La condizione giovanile in Italia

La condizione giovanile in Italia

Introduzione

Pur se la dimensione sociale della categoria giovani è nata a ridosso degli anni sessanta, quando, cioè, emergono i linguaggi espressivi, la musica popolare, i gusti, la moda e tutta una serie di sistemi comunicativi orientati al cosiddetto “boom economico”, oggi, nel mondo occidentale, emerge la “questione giovanile” in maniera dirompente. Molti sono stati i cambiamenti che hanno attraversato le società del capitalismo avanzato in relazione alla tecnologia, alla scienza, all’economia, all’organizzazione sociale. I mutamenti dei paesi Occidentali sono evidenti, tant’è che si parla di una seconda modernità caratterizzata da nuovi modelli sociali di riferimento. Basti pensare al processo di secolarizzazione con l’allentarsi degli assetti ideologici, religiosi e normativi; ai processi d’individualizzazione e conseguentemente all’emergere del relativismo valoriale; ai processi di scolarizzazione di massa che vede prolungare i tempi dell’istruzione; ai nuovi strumenti tecnologi e digitali che diventano sempre più pervasivi nella vita quotidiana, rivoluzionando “il sapere” e i normali assetti istituzionali e di lavoro; al mutato ruolo della donna nella società, che fuoriesce dallo spazio familiare e che trova occasioni di realizzazione personale anche al di fuori da esso, partecipando attivamente al mercato del lavoro e ponendo problematiche relative alla conciliazione vita-lavoro; ai caratteri dell’emigrazione e dell’immigrazione che ha cambiato, e che tutt’ora cambia, lo scenario economico, demografico e culturale italiano. Infatti sia in relazione alla fuga dei cervelli- ovvero quella fetta degli italiani che va a lavorare all’estero- e sia in relazione all’entrata degli stranieri – e quindi al fenomeno delle seconde generazioni-  l’Italia sta conoscendo una nuova fase di cambiamento e di ibridazione culturale, costernata da profondi interrogativi su grandi temi come l’integrazione, i diritti di cittadinanza, inclusione e lavoro. Inoltre non si possono trascurare i cambiamenti riguardanti il modo di organizzare il lavoro, sempre più flessibile e sempre più specializzato: se da un lato c’è il segmento dell’occupazione standard che gode di elevata tutela, dall’altra è molto forte la presenza di un mercato del lavoro atipico, connesso alle nuove forme contrattuali incerte e precarie.

Di fronte al verificarsi della precarietà, i giovani si trovano in seria difficoltà a conseguire lo status di adulto e a realizzare un progetto di vita a lungo termine. Le politiche della flexicurity[1] e la segmentazione del marcato del lavoro decise dalla Strategia Europea per l’Occupazione, hanno causato, in Italia, diversi effetti tra cui la precarietà, l’instabilità lavorativa, redditi più bassi, minori possibilità di carriera e minori protezioni sociali andando a colpire proprio le fasce più deboli (giovani e donne). In questa congiuntura di particolare transizione tra il vecchio e il nuovo, tra modernità e post-modernità, molti studiosi inducono a pensare che si tratti di vera e propria discriminazione dei giovani dal mercato del lavoro, che dà logo, inevitabilmente, a fenomeni di emarginazione ed esclusione sociale. Sicuramente il lavoro non ha la pretesa di essere l’unica dimensione entro cui studiare la condizione giovanile. Tuttavia, attraverso alcune riflessioni e considerazioni in merito allo stato attuale dei giovani nel mercato del lavoro, non si possono eludere sostanziali argomentazioni che si sviluppano intorno ad alcune variabili socio-economiche, considerando che l’Italia presenta una struttura atipica del lavoro che, per certi versi, si discosta molto dal modello europeo. I giovani, esclusi dal processo lavorativo, con notevoli difficoltà di inserimento, si trovano a doversi scontrare con una serie di problematicità irrisolte, sia in termini di discriminazione di genere, quando si parla ad esempio di donne e lavoro – il cosiddetto soffitto di cristallo- sia in termini di un ricambio generazionale quando si parla di lavoro, governo, di amministrazione pubblica e di ricambio delle sfere del potere. Il paese non è in grado di assicurare, a una quota significativa di giovani under 30 – e non solo- l’accesso al circuito produttivo (Cnel, 1998). Laddove la globalizzazione, le spinte verso l’omologazione, la velocità delle informazioni, le tecnologie digitali sempre più avanzate, hanno consentito la flessibilità e un modo diverso di organizzare il lavoro, in Italia si assiste ad irrigidimento dell’offerta, provocando uno svantaggio proprio dei giovani più scolarizzati- i laureati per intendere.

