La coltivazione di cannabis integra fattispecie punibile ex art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, ancorché finalizzata all’uso personale

La coltivazione di cannabis integra fattispecie punibile ex art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, ancorché finalizzata all’uso personale

La Corte costituzionale, con sent. n. 109 del 2016, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. 309/1990, sollevata dalla Corte di appello di Brescia con le ordinanze n. 98 e 200 del 2015, nella parte in cui esso non prevede che la coltivazione di cannabis ad uso personale sia soggetta a sanzioni amministrative.

In particolare, con le suddette ordinanze, la Corte di appello di Brescia ha lamentato l’illegittimità dell’art. 75 per violazione dei principi di ragionevolezza, uguaglianza ed offensività, desumibili dagli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2 e 27 co. 3, Cost.

La circostanza che la coltivazione di cannabis ad uso personale integri fattispecie penalmente rilevante ex art. 73, a differenza della detenzione per uso personale della medesima sostanza che configura illecito amministrativo ai sensi dell’art. 75 d.P.R 309/90, evidenzia la disparità di trattamento che sussiste tra colui che detiene la sostanza stupefacente, da lui precedentemente coltivata al fine del proprio consumo personale, e colui che coltiva la sostanza stupefacente per il medesimo fine.

Ad avviso della Corte di Appello, infatti, accertata la destinazione ad un uso personale, non può ritenersi ragionevole la disparità sanzionatoria tra la condotta di coltivazione di sostanza drogante e quella della detenzione per il consumo, in quanto essa implica un’ingiustificata disparità di trattamento fondata sulla circostanza che l’autoconsumatore sia sorpreso all’atto della coltivazione, ovvero all’atto della detenzione.

E’ irragionevole, sostiene la Corte, la circostanza che il consumatore va incontro a sanzioni amministrative se è sorpreso dopo aver già raccolto il prodotto, mentre risponde penalmente se è sorpreso durante la coltivazione.

Del resto, il differente trattamento sanzionatorio, che punisce come reato la sola condotta di coltivazione di cannabis, non trova giustificazione neppure nella maggiore offensività della condotta medesima.

Se la ratio della norma che incrimina la coltivazione (come la stessa Corte di Cassazione a Sez. Unite ha talvolta sostenuto) va individuata nella necessità di tutelare la salute pubblica, l’ordine pubblico e la sicurezza, contrastando la circolazione di sostanza stupefacente, allora la coltivazione di sostanza stupefacente è un fatto di per sé inoffensivo se finalizzata all’uso personale.

Se la coltivazione è finalizzata al consumo personale del coltivatore non vi è mai circolazione di sostanza drogante e, su queste basi, la condotta incriminata dall’art. 73 d.P.R. 309/1990 difetta di offensività in astratto.

Sul punto interviene la Corte costituzionale con sent. n. 109 del 2016 che rigetta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 d.P.R., ritenendo infondate le censure prospettate dalla Corte di appello remittente.

Ad avviso della Corte, la condotta di coltivazione di sostanza stupefacente e la condotta di detenzione della stessa sono condotte sempre diverse, a nulla rilevando che la coltivazione sia destinata al consumo personale.

Diversamente dalla detenzione di cannabis finalizzata al consumo personale, la coltivazione della medesima sostanza, quand’anche finalizzata all’autoconsumo, non smarrisce rilevanza penale e ciò sia analizzando la fattispecie nell’ottica prospettica della materialità della condotta, sia analizzando la fattispecie nell’ottica prospettica dell’offensività.

Non solo, infatti, la condotta di coltivazione è oggettivamente diversa da quella della detenzione, ma, soprattutto, la coltivazione è una condotta più grave rispetto alla prima, comportando l’immissione nel mercato di nuova sostanza drogante.

Nel pervenire a tale conclusione, la Corte dà atto delle scelte di fondo della normativa italiana di contrasto delle sostanze stupefacenti, evidenziando che il legislatore ha sempre inteso differenziare le condotte di coltivazione e di detenzione, sia in ragione della diversa posizione del consumatore rispetto al produttore e al trafficante, sia in ragione della idoneità delle condotta ad implementare i quantitativi di sostanza drogante presenti nel mercato.

Quanto alla diversa posizione assunta dai terminali del mercato di sostanza drogante, poiché il consumo di sostanza stupefacente sottende semplicemente un disadattamento sociale, esso è contrastabile con sanzioni amministrative e interventi di tipo terapeutico e riabilitativo del consumatore.

