La collazione e la sua natura giuridica

La collazione e la sua natura giuridica

Come previsto dall’art. 737 c.c. i figli, nonché i loro discendenti, ed il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente od indirettamente, salvo che lo stesso non li abbia da ciò dispensati.

L’obbligo di collazione ha carattere personale: a norma dell’art. 739 c.c., infatti, l’erede non è tenuto a conferire le donazioni fatte ai suoi discendenti o al coniuge, ancorché succedendo a costoro ne abbia tratto vantaggio.

In caso di rappresentazione, invece, considerato il fatto che chi succede per rappresentazione prende il posto dell’ascendente, venendosi a trovare nella medesima posizione successoria, l’art. 740 c.c. prevede l’obbligo per il discendente di conferire quanto donato al proprio ascendente, anche qualora abbia rinunciato all’eredità di questo.

La collazione ereditaria è un istituto tipico della comunione ereditaria, sia essa legittima o testamentaria, predisposto dal legislatore al fine di assicurare il rispetto della parità di trattamento tra i singoli coeredi, ai quali è così garantito il diritto di ottenere, in seguito alla divisione, una quantità di beni proporzionata alla propria quota.

Lo scopo della collazione, in particolare, è quello di rimuovere eventuali disparità di trattamento tra specifici coeredi, andando a salvaguardare l’eguaglianza delle posizioni ereditarie del coniuge e dei discendenti.

Nello specifico, si definisce “collazione” l’atto con il quale determinati coeredi conferiscono alla massa attiva del patrimonio ereditario le liberalità ricevute in vita dal defunto, in modo da consentirne la ripartizione con gli altri in proporzione delle rispettive quote di successione.

Il fondamento dell’istituto in esame viene individuato nella sussistenza di una presunta volontà del testatore di considerare le liberalità a favore del coniuge o dei figli come un’anticipazione dell’eredità, nonché in un’esigenza di tutela del superiore interesse della famiglia.

Secondo un primo orientamento la collazione determinerebbe, all’apertura della successione, una risoluzione o revocazione legale delle donazioni con efficacia ex nunc, con la conseguenza che il bene donato, o il suo valore in caso di collazione per imputazione, rientrerebbe automaticamente nella comunione tra i coeredi.

Di contrario avviso è invece altra parte della dottrina, la quale, facendo leva sul testo dell’art. 737 c.c., il quale utilizza l’espressione “devono conferire”, interpreta la collazione come una vera e propria obbligazione a carico del coerede donatario ed a favore degli altri coeredi.

Per tale concezione si tratterebbe, nello specifico, di un’obbligazione restitutoria semplice nel caso in cui non sia consentita la collazione in natura, mentre di un’obbligazione con facoltà alternativa negli altri casi.

La fonte dell’obbligo è individuata in un legato ex lege a favore del coniuge o dei discendenti non donatari, o comunque in un prelegato obbligatorio e anomalo, in quanto il relativo obbligo non si pone a favore di uno dei coeredi ed a carico di tutta l’eredità, ma a carico solo di determinati coeredi ed a favore degli altri coeredi.

I legatari, in ogni caso, devono essere necessariamente coeredi e dunque non trovano applicazione tutte quelle norme che sono espressione dell’autonomia del legato rispetto all’eredità, come per esempio l’art. 521, comma 2, c.c., il quale riconosce al legatario il diritto di ritenere il legato pur rinunciando al compendio ereditario, ovvero gli artt. 676 e 677 c.c. nella parte in cui prevedono l’eventualità che, in caso di inadempimento, l’obbligo oggetto del legato venga trasferito in capo ad altri soggetti.

La dottrina più recente, per contro, respinge l’idea della collazione come un’obbligazione, definendola invece come un onere a carico dei coeredi, ossia come un comportamento che gli stessi sono tenuti a porre in essere al fine di raggiungere un determinato risultato, consistente nella tutela della propria quota ereditaria.

La tesi trova conferma nella disciplina alla quale è sottoposto l’istituto, in base alla quale qualora il coerede non conferisce quanto dovuto, agli altri sarà permesso prelevare dalla massa ereditaria altri beni, con diminuzione, per effetto di imputazione, della quota del coerede che avrebbe dovuto conferire; il coerede ha dunque interesse ad effettuare la collazione al fine di mantenere intatta la propria quota.

Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, la collazione presuppone per sua stessa natura la sussistenza di una comunione ereditaria, e quindi di un asse da dividere, in mancanza del quale l’istituto non potrà pertanto operare, salvo gli effetti dell’eventuale azione di riduzione.

Tale assunto è stato però contestato da parte della dottrina, per la quale ai fini dell’operatività della collazione non assumerebbe rilevanza l’assenza all’apertura della successione di un relictum da dividere, ben potendo una comunione derivare dalla collazione delle donazioni. L’obbligo di collazione, si osserva, sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e diviene operante a seguito dell’accettazione dell’eredità, con la conseguenza che i beni donati concorrono alla formazione della massa ereditaria, la quale deve essere divisa tra i soggetti tenuti a collazione.

Presupposti necessari per l’operatività della collazione sono, in ogni caso, la qualità di  coniuge o di discendente donatario e coerede del soggetto tenuto a collazione, nonché l’assenza di una specifica dispensa dalla collazione.

Ai sensi dell’art. 737, comma 2, c.c., in particolare, il donante può dispensare il donatario dall’obbligo di collazione, consentendogli di ritenere i beni oggetto della liberalità e, nello specifico, di non dividere gli stessi con gli altri coeredi ovvero, in caso di collazione per imputazione, di non imputare il valore di essi alla propria quota ereditaria. La dispensa dalla collazione ha valore nei limite della disponibile.

La dispensa dalla collazione, tuttavia, non esonera il donatario dall’imputare alla propria quota di legittima la donazione dispensata, la quale dovrà quindi essere considerata come un’anticipazione di legittima.

Qualora il parente legittimario fosse rimasto leso nella propria quota di riserva, e fosse quindi suo interesse agire in riduzione, lo stesso dovrà quindi imputare alla propria quota di legittima la liberalità ricevuta, la quale dovrà pertanto essere presa in considerazione per il calcolo della quota ad egli riservata dalla legge.

Tale dispensa non ha quindi lo scopo di attribuire la liberalità alla disponibile, ma quello di potenziare la facoltà di disposizione del donante, al quale è così consentito esonerare il donatario dal conferimento del donatum, in modo tale che la determinazione delle quote  in sede di divisione si attui come se la donazione non fosse mai avvenuta ed il bene non fosse uscito dal patrimonio del de cuius a titolo liberale, salvo tuttavia il limite della disponibile.

Secondo l’opinione dominante, la dispensa dalla collazione è una liberalità supplementare ed autonoma rispetto alla donazione alla quale si riferisce e, pertanto, non deve essere necessariamente contestuale alla liberalità, potendo essere compiuta anche successivamente ed essere contenuta in un atto inter vivos o in un testamento.

Per l’impostazione maggioritaria, in particolare, la dispensa dalla collazione può anche essere tacita, ovvero risultare da un’implicita manifestazione di volontà del disponente ovvero da fatti concludenti, i quali rivelino inequivocabilmente l’intenzione del de cuius di escludere la donazione dall’obbligo di collazione.

Parte della dottrina distingue la dispensa tacita da quella virtuale, la quale si configurerebbe nel caso in cui nella donazione o nel testamento siano rinvenibili disposizioni incompatibili con la volontà di sottoporre il donatario a collazione.

Altra dottrina, invece, contesta tale conclusione, escludendo che la dispensa dalla collazione possa essere intesa come una liberalità ulteriore rispetto alla donazione, con la conseguenza che essa non può che essere contestuale alla stessa e dunque rivestire la medesima forma dell’atto donativo.

La dispensa dalla collazione è certamente un atto revocabile qualora sia contenuta in un testamento, stante la naturale revocabilità dell’atto mortis causa.

Se contenuta in una donazione, per contro, l’opinione maggioritaria ne ammette la revocabilità solo con il consenso del donatario.

Nell’eventualità in cui sia invece inserita in un atto inter vivos successivo alla donazione,  ancora, si ritiene che la sua revocabilità dipenda dalla natura di negozio unilaterale o bilaterale che alla stessa si vuole riconoscere.

Tanto premesso, dalla dispensa dalla collazione deve essere mantenuta distinta la dispensa dall’imputazione, con la quale il de cuius esonera il legittimario dall’onere di imputare alla propria quota di riserva la liberalità dispensata, che non potrà quindi essere considerata come un’anticipazione della quota di legittima, andando a gravare per intero sulla disponibile.