Ragion per cui, date queste premesse, in questa breve analisi, prevalentemente di tipo bibliografica, risulta fondamentale definire la categoria giovani, inquadrandola in un dato tempo e in un dato contesto ma soprattutto analizzarla utilizzando variabili socio-economiche come il tasso di occupazione, di inoccupazione e di disoccupazione. Ragion per cui, alla ricerca bibliografica, si aggiunge l’analisi su fonti statistiche ufficiali, utilizzando i dati elaborati dall’Istat, dall’ Isfol, dall’Istud etc. Dunque, come si vedrà più avanti, emerge uno svantaggio generazionale tipico di un paese attraversato da una profonda crisi socio – economica strutturale ed endemica. La lente di ingrandimento sul caso italiano acquista una significanza maggiore proprio perché l’Italia è uno dei paesi firmatari del protocollo Europa 20.20, un progetto che punta allo sviluppo intelligente, equo-solidale e sostenibile, che parte dunque dai giovani, dal loro talento e dal loro essere esperti digitali.

1.1 Quali giovani? la precarietà e l’insicurezza delle giovani generazioni

Le nuove generazioni, rispetto al passato si trovano a fare i conti con un mondo inesplorato, non più tracciato dall’azione dei loro genitori, con ruoli e status, per certi versi, quasi ascritti ma tutto è socialmente, e individualmente, da costruire. Lo studioso Beck (2001) fa notare di quanto la contemporaneità sia segnata da un profondo senso di insicurezza, innescato dal processo di disintegrazione delle classi, dalle unità familiari e produttive di tipo tradizionale, mandando così in crisi il progetto di vita a lungo termine. Uno degli elementi fondamentali che caratterizzano le società post moderne, secondo Beck, è la democratizzazione del rischio cioè la presa in carico direttamente dagli individui delle responsabilità sociali, per cui il rischio-inteso come probabilità di fallire- non è più relegabile all’eccezionalità, al probabilistico e diventa anzi, ineludibile. Se le società moderne erano fondate sul modello sociale europeo, organizzati cioè su tre pilastri fondamentali, quali la stabilità occupazionale, la presenza di un welfare generoso e la persistenza di forti legami solidaristici società- famiglia, nella seconda modernità questo tipo di assetto viene smantellato dall’individualismo (Ranci, 2000). Per cui l’individuo è esposto maggiormente ai rischi che derivano direttamente dalla responsabilità delle sue scelte. In assenza di queste certezze, l’organizzazione del futuro diventa molto difficile.  L’autoriflessività diviene una risorsa sempre più indispensabile per orientarsi e fronteggiare l’incertezza, tentando di dare un senso alla propria biografia. In questo scenario si muovono le azioni dei giovani, i quali, interpretando per primi i cambiamenti del loro tempo, si trovano a dover gestire uno stato di perdurante vulnerabilità, generata, inevitabilmente, dalle imprevedibilità mai sperimentate prima.  Si parla, dunque, di una generazione che possiede un’identità fluida e che della flessibilità ha fatto una caratteristica identitaria: una fluidità esperienziale, prodotta dalle continue transizioni tra diverse attività e ruoli sociali (Bauman, 1999; 2001; 2002; Cesareo, 2006).