Diversamente, poiché le condotte di produzione e di spaccio di sostanze stupefacenti implicano l’agevolazione della diffusione di sostanza drogante, tali interventi risultano inadeguati e si rendono necessari più rigorosi interventi repressivi di stampo penalistico.

Anche a voler prescindere dal tipo di condotta, cioè condotta di detenzione per il consumo e condotta di produzione e spaccio, il legislatore individua la diversa strategia di contrasto in base all’idoneità o meno della condotta ad implementare il quantitativo di stupefacenti esistente.

E’ assoggettata a trattamento penale non solo la condotta incompatibile con il consumo, quale ad es. la condotta di vendita, di commercio, di cessione, ma anche la condotta che, ancorché potenzialmente compatibile sia con il consumo personale che con la cessione (c.d. condotta “neutra”), è in grado di incrementare le quantità di sostanze proibite già esistenti.

E’ l’idoneità ad immettere nel mercato nuova sostanza drogante, tipica di condotte come la produzione, la fabbricazione e la coltivazione di sostanze stupefacenti, a giustificare il più rigoroso trattamento sanzionatorio, e non invece il tipo di condotta e la possibilità che la stessa sia finalizzata ad un uso personale.

Di tali coordinate dà atto l’art. 75 d.P.R. 309/90, che non contempla tra le ipotesi di illeciti amministrativi la condotta di coltivazione destinata all’autoconsumo; condotta che, implicando l’immissione nel mercato di nuova sostanza drogante, assume sempre rilevanza penale ex art. 73 d.P.R., n. 309/90.

Alla luce di tutto quanto sopra, la Corte costituzionale rigetta nel merito le censure sollevate dalla Corte di appello bresciana.

In primo luogo, quanto alla lamentata violazione dell’art. 3 Cost., la Corte evidenzia che non vi è disparità sanzionatoria tra il consumatore sorpreso all’atto del raccolto di sostanza stupefacente da lui precedentemente coltivata e il consumatore sorpreso all’atto della coltivazione stessa.

Anche colui che consuma sostanza stupefacente da lui precedentemente coltivata è punito, al pari di colui che sia sorpreso all’atto della coltivazione, a titolo di illecito penale, non rilevando che il primo sia sorpreso al momento della mera detenzione.

In applicazione dei criteri che regolano il concorso di norme, infatti, la norma che disciplina l’illecito penale assorbe il successivo illecito amministrativo, in quanto la disponibilità della sostanza stupefacente di cui il consumatore sia trovato in possesso rappresenta l’ultima fase della coltivazione medesima.

Di conseguenza, non sussiste disparità di trattamento tra il detentore dello stupefacente raccolto e il coltivatore in atto, dovendo entrambi rispondere penalmente delle rispettive condotte.

In secondo luogo, quanto alla doglianza relativa alla presunta inoffensività della coltivazione di stupefacenti ai fini del consumo personale, dopo aver ribadito la distinzione tra offensività in astratto e offensività in concreto, la Corte afferma che non sussiste alcun contrasto con il principio costituzionale della necessaria offensività del reato, salvo poi rimettere al giudice di merito il compito di verificare in concreto l’offensività della condotta di coltivazione.

Per offensività in astratto si intende il principio di rango costituzionale che si rivolge al legislatore e che impone allo stesso di prevedere come reato solo fatti offensivi, cioè fatti che arrecano un effettivo nocumento o espongono a pericolo beni giuridici meritevoli di tutela.

Se il bene giuridico presidiato dalla legislazione sulle sostanze stupefacenti è la salute pubblica, anche la coltivazione di sostanze stupefacenti per uso personale risulta essere una condotta lesiva di tale bene, ancorché indirettamente, con la conseguenza che l’incriminazione della suddetta condotta non contrasta con la Costituzione.

La coltivazione di sostanze stupefacenti, evidenzia la Corte, è una condotta c.d. “neutra”, cioè una condotta logicamente compatibile sia con il consumo personale che con la cessione a terzi, in quanto capace di accrescere la quantità di stupefacente esistente e quindi, indirettamente, capace di agevolarne la diffusione.

L’idoneità della condotta di coltivazione all’immissione nel mercato di nuova sostanza drogante rende irrilevante la finalità del consumo personale della sostanza prodotta e giustifica il trattamento sanzionatorio più rigoroso riservato alla stessa, rispetto alla detenzione di sostanza stupefacente volta al medesimo fine.

