La colpa medica penale: ricognizione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale

La colpa medica penale: ricognizione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale

L’esercizio delle professioni sanitarie costituisce una delle materie di maggiore interesse per gli studiosi del diritto.

La responsabilità medica, infatti, è foriera di numerose questioni di dubbia interpretazione le quali, a ben vedere, vanno rilette alla luce dei più recenti interventi normativi.

L’attività medica rientra nelle c.d. “attività rischiose, ma giuridicamente consentite”, e trova il suo fondamento nell’art. 32 Cost., norma posta a tutela del supremo bene della salute.

In tale ambito, sotto il profilo della responsabilità penale, l’elemento psicologico che normalmente viene in rilievo è quello della colpa.

Per comprendere meglio la disciplina della colpa nella responsabilità medica è opportuno richiamare, sebbene per cenni, la disciplina della colpa in generale.

Quale forma di responsabilità sussidiaria e di più tardiva acquisizione, fino a qualche tempo fa la colpa era considerato un elemento psicologico minoritario.

L’incremento delle attività pericolose, legate allo sviluppo di attività di grande importanza quali ad esempio le attività produttive, la circolazione stradale e l’attività medico-chirurgica, ha reso indispensabile uno studio dedicato che, nel tempo, è giunto ad assegnare a questa forma di responsabilità una dignità ontologica e giuridica autonoma rispetto al dolo.

L’art. 43 cpv definisce il delitto colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto (è questa la c.d. “colpa cosciente”), non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (ambito privilegiato della colpa normale), ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (in cui rileva, viceversa, la colpa specifica).

Per definizione, il giudizio sulla colpa postula un duplice accertamento. In primo luogo, va individuata la regola cautelare posta a presidio dell’attività nell’ambito della quale viene in rilievo la condotta censurata; deve trattarsi, però, di una regola di carattere obiettivo che abbia il fine di scongiurare il verificarsi di una classe di eventi tra cui rientra quello in concreto verificatosi; tale regola deve essere identificata, secondo i criteri della prevedibilità ed evitabilità, alla stregua della miglior scienza ed esperienza del settore specifico.

In secondo luogo, va colta la c.d. “misura soggettiva” della colpa, e cioè il quantum di esigibilità della condotta alternativa lecita, giudizio, questo, condotto prendendo come punto di riferimento l’homo eiusdem et professionis et condicionis, una figura ideale che rappresenta l’agente modello che opera nello specifico settore in cui ha agito il soggetto agente.

Per poter muovere un rimprovero, in definitiva, sarà necessario considerare tutte le circostanze del caso concreto al fine di comprendere se l’agente avrebbe potuto realmente orientare il suo agire nella direzione indicata, e dalla regola cautelare, e dall’agente modello. Si tratta, quindi, di un giudizio prognostico da compiere ex ante.

Nel terreno della responsabilità medica l’operazione ermeneutica così prospettata incontra notevoli difficoltà, soprattutto in punto di individuazione della regola cautelare.

Sebbene alla letteratura scientifica vada riconosciuto il pregio di aver descritto i protocolli cui il medico deve attenersi in tutta una serie di casi, ciascuno dei quali caratterizzato da una sua specificità stante l’eterogeneità delle patologie cliniche, a ben vedere tali regole non possono considerarsi universali.

Può accadere, infatti, che le contingenze del caso concreto richiedano proprio la non applicazione della regola cautelare che normalmente andrebbe seguita in quella specifica situazione.

Di tali preoccupazioni sembra essersi fatto carico il legislatore che, con il d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. “decreto Balduzzi”), convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, ha innovato profondamente la disciplina della responsabilità medica.

Ai sensi dell’art. 3, co. 1 del citato decreto, l’esercente le professioni sanitarie non è punito se, nonostante abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, versi in colpa lieve.

La norma, di cui è stata prospettata l’incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. in ragione del regime di favore accordato agli esercenti le professioni sanitarie, ha introdotto secondo alcuni una speciale causa di non punibilità; secondo l’opinione più accreditata con tale disposizione il legislatore ha voluto realizzare un’abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., riguardanti rispettivamente i reati di omicidio colposo e di lesioni personali colpose.

La giurisprudenza immediatamente successiva all’entrata in vigore della normativa, inoltre, ha ritenuto che l’ambito di operatività della disposizione va confinato ai soli casi di imperizia, terreno d’elezione della responsabilità professionale, restando così invariata la disciplina della colpa medica che derivi da negligenza o imprudenza.

Ciò che ha sollevato maggiori perplessità è stato comprendere sino a che punto un medico (o colui che esercita una professione sanitaria), che abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, possa versare in colpa lieve.