In presenza di una dispensa dall’imputazione, quindi, la quota riconosciuta al legittimario sarà comprensiva, oltre che della legittima, anche della donazione oggetto della dispensa, la quale grava interamente sulla disponibile.

Per contro, l’aumento della quota spettante al legittimario a titolo di legittima non è invece una conseguenza necessaria della dispensa dalla collazione, la quale consente al legittimario di conservare la liberalità disposta in suo favore, che però dovrà essere imputata alla propria quota di legittima.

Ne deriva, pertanto, che la dispensa dalla collazione è suscettibile di determinare un aumento della quota del legittimario solo qualora il bene che ne costituisce l’oggetto abbia un valore superiore rispetto alla quota di riserva, gravando per la restante parte sulla disponibile.

Secondo la giurisprudenza, d’altronde, a differenza dalla dispensa dalla collazione, quella all’imputazione deve essere necessariamente espressa, non potendo risultare da fatti concludenti.

Detto questo, è comunque possibile che le due dispense coesistano, esonerando il donatario sia dal conferimento che dall’imputazione ex se della liberalità.

Per regola generale sono oggetto di collazione, e quindi di conferimento, tutti i beni donati in vita dal de cuius al proprio discendente o coniuge, sia direttamente che indirettamente, mentre ne sono esclusi i legati.

La determinazione di quanto deve essere conferito può tuttavia risultare problematica in alcuni casi specifici, per i quali è dibattuta in giurisprudenza l’individuazione del bene che deve considerarsi oggetto della donazione.

Si pensi, in particolare, all’ipotesi dell’intestazione del bene in nome altrui ovvero al caso in cui l’acquisto del bene avvenga con il denaro specificatamente donato a tale scopo: in tali casi, infatti, ci si chiede se l’oggetto della donazione debba essere identificato nella somma di denaro ovvero nel bene oggetto dell’intestazione o dell’acquisto.

Secondo un primo orientamento dovrebbe essere conferito il denaro, in quanto l’oggetto della collazione coincide con quanto è uscito dal patrimonio del donante e non con quello di cui si è arricchito il beneficiario.

Di contrario avviso è invece l’orientamento dominante fatto proprio dalla S.C., secondo la quale l’oggetto del conferimento è costituito dal valore di cui si è arricchito il donatario. Per la Corte, infatti, stante la sussistenza di un collegamento essenziale tra l’elargizione del denaro e l’acquisto del bene, è chiara in tali casi l’intenzione del disponente di mettere a disposizione del beneficiario proprio l’immobile, che andrà così a costituire l’oggetto del conferimento.

Diversamente, specifica la Corte, nel caso in cui la somma utilizzata per l’acquisto del bene non sia stata donata specificatamente a tale scopo, allora si verificherebbe non una donazione indiretta del bene, quanto una donazione diretta del denaro, e sarà quest’ultimo l’oggetto del conferimento.

Secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza, costituiscono oggetto di collazione anche le donazioni c.d. modali, limitatamente alla differenza tra il valore dei beni donati ed il valore dell’onere. Si ritiene, infatti, che il modus non snaturi la causa tipica della donazione, ovvero lo spirito di liberalità.

Analogo discorso vale per il negozio “mixtum cum donationem”, per il quale è stato previsto che oggetto di collazione sia la differenza tra il valore della prestazione che il beneficiario ha ricevuto ed il valore del corrispettivo che tale soggetto ha dovuto corrispondere.

Sono oggetto di collazione, d’altra parte, anche le donazioni di cui all’art. 770 c.c., ovvero quelle effettuate per riconoscenza, in considerazione dei meriti del donatario o per speciale rimunerazione.

La collazione può avvenire per imputazione, ovvero imputando alla propria quota di eredità il valore del bene oggetto della liberalità, o in natura, ossia conferendo alla massa attiva del patrimonio ereditario il bene stesso.

Mentre la collazione in natura si risolve in un’unica operazione, che determina un effettivo incremento dei beni in comunione, la collazione per imputazione ne postula due, ossia l’addebito alla propria quota del bene oggetto della donazione ed il contemporaneo prelevamento di una corrispondente quantità di beni da parte degli eredi non donatari.

