La clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è una pattuizione con la quale le parti prevedono espressamente che il contratto dovrà considerarsi automaticamente risolto in caso di inadempimento di una o più obbligazioni determinate.

Nel momento in cui si verifica una delle fattispecie elencate nella clausola, la risoluzione del contratto non avviene immediatamente, ma dipende dalla dichiarazione della parte interessata di volersi avvalere di tale strumento [1]. Tale comunicazione produce, una volta pervenuta all’inadempiente, lo scioglimento del contratto.

La clausola risolutiva espressa, pertanto, attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza, sicché la risoluzione del contratto per il verificarsi del fatto considerato non può essere pronunziata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita dichiara di volersene avvalere [2]. Infatti, rispetto al momento in cui la clausola è stata pattuita, potrebbe sopravvenire un interesse del creditore all’adempimento tardivo e questo interesse verrebbe frustrato se la risoluzione fosse automatica. Da questo punto di vista l’istituto in questione si distingue nettamente dal termine essenziale, giacchè quest’ultimo opera automaticamente, senza, cioè, necessità di alcuna dichiarazione della parte non inadempiente, fermo restando il potere della parte legittimata di evitare la risoluzione dandone notizia all’atra entro tre giorni dalla scadenza del termine rimasto inosservato [3]. Si deve, altresì, distinguere dalla condizione risolutiva di inadempimento, con cui le parti prevedono che il contratto cesserà di produrre i suoi effetti in caso di inadempimento di una delle parti. Difatti la clausola risolutiva espressa richiede l’esistenza di un inadempimento imputabile al debitore, mentre nella condizione di inadempimento quest’ultimo assume un rilievo obiettivo, in quanto comporta la cessazione degli effetti del contratto anche quando non sia imputabile al debitore.

Pertanto, l’istituto de quo supera la necessità di una valutazione giudiziale della gravità dell’inadempimento, poiché sono le stesse parti che attraverso un giudizio ex ante hanno individuato le violazioni ritenute sufficientemente gravi da comportare la risoluzione [4]. Il giudice, quindi, dovrà limitarsi a verificare che l’inadempimento lamentato sussista e sia imputabile al debitore, essendogli preclusa la valutazione relativa alla sua gravità [5].

Nel momento in cui la comunicazione sia pervenuta alla parte inadempiente, si producono i medesimi effetti che sono propri della domanda giudiziale di risoluzione: da un lato, a far tempo da essa, l’eventuale offerta di adempimento dovrebbe essere qualificata come tardiva e potrebbe dunque essere legittimamente rifiutata dal contraente non inadempiente, dall’altro costui non potrebbe mutare la propria scelta, ormai orientata alla risoluzione, domandando la manutenzione del contratto [6].

Le parti, tuttavia, non possono prevedere la risoluzione quale conseguenza di un generico inadempimento, si deve trattare di un’obbligazione determinata. In tal senso la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che é priva di efficacia in quanto «di stile» la clausola risolutiva espressa redatta in termini generici, ossia non già con riferimento a specifiche inadempienze ma alla violazione di uno qualsiasi dei patti contrattuali, poiché una simile clausola nulla aggiunge alle norme degli artt. 1453 e 1455 c.c., onde, per pronunciare la risoluzione, il giudice deve accertare la non scarsa importanza dell’inadempimento [7].

Sul tema si deve segnalare una recente pronuncia della Suprema Corte che, inserendosi nel solco di quella giurisprudenza tesa a sottolineare l’importanza della buona fede oggettiva nell’ambito della materia contrattuale, subordina l’operatività della clausola risolutiva espressa alla valutazione del comportamento del debitore secondo buona fede.

In particolare, gli Ermellini hanno ribadito l’interpretazione in base alla quale la parte non inadempiente è sempre tenuta a intrattenere rapporti collaborativi con la controparte secondo un generale canone di buona fede, anche nel caso di inadempimento di quest’ultima. Solo a seguito dell’esercizio di effettivi comportamenti collaborativi la parte non inadempiente potrà azionare la clausola risolutiva espressa, in assenza dei quali il giudice eventualmente adito potrà impedirne il valido esercizio in quanto avente natura abusiva [8].