La Suprema Corte ha offerto degli importati chiarimenti sul punto.

In prima battuta, è stato osservato che il medico incorre in responsabilità penale solo per colpa grave, e cioè nei casi di errore macroscopico (si pensi al caso clinico di facile risoluzione).

Il legislatore, afferma la Corte, ha voluto disciplinare piuttosto la responsabilità medica nelle ipotesi in cui il medico sia chiamato ad affrontare contingenze del tutto peculiari.

Più precisamente, l’apparente contraddizione in cui sembra essere incorso il legislatore è stata superata avendo riguardo alla natura giuridica delle linee guida di cui parla l’art. 3, co. 1.

La Suprema Corte ha escluso la natura di regole cautelari, cogliendone piuttosto il valore di raccomandazioni, esortazioni ad agire in un determinato modo; di guisa che le stesse, nei casi di più difficile risoluzione, possono anche essere disattese. Ed è in tale ambito che viene in rilievo la colpa lieve, che il legislatore ha deciso di non punire per evitare che la medicina si ponga su una linea difensiva, a scapito della salute dei consociati.

A ben vedere, il profilo di novità che si evince dalla novella riguarda proprio tale ultimo aspetto, e non la necessità di disattendere le linee guida.

Del resto, da come si è avuto modo di osservare esaminando la colpa in generale, il giudizio di responsabilità va personalizzato, in base ad una serie di indici che l’interprete non può ignorare.

La giurisprudenza di legittimità si è soffermata in più occasioni sul c.d. “grado della colpa”, quale indice da cui è possibile desumere la gravità del reato ai sensi dell’art. 133 c.p.

In tema di responsabilità medica tale valutazione richiede una lettura complessiva della condotta, che tenga conto del contesto in cui il medico ha svolto l’attività, quale l’urgenza, il personale presente nella struttura sanitaria, il carico di lavoro, la chiarezza del quadro clinico.

Alla stregua di questi indici è possibile enucleare la misura della divergenza dalla regola cautelare e il quantum di esigibilità richiesto al sanitario.

Nel dibattito irrompe il recentissimo intervento normativo, avvenuto con la legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco, rubricata “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”).

La novella si contraddistingue per una particolare innovatività. Con tale intervento da un lato è stato abrogato l’art. 3, co. 1 del decreto Balduzzi, dall’altro è stato introdotta all’interno del codice penale una disposizione ad hoc sulla responsabilità medica (art. 590 sexies c.p., rubricato “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”).

Il primo comma della norma non presenta profili peculiari, perché si limita a rinviare agli artt. 589-590 c.p. esclusivamente ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio, laddove nell’esercizio dell’attività medico-sanitaria vengano realizzati i reati di lesioni personali colpose e omicidio colposo.

Il secondo comma richiede, viceversa, un’accurata interpretazione.

Recita la disposizione: “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che ovviamente le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

In primo luogo emerge un cambio di rotta netto rispetto al previgente decreto Balduzzi in punto di linee guida. Leggendo la norma in combinato disposto con altre disposizioni della novella, sembra infatti che le stesse abbiano dignità di regole cautelari vere e proprie. Colui che esercita la professione medico-sanitaria è obbligato ad adeguarsi alle raccomandazioni contenute nelle linee guida, e solo in via sussidiaria alle buone pratiche clinico-assistenziali (prima parificate alle linee guida), salvo tuttavia la specificità del caso concreto.

Alcuni hanno prospettato l’inapplicabilità della causa di non punibilità fotografata dal 590 sexies, co. 2, sul rilievo che è tendenzialmente impossibile che si realizzi un evento a causa di imperizia qualora il medico abbia rispettato le regole cautelari.

Tuttavia, l’opinione che sembra offrire il miglior significato alla norma afferma che è questo il caso in cui la regola cautelare, per la specificità del caso concreto, non andava osservata.

Il richiamo alla sola imperizia, invece, va precisato, non vuole confermare l’orientamento successivo all’entrata in vigore del decreto Balduzzi che escludeva l’innovativa disciplina della responsabilità medica ai casi in cui la colpa fosse frutto di negligenza e di imprudenza.

Il legislatore, piuttosto, sembra aver voluto parlare solo di imperizia perché, come già osservato, la stessa è il terreno d’elezione della colpa medica, ma ciò non esclude che la colpa possa seguire ad un comportamento negligente e imprudente, di cui l’imperizia costituisce un’applicazione nel campo tecnico-specialistico.