Per quanto riguarda i beni immobili, in particolare, salvo il caso in cui il bene sia stato alienato od ipotecato, la collazione può avvenire anche in natura; la collazione di beni mobili, invece, si fa soltanto per imputazione, sulla base del valore che essi avevano al momento dell’apertura della successione.

Può essere conferita solo per imputazione anche la quota di società, la quale non conferisce al titolare alcun diritto sui beni societari, quanto la facoltà di partecipare agli utili dell’impresa e di contribuire alla gestione della stessa.

Al contrario, l’azienda può essere conferita anche in natura, rappresentando essa l’insieme dei beni che l’imprenditore organizza per l’esercizio dell’attività d’impresa. Ove si proceda per imputazione, in ogni caso, deve aversi riguardo non al valore dei singoli beni, quanto al valore assunto dagli stessi quale complesso organizzato al tempo dell’apertura della successione.

Con riferimento al denaro, infine, la collazione avviene prendendone una minore quantità di quello che si trova nell’eredità; quando questo non basta ed il donatario non vuole conferirne altro o titoli dello Stato, sono prelevati mobili o immobili ereditari in proporzione alla rispettive quote.

In ossequio ad un principio generale valevole in materia di conferimenti, dunque, la legge consente prelevamenti eterogenei solo nel caso in cui, in ragione della composizione dell’asse ereditario, non sia possibile procedere a prelevamenti omogenei.

Nell’eventualità in cui sia consentita la scelta circa le modalità del conferimento, ovvero nel caso in cui oggetto della donazione sia un bene immobile non alienato né ipotecato, l’obbligazione gravante sul coerede ha carattere alternativo.

In dottrina si discute in ordine all’ammissibilità della c.d. collazione volontaria, ossia quella  particolare collazione che trova il suo fondamento nella volontà del testatore, il quale impone l’obbligo di conferimento al di fuori dei limiti soggettivi ed oggettivi previsti dalla legge.

La figura della collazione volontaria si verifica allorquando l’imposizione del conferimento avvenga in relazione ad attribuzioni patrimoniali per le quali la legge esclude il relativo onere ovvero in capo o a beneficio di soggetti che concorrono alla successione del donante, ma che non sono ad esso legati da rapporti di parentela o coniugio.

L’impostazione dottrinale maggioritaria propende per l’ammissibilità della fattispecie, ritenendo che la disciplina legale della collazione sia pienamente derogabile per volontà delle parti.

Come sottolineato da attenta dottrina, tuttavia, la collazione volontaria presupporrebbe necessariamente che l’obbligo di collazione sia inserito nell’atto donativo, non potendo dunque essere imposto successivamente alla liberalità a cui si riferisce. In caso contrario, infatti, si configurerebbe un’ipotesi di revocazione delle donazioni anteriori non sorretta da alcuna indicazione legislativa, ponendosi in contrasto con la disciplina in tema di revocazione.

Tale conclusione è invece contestata da un’altra corrente di pensiero, per la quale la facoltà di imposizione ex post del meccanismo collatizio sarebbe consentita anche se contenuta in un testamento, mentre dovrebbe essere in ogni caso esclusa, e nel caso ritenersi invalida per contrasto con il divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c., qualora inserita in un atto tra vivi.

Anche la giurisprudenza della S.C., d’altronde, ammette la possibilità per il testatore di imporre l’obbligo di collazione al di fuori dei limiti legali, ritenendo che l’art. 742 c.c., il quale dispensa dalla collazione le spese e le liberalità indicate, non ponga in realtà un principio inderogabile, consentendo al testatore di imporre la collazione anche con riguardo alle ipotesi previste dalla norma.

L’imposizione dell’obbligo collatizio, in particolare, assumerebbe la natura di onere modale qualora contestuale alla donazione, mentre assurgerebbe a vero e proprio legato se contenuto in un testamento.

Stanti le analogie con la collazione legale, si ritiene che anche quella volontaria sia soggetta alla medesima disciplina.

Ritenuta ammissibile la figura della collazione volontaria, ci si interroga tuttavia in ordine al suo ambito di operatività.

Ci si chiede, nello specifico, se oggetto del conferimento possa essere anche una liberalità mortis causa come un legato, ovvero se possa esservi dissociazione tra la qualità di coerede tenuto al conferimento e quella del donatario del bene da conferire, nonché se possano essere derogate le disposizioni concernenti le modalità del conferimento.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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