Dunque, secondo il Supremo Consesso, per ottenere la risoluzione del contratto, non è sufficiente che la condotta del debitore integri materialmente il fatto contemplato dalla clausola risolutiva espressa, ma occorre valutare se la sua condotta sia conforme a buona fede.

Si discute, infine, se l’istituto in questione abbia natura vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c.. In particolare si fa riferimento alla clausola risolutiva espressa unilaterale, in quanto è pacifica l’esclusione di tale qualifica laddove la stessa sia prevista a favore di entrambe le parti. La giurisprudenza maggioritaria è concorde nel fornire una risposta negativa al quesito, sostenendo che la clausola de qua non rientri tra quelle onerose da approvarsi per iscritto, essendo diretta soltanto a rafforzare la facoltà di risoluzione prevista dall’art. 1453 c.c. per il caso di inadempimento [9].

Anche la dottrina prevalente qualifica non vessatoria la clausola risolutiva espressa e ciò in considerazione della natura tassativa dell’elenco contenuto nell’art. 1341 c.c. e, soprattutto, teorizzando che la facoltà di risoluzione del contratto per inadempimento della controparte è insita nel contratto stesso e che il rimedio previsto dall’art. 1456 c.c. non innova nulla ma si limita ad irrobustire questa facoltà, rendendone l’esercizio più immediato [10].

È doveroso rilevare, tuttavia, per completezza espositiva, l’esistenza di un altro orientamento dottrinale, che ritiene il patto di cui all’art. 1456 c.c. assoggettabile alla disciplina prevista dall’art. 1341 c.c. Tale indirizzo contesta il presupposto che il diritto accordato dalla clausola risolutiva espressa sia già insito nel contratto. Giunge a questa conclusione asserendo che, sebbene l’elenco di cui all’art. 1341 c.c. si debba ritenere tassativo, ciò non esclude un’interpretazione estensiva dello stesso (che è strumento ermeneutico e non soggiace ai limiti di operatività dell’analogia), che porti a ricomprendere la clausola in questione nella categoria dei patti che conferiscono alla parte, che ha predisposto il contratto, la facoltà di recedere dal vincolo negoziale [11].


[1] Secondo la giurisprudenza (Cassazione, sez. I, 5 maggio 1995, n. 4911), tale dichiarazione può essere resa anche in maniera implicita, purchè inequivocabile, pure nell’atto di citazione in giudizio per la risoluzione del contratto o in atti giudiziari equipollenti, ma non può, in nessun caso, avere effetto se la controparte ha già adempiuto alle proprie obbligazioni contrattuali.

[2] Cass. 1-8-2007 n. 16993; Cass. 5-1-2005 n. 167; Cass, sez. II, sentenza 2 ottobre 2014, n. 20854.

[3] Cfr. Cass. civ., sez. I, n. 10102/94.

[4] In tal senso Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano 2015, p.685.

[5] Un orientamento minoritario si esprime in senso favorevole all’ammissibilità`di un sindacato del giudice sulla gravità dell’inadempimento anche in caso di predeterminazione della stessa operata dalle parti contraenti. Di recente, si è addirittura sostenuto che un simile controllo sarebbe un’applicazione di principi di ordine costituzionale e comunitario e, pertanto, imprescindibile, considerata la necessità di verificare la proporzionalità del rimedio risolutorio alla luce delle circostanze concrete (Mangillo, Importanza dell’inadempimento e autonomia negoziale nella risoluzione di diritto, in Studium iuris, 2014, 831);

[6] Torrente-Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 1985, p.552.

[7] Cfr. Corte di Cassazione, sentenza  12-11-81, n. 5990.

[8] Cass. civ., sez. I, 23 novembre 2015, n. 23868.

[9] Cass. civ. 22 novembre 1982, n. 6280; Cass. civ., 26 settembre 2006 n. 20818.

[10] In tal senso, già Bigiavi 1949, 317.

[11] Bianca, Diritto civile vol III, Il contratto, Milano 1994.


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Avv. Giuseppe Carpino

Laureato a pieni voti presso l'Università degli studi di messina con tesi in diritto penale dal titolo "profili penali dell' eutanasia" Ha frequentato la scuola forense Pier Luigi Romano presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Siracusa. Ha svolto la pratica forense in Siracusa trattando diritto civile e penale. Attualmente esercita la professione forense occupandosi prevalentemente di diritto civile e penale

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