La flessibilità e la precarietà cui sono sottoposti rappresentano una vera e propria minaccia per il futuro, non potendo più contare sugli assetti economici e sociali di tipo tradizionali. I nuovi contratti, le specializzazioni legate all’informatica e alle telecomunicazioni inducono ad un maggiore flessibilità del lavoro e a richiedere sul mercato abilità e competenze sempre più competitive e qualificate. I giovani si trovano di fronte ad una situazione duale dovuta ad una segmentazione del mercato del lavoro: da un lato c’è il segmento dell’occupazione standard che gode di elevata tutela; dall’altra, il segmento del lavoro atipico che causa inevitabilmente una maggiore instabilità occupazionale, scaricando sul lavoratore stesso i rischi di perdere il posto di lavoro (Ires Cgil, 2010). Di conseguenza, le nuove generazioni, rispetto al passato si trovano a fare i conti con un mondo non più scandito attraverso i tempi del lavoro, con ruoli e status antropologicamente e socialmente definiti. I ruoli canonici affidati alla tradizione e alla famiglia vengono soppiantati dall’incertezza e dalla subalternità dei rapporti prima lavorativi e poi sociali. I sociologi del rischio, individuano una condizione di vulnerabilità sociale (Ranci, 2000) connessa a svariati elementi, tra cui l’avvenuta democratizzazione del rischio (Beck, 2002) che di fatto frantuma le certezze e il quadro normato di ruoli e responsabilità sociali. Nella società del rischio una traiettoria socialmente normata verso l’età adulta si è smarrita (Crespi, 2005 p58). I giovani, a mano a mano che perdono il loro posto subalterno rispetto agli adulti, conquistano ampi spazi di libertà in famiglia, pur tuttavia non riuscendo ad affrancarsi da essa. Di fronte alla conquista della libertà dei giovani, rispetto a ruoli e funzioni degli adulti, nella post modernità gli stessi, paradossalmente, si trovano intrappolati in un presente immobile, in una condizione di prolungata di giovinezza (Amaturo, 2007). Addirittura anche le istituzioni primarie e le famiglie, per utilizzare un termine di Bazzanella (2010) diventano sempre più concilianti con i giovani, nello sforzo di garantire loro tutela e sicurezza. Quindi le nuove generazioni, sono invisibili, ripiegate su se stesse e difficilmente collocabili dal punto di vista sociale. Una generazione che vive l’incertezza del futuro, che entra ed esce in ambienti e ruoli diversi senza una progettualità e una visione a lungo periodo, che vive l’hic et nunc (vivere alla giornata) rincorrendo l’impressionante accelerazione dei processi economici, sociali e cognitivi.

Di conseguenza, la costruzione sociale dell’identità e del ruolo dei giovani, non necessariamente prende forma in un rispecchiamento nell’agire sociale delle vecchie generazioni (i genitori per intendere), nell’ottica di una riproduzione antropologica, scandita attraverso alcune tappe socialmente normate, ma tutto è segnato da un’incertezza biografica (Rampazi, 2005). Il passaggio dalla sicurezza sociale alla sicurezza individuale segna il passaggio dalla società moderna a quella post-moderna, caratterizzata, paradossalmente, da un profondo disagio giovanile in un’Italia senza un reale sviluppo industriale e digitale, attraversata da una crisi strutturale profonda e pervasa da un forte senso di precarietà e di  incertezza del futuro.

1.2 Il contesto italiano tra occupazione, disoccupazione e precarietà. Le differenze territoriali e di genere

Con la nuova fase della globalizzazione e conseguentemente con la crisi del sistema taylorista – fordista, si pongono nuove problematiche riferite al difficile inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, all’instabilità economica dovuta principalmente alla delocalizzazione, alla flessibilità e ai nuovi contratti atipici. Se le politiche della flessibilità del ’97 dovevano in qualche modo migliorare le condizioni dei giovani e lavoro nell’ottica della piena occupazione (Reyneri, 2000) di certo, con lo scoppiare della crisi del 2008, si ritorna a parlare della questione giovanile. La disoccupazione giovanile, poco prima della crisi, è di 7 punti percentuali maggiore rispetto agli altri paesi, superando, quindi, abbondantemente la media europea e arrivando intorno al massimo storico del 40% circa. L’Italia è posta agli ultimi posti insieme alla Grecia, Slovacchia e Polonia. Anche in Europa la crisi si è fatta sentire: dal 2008 in Europa sono diminuiti gli occupati di circa 5 milioni, soprattutto quella maschile (Istat, 2013). Tuttavia, ciò che differenzia l’Italia rispetto agli altri paesi non è- come invece si può pensare- il gap riguardante il tasso di disoccupazione, ma la misura più grave dei giovani italiani è riferita al tasso di occupazione (Abburrà, 2010). Il sociologo Pugliese, già a metà degli anni ’90 parlava di un’esclusione dei giovani dal mercato, registrando un alto tasso di inattività e l’emergere addirittura di quello che viene chiamata “la segregazione professionale delle donne nel settore terziario”. In particolare, il sociologo parla di un modello mediterraneo di disoccupazione (Pugliese, 1993) caratterizzato proprio dalla persistenza di bassi livelli di attività- specie giovanili e femminili- da un basso livello di istruzione, dalla presenza di forti squilibri territoriali (tra Nord e Sud), e dalla persistenza del lavoro non regolare (a nero). Oggi la situazione rimane immutata: il tasso di occupazione dei giovani è notevolmente inferiore rispetto agli altri paesi europei: Il tasso di attività è l’elemento fondante il gap, con una condizione di inattività dei giovani italiani che è molto più frequente (Abburrà, 2010).  Mentre in Germania, Olanda, e Danimarca il sistema duale permette una collocazione quasi immediata dei giovani da poco laureati, in Italia si registra un  basso sistema di protezione dell’occupazione (Reyneri, Pintaldi 2013). Dal 1995 al 2008, l’occupazione dei giovani è rimasta pressoché stabile. Se in quegli anni sembrava che l’impiego di giovani stesse crescendo in modo considerevole grazie alla flessibilità e ai nuovi contratti di collaborazione, in realtà questo effetto era dovuto al crescere delle iscrizioni ai corsi di istruzione superiore. Grazie, infatti, al boom dei corsi di laurea triennali, il primo effetto è stato l’aumento degli iscritti e al tempo stesso una riduzione della domanda di lavoro.

