La coltivazione domestica di piante stupefacenti per uso personale non è reato

La coltivazione domestica di piante stupefacenti per uso personale non è reato

Le Sezioni Unite Penali cambiano l’orientamento: non è punibile la coltivazione domestica, di minime dimensioni, di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, che appaia destinata in via esclusiva all’uso personale.

a cura di Francesca Di Mezza*

 

Si legge nell’informazione provvisoria n. 27 della Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 19 dicembre 2019: “non costituiscono reato le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.

La coltivazione in casa, in quantità minime, di piante stupefacenti non costituirà più reato, ove risulti che sia volta al solo uso personale del coltivatore.

Per accertare ciò, assumeranno rilevanza le modalità di coltivazione, che devono essere “rudimentali”, espressione che induce a pensare al tradizionale innaffiatoio, escludendo fertilizzanti e impianti di irrigazione, il numero di piantine, che deve essere minimo, così come deve essere piccolo il quantitativo di prodotto ricavabile, nonché l’assenza di “ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”. Inoltre, l’unico utilizzatore può essere solo colui che si dedica materialmente alla cura delle piante e non anche eventuali componenti della famiglia, né può esserci un consumo di gruppo.

Il principio è che il bene giuridico della salute pubblica non viene pregiudicato o messo in pericolo dal singolo assuntore di stupefacenti che decide di coltivare per sé qualche piantina.

La decisione segna una vera e propria svolta, considerato che la Cassazione aveva sinora sostenuto che la coltivazione non autorizzata di piante stupefacenti costituisse reato, anche se realizzata per l’uso personale e indipendentemente dal numero di piantine e dal quantitativo di sostanza ottenibile.

Sul tema anche la Corte Costituzionale è intervenuta, chiamata a pronunciarsi in merito a una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Appello di Brescia.

Premesso che detenere piccole quantità di marijuana non è più reato dopo l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, ma soltanto un illecito amministrativo, la Corte di Appello di Brescia rilevava una possibile contraddizione giuridica con riferimento al reato di coltivazione.

Il principio affermato dalla Consulta è stato che la coltivazione di piante di stupefacenti è sempre reato, anche se destinata ad uso personale, a prescindere dal numero di piantine e dal principio attivo ritrovato dalle autorità. Si stabiliva che la condotta di coltivazione di piante stupefacenti è idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto che coltivandole si aumenta la quantità di droga in circolazione e, quindi, si può contribuire al fenomeno dello spaccio. La disparità di trattamento tra il detenere marijuana per uso personale e possedere una o poche piantine, affermava la Consulta, è che nel primo caso la quantità di sostanza stupefacente è determinata, nel secondo no.

La Corte di Cassazione, alla luce di quanto affermato dalla Consulta, aveva finora confermato le condanne in caso di coltivazione anche di poche piantine e a prescindere dallo stato in cui si trovasse la pianta al momento del controllo.

Sorprende, pertanto, il principio affermato dalle Sezioni Unite nell’informazione provvisoria n. 27, resa al termine dell’udienza del 19 dicembre 2019. Si attende il deposito delle motivazioni, a chiarimento del cambiamento di orientamento della Corte di Cassazione.

Nell’informazione provvisoria si legge, inoltre, che la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente sono sufficienti a integrare il reato di coltivazione di stupefacenti, non rilevando, invece, la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza.

Tale pronuncia delle Sezioni Unite, riguardante un caso di coltivazione di due piante di marijuana (l’una alta un metro e con diciotto rami, l’altra alta un metro e quindici centrimetri e con venti rami), interviene a dirimere un contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità.

La coltivazione di piante destinate alla produzione di sostanze stupefacenti, secondo principio consolidato, integra il reato di cui all’art. 28, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, a prescindere dalla finalità della condotta e dalla natura domestica o meno della coltivazione. Tuttavia la condotta deve recare in sé, ai fini dell’integrazione del reato, un nucleo minimo di offensività, anche potenziale. Spetterà al giudice verificare in concreto, così come affermato dalle Sezioni Unite del 2008, con la sentenza n. 28605, l’offensività della singola condotta di coltivazione non autorizzata ovverosia se essa risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità.

Sul concetto di “offensività in concreto”, sono emerse, però, nella giurisprudenza di legittimità, due diversi orientamenti, che condividono il medesimo presupposto, ovverosia che la pianta debba essere quantomeno conforme al modello botanico vietato. Secondo il primo indirizzo, però, non basta la coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma occorre anche verificare la concreta idoneità di tale attività a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentadone il mercato, perché possa configurarsi il reato previsto dall’articolo 28 Testo Unico sugli stupefacenti. Invece, il secondo orientamento, nell’ottica di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente, richiede, ai fini della punibilità della condotta, la conformità della pianta coltivata al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente. Secondo questa secondo linea interpretativa la capacità offensiva della condotta di coltivazione consiste nella sua idoneità a produrre le sostanze per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza.

Stante il suddetto contrasto giurisprudenziale, la Corte di Cassazione, sez. III penale, ha ritenuto necessario sottoporre alle Sezioni Unite il seguente quesito, di rilevanza giuridica e sociale: “se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, è sufficiente che la pianta, conforme al tipo botanico previsto, sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la qualità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l’attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”.

In attesa delle motivazioni, la decisione delle Sezioni Unite è la seguente: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.


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Francesca Di Mezza

Laureata in Giurisprudenza presso l’Università “Federico II” di Napoli con votazione 110/110, discutendo una tesi in procedura penale dal titolo “L’uso processuale dell’interrogatorio dell’indagato”. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli e ha conseguito il titolo di avvocato. Ha frequentato corsi di approfondimento post lauream.

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