A ben guardare, nella novella non vi è alcun riferimento alla colpa lieve. Di qui, il passo è breve per ritenere ripristinata la vecchia disciplina della colpa ante Balduzzi, e cioè ancorata al normale giudizio che governa la colpa, tenendo conto, però, delle regole cautelari, così come elaborate dai soggetti indicati dalla novella (enti pubblici, Istituto Superiore della Sanità, ecc.).

Si registra, dunque, una modifica in pejus dal punto di vista intertemporale, costituendo la norma una nuova incriminazione ex art. 2, co. 1 c.p. Pertanto, coloro i quali hanno posto in essere il reato prima dell’entrata in vigore della riforma Gelli continueranno a beneficiare del regime di favore previsto dal decreto Balduzzi.

Si segnala, infine, che alcuni hanno rinvenuto nella novella un esempio della c.d. “medicina di Stato”, essendo indicati i soggetti (pubblici e privati) deputati alla realizzazione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida, ed essendo le stesse obbligatorie, sebbene vi sia una clausola di salvezza per i casi in cui la specificità del caso concreto escluda il ricorso alle linee guida. Secondo questa interpretazione, quindi, un medico che abbia maturato competenze specialistiche in altri Paesi o comunque a causa di suoi studi personali, è impossibilitato dal poter mettere in pratica il suo sapere, in ragione dell’obbligatorietà delle linee guida che escludono, per tali ragioni, il ricorso alla “miglior cura” latu sensu intesa.

Come si è potuto osservare, l’attività medica rappresenta un settore in cui è necessario trovare un punto di equilibrio tra interessi spesso confliggenti. Da un lato c’è il diritto alla salute, irrinunciabile e insopprimibile, dall’altro l’esigenza che i rischi sottesi allo svolgimento di tale attività non ne inibiscano l’esercizio.

Tale bilanciamento ha trovato spazio anche nell’ambito dell’attività medico-chirurgica svolta in equipe.

La divisione dei ruoli è il punto di forza delle equipe mediche che si trovano ad affrontare casi clinici di ogni genere.

In tale specifico ambito ciò che ha destato preoccupazione è il confine del c.d. “principio di affidamento”. E cioè sino a che punto, in ragione dei diversi ruoli attribuiti a coloro che fanno parte dell’equipe, ciascuno di questi possa ritener di aver esaurito il proprio compito, facendo affidamento sul corretto svolgimento del ruolo dei propri colleghi.

Va precisato che l’operatività del principio in esame esclude l’applicazione dell’istituto della

“cooperazione colposa” delineato dall’art. 113 c.p.

Tale norma, che viene in rilievo soprattutto in tema di responsabilità medica di equipe, è stata introdotta al fine di disciplinare il concorso di persone nel reato colposo, quale species del più generale fenomeno del concorso di persone nel reato (doloso) di cui all’art. 110 c.p.

La norma stabilisce che “quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di questa soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso”.

La dottrina più accreditata ha ritenuto che con riguardo ai reati a forma vincolata l’istituto della cooperazione colposa ha una funzione di incriminazione, estendendo la punibilità a condotte di per sé atipiche; in ordine ai reati a forma libera, invece, è possibile apprezzare una mera funzione di disciplina.

Ebbene, la giurisprudenza si è preoccupata di individuare i limiti e i temperamenti all’operatività del principio di affidamento, nell’ambito dell’attività di equipe.

Un limite è stato rinvenuto nei casi in cui il medico percepisca che il collega non andrà ad ottemperare al suo ruolo, o comunque non ottempererà in modo corretto (limite, questo, che opera solo nella misura in cui il medico abbia la concreta possibilità di intervenire nel settore specialistico di competenza del collega).

Ancora, il principio di affidamento non opera laddove in capo ad uno dei professionisti incomba un dovere di sorveglianza sull’operato altrui, residuando, in tal caso, una eventuale culpa in vigilando.

La giurisprudenza ha affrontato anche un’altra questione che è emersa dalla prassi ospedaliera. Si tratta dei casi in cui a causa della successione dei turni di lavoro la cura del paziente sia affidata a medici diversi; di qui, il passaggio delle consegne, tendenzialmente, darebbe luogo ad un trasferimento della posizione di garanzia.

Tuttavia il principio ora esposto, come riferito dalla giurisprudenza di legittimità, incontra un limite ogni qualvolta il medico che sta per terminare il suo turno di lavoro non renda edotto il collega delle condizioni cliniche in cui versa il paziente. In questo caso, infatti, il medico non smarrisce la posizione di garanzia di cui è titolare, poiché a tale soggetto non è consentito confidare nella professionalità del collega al fine di apportare le cure necessarie, o, addirittura, al fine di porre rimedio agli errori da lui eventualmente commessi durante il suo turno.


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