Così descritta, la coltivazione di sostanze stupefacenti, indipendentemente dalla possibile finalizzazione all’uso personale, è una condotta offensiva del bene giuridico presidiato dalla legislazione sugli stupefacenti e non, invece, come sostenuto dalla Corte bresciana, una condotta inoffensiva della salute pubblica per l’essere, nella sua finalizzazione all’uso personale, insuscettibile di circolazione.

Mentre la coltivazione di cannabis integra fattispecie punibile ex art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, in quanto essa consiste in una condotta che, ancorché finalizzata al consumo personale, è in astratto più offensiva della mera detenzione, la punibilità in concreto della medesima va valutata di volta in volta dal giudice di merito.

Compete al giudice verificare che la condotta di coltivazione sia in concreto capace, per le modalità e le circostanze in cui essa si svolge, di offendere il bene giuridico protetto e di escludere la punibilità dell’imputato per l’ipotesi in cui essa sia concretamente inoffensiva.

Considerazioni a margine della sentenza n. 109/2016: il giudizio sull’offensività.

La Corte costituzionale, nel rigettare la questione di legittimità sollevata rispetto all’art. 75 d.P.R. 309/90 e, quindi, nel confermare la rilevanza penale della condotta di coltivazione di sostanza stupefacente destinata all’autoconsumo del coltivatore, sancisce l’irrilevanza, in tale ambito, della finalità dell’uso personale dello stupefacente prodotto.

Diversamente dalla condotta di detenzione di sostanza stupefacente finalizzata al consumo personale, la condotta di coltivazione, ancorché sia volta al medesimo fine, conserva il carattere di illecito penale, in quanto condotta più offensiva della mera detenzione, inidonea ad incrementare il quantitativo di sostanza stupefacente esistente nel mercato.

In questo senso la Corte sembra condividere, in punto di verifica dell’offensività in concreto, l’orientamento più restrittivo e ad oggi maggioritario in base al quale il giudice di merito deve valutare l’offensività della condotta di coltivazione con riguardo al tipo di pianta coltivata e alla sua attitudine a produrre sostanza stupefacente.

Prima dell’intervento della Corte costituzionale, il giudizio sull’offensività in concreto della condotta di coltivazione di sostanza stupefacente era ricondotto a parametri di valutazione tra loro completamente contrapposti.

Al criterio della difformità dal tipo botanico previsto dalla legge sugli stupefacenti e al criterio delle modalità della coltivazione (infra alios, Cass., n. 3037/2016), altra giurisprudenza (infra alios, Cass., n. 2618/2016) contrappone i criteri della destinazione della sostanza e del quantitativo prodotto.

Per questa seconda impostazione, la condotta di coltivazione di cannabis è una condotta inoffensiva in presenza di un conclamato uso personale, quale destinazione della coltivazione, o quando la sostanza ricavabile dalla coltivazione è di entità talmente minima da escludere un serio incremento del quantitativo di sostanza drogante presente nel mercato e, quindi, la possibilità di diffusione.

A fronte di tale impostazione la Corte, nel sancire l’irrilevanza della destinazione del prodotto coltivato all’uso personale in merito al rilievo penale della condotta di coltivazione, conclude coerentemente che il giudice di merito, nel valutare l’offensività in concreto della condotta di coltivazione, non deve far leva sulla finalità di uso personale ma sul tipo di pianta coltivata e sulla idoneità della stessa a produrre sostanza stupefacente.

Una diversa strategia di difesa della collettività dalla droga: la nuova proposta di legge.

Chiarita la posizione della Corte sul rilievo penale della condotta di coltivazione di cannabis ad uso personale, merita qualche cenno il contrapposto orientamento legislativo portato di recente all’attenzione del Parlamento.

Il 25 luglio 2016 è approdato alla Camera un disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis che reca, tra le varie riforme proposte, la possibilità di legalizzare la coltivazione della cannabis per uso personale.

In particolare, la proposta n. 3235 prevede la possibilità per cittadini maggiorenni di coltivare cannabis entro il limite massimo di cinque piante di sesso femminile, con conseguente possibilità di consumare quanto ottenuto.

La coltivazione può essere esercitata sia in forma individuale che associata, purché senza fine di lucro, da un numero di cittadini maggiorenni non superiore a 50 e fermo il limite delle cinque piantine previsto.

La microcoltivazione di cui sopra non è soggetta ad alcuna autorizzazione, salvo l’obbligo di comunicare per iscritto la suddetta attività all’ufficio regionale Monopoli, unitamente ai dati dei coltivatori ad uso personale, che saranno trattati come dati sensibili secondo il Codice della privacy.

