti di durata, dedicando alla conservazione del contratto un ruolo del tutto minoritario. Questa impostazione, del resto, non stupisce se si tiene conto che la nostra dottrina civilistica è fortemente incardinata su ideali liberali ed è in maniera quasi inscindibile legata al principio della intangibilità dell’autonomia delle parti. Non trova spazio, perciò, l’idea di un obbligo alla rinegoziazione che può, come visto, sfociare addirittura nella sostituzione di un giudice o di un arbitro alla volontà delle parti.

È proprio a causa di questo rigido assetto che la giurisprudenza e parte della dottrina hanno, nel tempo, cercato di ritagliare uno spazio al tema delle sopravvenienze contrattuali, soprattutto quando queste siano atipiche e, quindi, prive di una disciplina legislativa. La dottrina tende a classificare le sopravvenienze atipiche in due categorie: le sopravvenienze che frustrano la causa in concreto del contratto e le sopravvenienze che incidono sul rapporto di valore tra le prestazioni, alterando l’equilibrio economico del contratto. Ebbene, l’appiglio individuato per fare breccia nel dogma della intangibilità del contratto è stato individuato, come spesso accade in materia contrattuale, nella clausola generale di buona fede ex artt. 1366 e 1375 c.c. La clausola, perciò, sarebbe la fonte, ogni qual volta la storia del contratto sia stravolta da un evento sopravvenuto e imprevedibile, di un obbligo di rinegoziare finalizzato a ripristinare l’equilibrio contrattuale perduto. Una soluzione che si pone sulla scia di posizioni dottrinali volte a valorizzare la clausola generale di buona fede a garanzia di un comportamento corretto nella fase di esecuzione del contratto.

Per completezza di analisi, a fronte di una sopravvenienza atipica, vari sono stati i rimedi ipotizzati dalla dottrina al fine di risolvere una situazione ormai divenuta scomoda per le parti. Non è mancato, in particolare, chi ha ipotizzato l’applicazione in via analogica proprio della disciplina di cui all’art. 1467 c.c., senonché, come già visto, essa annida in sé la scelta fin troppo radicale di sacrificare il contratto senza tentarne in prima battuta la conservazione. Questo approccio non è il più convincente, ove l’obiettivo sia quello di favorire la solidarietà fra le parti e la conservazione dei rapporti contrattuali.

In altri termini, il riconoscimento anche nel nostro ordinamento di un obbligo di rinegoziazione, che potrebbe ben rinvenire la sua fonte nella clausola generale di buona fede, avrebbe l’effetto sostituire alla logica egoistica che favorisce il contraente avvantaggiato dalle condizioni pattuite, quella cooperativa, per la quale è necessario che le parti contribuiscano lealmente a superare le sopravvenienze di fatto e di diritto incidenti sull’equilibrio del contratto. Non si vede, infatti, come l’ancorarsi al classico principio “pacta sunt servanda” possa, soprattutto in un’epoca di crisi come quella che stiamo attraversando, produrre effetti utili nella nostra economia: l’effetto sarebbe, forse in modo paradossale, sollo quello di una forte instabilità economica, che porterebbe gli imprenditori a dover periodicamente a mutare i propri rapporti commerciali e a instaurarne di nuovi ab origine. È indubbio che il principale timore riposto della dottrina nei confronti dell’obbligo di rinegoziazione riguardi il riconoscimento di eccessivi poteri di intervento esterno sul contratto, da parte di giudici o di arbitri. Ma si tratterebbe pur sempre di un intervento ispirato al criterio dell’equità integrativa ex art. 1374 c.c., esattamente come prospettato dal legislatore nel caso dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467, comma 3 c.c.). Senza tener conto del fatto che il contratto, soprattutto ove la sua esecuzione sia destinata a protrarsi nel tempo, non potrà mai esprimere compiutamente le regole idonee a governare ex ante le eventuali sopravvenienze: ciò è impedito dalla c.d. razionalità limitata dei contraenti, sicché il controllo ex post – e il conseguente intervento giudiziale per decidere sugli squilibri determinati dal mutamento delle circostanze- è nella pratica ineliminabile.

Una soluzione, de iure condendo, a questo problema potrebbe essere quella della previsione di una norma che, sul modello dei Principi UNIDROIT e dei PECL, lasci alle parti, nel caso di fallimento della negoziazione, la scelta fra la risoluzione del contratto alla data e alle condizioni da esse stabilite o la richiesta di comune accordo al giudice di adeguamento del contratto al fine di ripristinare la proporzione tra le prestazioni originariamente convenute.

Il problema delle sopravvenienze, legato all’attuale rischio pandemia, ha di recente interessato il mondo della pallacanestro italiana, che rappresenta così un primo interessante caso di studio. La questione si è posta a fronte della proposta del presidente della Lega seria A di modificare l’accordo collettivo volto a disciplinare il trattamento economico e normativo dei rapporti di lavoro fra le società sportive professionistiche di pallacanestro di serie A, da una parte, e i giocatori professionisti di pallacanestro per tali società anche temporaneamente tesserati, dall’altra. La proposta prevedeva, in particolare, l’inserimento nei futuri contratti con i giocatori professionisti della c.d. clausola Covid, avente l’obiettivo di tutelare le società in caso di nuova ondata del virus. La clausola prevede, infatti, quattro gradi di intervento sul contratto a fronte di quattro diverse sopravvenienze:

– Stagione cancellata definitivamente prima del via del campionato: decadenza del contratto (ingaggio percepito 0%);

– Stagione cancellata definitivamente dopo il via: ingaggio percepito 25% dal giorno dello stop fino a fine stagione);

– Stagione sospesa con possibilità di allenamento: ingaggio percepito 50% dal giorno dello stop fino a fine stagione;

– Stagione sospesa ma senza possibilità di allenamento: ingaggio percepito 25% dal giorno dello stop fino a fine stagione.

È chiaro come, in questo caso, la Legabasket abbia optato per un approccio prettamente economico e imprenditoriale al tema Covid-19, scegliendo di allocare previamente i rischi tra le parti in una misura ritenuta equa. Non è stata scelta, in altri termini, la strada dell’obbligo di rinegoziazione ma quella più rigida e, se vogliamo, più rispettosa del principio dell’autonomia delle parti. La proposta non è affatto stata colta con favore dai giocatori che, in alcuni casi, hanno repentinamente abbandonato trattative già quasi concluse con le rispettive squadre, e neppure dall’Unione Sindacale degli Allenatori di Pallacanestro, che ha sottolineato il notevole squilibrio fra le parti provocato da una clausola così costruita. Questo caso dimostra come la strada dell’allocazione dei rischi si riveli in molti casi troppo rigida, e soprattutto, ispirata alla logica egoistica cui prima si faceva cenno. Nell’ottica di una maggiore solidarietà e condivisione fra le parti, l’obbligo di rinegoziazione si rivela forse più adeguato, a maggior ragione in un periodo di forte crisi economica come quello che stiamo attraversando. Esso consentirebbe, infatti, di valutare tutte le circostanze del caso concreto nel momento in cui effettivamente la sopravvenienza si verifica. Il rischio è sempre quello dell’intervento di un soggetto terzo a dirimere le controversie, ma, come si è già precisato, questo rappresenta una piccola contropartita, a fronte di una maggiore funzionalità del diritto privato rispetto alle contingenti esigenze della realtà imprenditoriale.


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Marta Limongelli

Laureata presso l'Università degli Studi di Milano nel 2016. Abilitata all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Milano in data 18/9/2019.

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