La coltivazione di cannabis finalizzata alla commercializzazione è invece riservata allo Stato, il quale provvederà, in regime di monopolio, anche alla lavorazione dei prodotti da essa derivati e alla loro vendita.

A tale fine, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli può autorizzare privati a coltivare cannabis e venderla in appositi locali, consentendo in tale modo di tracciare il processo produttivo.

Resta punita, invece, la vendita di cannabis da parte dei privati in assenza delle autorizzazioni previste, diversamente dalla cessione gratuita che è consentita se ha ad oggetto piccoli quantitativi, cioè 5 grammi in luogo aperto al pubblico e 15 grammi nella privata dimora.

La nuova proposta, inoltre, elide la rilevanza amministrativa della detenzione di cannabis che, ove finalizzata ad un uso ricreativo, cessa di essere illecito amministrativo ex art. 75 d.P.R. 309/90 e diventa una condotta lecita, se contenuta nei suddetti limiti quantitativi.

Il consumo di cannabis è assistito da una serie di regole comportamentali.

Tale consumo, infatti, è una condotta lecita solo se avviene in spazi privati, sia chiusi che aperti, mentre è una condotta illecita se avviene in luoghi pubblici, aperti al pubblico e negli ambienti di lavoro.

Infine, al pari di quanto già previsto per il consumo di alcolici, la proposta di legge vieta la guida dopo il consumo di cannabis e rimette alla legge, eventualmente approvata, il compito di stabilire i criteri per attuare i controlli ed applicare le sanzioni.

Da tutto quanto sopra emerge la consapevolezza da parte del legislatore della inidoneità dell’attuale normativa di contrasto degli stupefacenti alla tutela della salute pubblica e dell’ordine pubblico, quali beni giuridici da essa presidiati.

Il largo consumo di cannabis dimostra il fallimento della politica proibizionista di questi ultimi decenni, così che il Parlamento torna ad interrogarsi sulla migliore strategia di difesa della collettività dalla droga, chiedendosi se essa non debba, piuttosto, attuarsi mediante la legalizzazione della cannabis.

La legalizzazione della cannabis implica, non solo la regolamentazione del mercato di sostanze stupefacenti, ma anche l’educazione dei giovani ad un c.d. “consumo sicuro”.

Riservando la produzione, la lavorazione e la vendita di cannabis al monopolio dello Stato è possibile controllare i quantitativi di sostanza stupefacente presente sul mercato, ma soprattutto controllare che la marijuana non venga tagliata con altre sostanze chimiche che accrescono il rischio della dipendenza e del consumo di droghe pesanti.

Si tratta di valutazioni, queste ultime, che non competono ad una trattazione di carattere giuridico, ma che servono per insinuare quanto meno il dubbio, da dissiparsi con la doverosa interlocuzione con le scienze di settore, che una diversa strategia di contrasto delle sostanze stupefacenti possa tutelare la salute pubblica in modo più efficiente.

La legalizzazione della cannabis, inoltre, secondo le previsioni dei fautori del disegno di legge, presenta il merito di indebolire la criminalità organizzata e rescindere il contatto tra giovani e mafie, consentendo ai consumatori di droghe leggere la possibilità di reperire lecitamente tali sostanze.

Sulla scorta di queste osservazioni, il ddl portato all’esame della Camera lo scorso 25 luglio ha ottenuto l’appoggio di oltre 200 parlamentari di tutti gli schieramenti e di tutte le fazioni, ma la maggioranza resta divisa tra partiti assolutamente contrari e numerosissimi emendamenti.

Si continua a sostenere, infatti, che il guadagno sottratto alle mafie con la legalizzazione è irrisorio rispetto a quanto la criminalità trae dal traffico delle droghe pesanti e che nessuno Stato democratico possa permettersi di legalizzare una sostanza che, secondo la scienza medica tutt’altro che superata, continua a provocare danni alla salute dei cittadini.

Il dibattito sulla legalizzazione della cannabis come strategia di contrasto della criminalità organizzata è un dibattito risalente, che non ha finora trovato risposta positiva. Non resta, pertanto, che attendere la fine della pausa estiva e la riapertura dei lavori parlamentari, per scoprire se il legislatore riterrà di confermare il proibizionismo indiscriminato o inaugurare la svolta epocale della liberalizzazione parziale.


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