All’indomani della crisi il tasso di disoccupazione ha superato il 35% dei giovani in età compresa tra i 15 e 24 anni, un livello mai raggiunto nemmeno durante la crisi di metà anni Ottanta (Reyneri, Pintaldi, 2013 pag 23). Tuttavia se negli anni ’80 erano molto più numerosi i giovani dai 15 e i 24 anni che avevano terminato gli studi, e dunque il tasso di disoccupazione veniva calcolato su una platea più elevata, oggi il 60% di questi studiano ancora. Di conseguenza il tasso di disoccupazione degli anni 80, sul totale della popolazione, era molto più elevato- intorno al 15%- rispetto al 2012 che raggiunge soltanto il 10%. Ma come già si è specificato prima, questo dipende dalla grossa percentuale di giovani che studiano, e non solo, visto che incide anche la fascia di giovani cosiddetti inattivi: infatti, su 6 milioni di giovani 15-24 enni, 4,3 milioni sono inattivi, un milione e poco più sono occupati e 600 mila sono disoccupati. Dunque se da un lato il tasso di disoccupazione supera il 35% sulla popolazione giovanile i disoccupati sono soltanto circa il 10%. (E. Reyneri; F.Pintaldi 2013). Un’indagine dell’Ires Cgil su giovani e lavoro in Italia (2012), riferendosi ai dati dell’Eurostat (2009) tiene a precisare che a confronto con gli altri paesi europei, la condizione più problematica non è misurata dalla disoccupazione, bensì dall’occupazione (occupati su popolazione della stessa fascia d’età). L’Italia, sempre secondo lo studio Ires-Cgil, mostra una condizione peggiore relativamente alla presenza sul mercato del lavoro, sia essi occupati e sia disoccupati riferiti alla stessa classe di età, specie se si tratta di giovani con titoli non superiori all’obbligo scolastico. Il paradosso sta proprio nel fatto che l’Italia riesce ad avere più uscite precoci dal sistema d’istruzione-formazione e più ingressi tardivi nel mercato del lavoro (Abburrà,2012). In questo scenario, il divario di genere è andato consolidandosi: le donne conoscono un più difficile accesso al mercato del lavoro, dato che sono meno occupate rispetto ai maschi- soprattutto nelle fasce di età tra i 25 e 34 anni- tant’è che prolungano il loro percorso di studi- il 18% di donne studia contro il 4% dei maschi. Questo fenomeno non riguarda soltanto le donne meridionali ma tutto il territorio italiano; la differenze Nord-Sud viene confermata, non soltanto a livello del tasso di disoccupazione (la maggior parte dei disoccupati sono concentrati al Sud) ma nel meridione i tempi di attesa sono maggiori rispetto ad un primo impiego lavorativo- anche se nel corso del tempo i più istruiti corrono minori rischi di rimanere disoccupati a lungo (De luigi, Rizza, 2011). Dai 25 ai 34 anni i giovani che vorrebbero lavorare sono 19 su 100 e non riescono a trovare lavoro 20 giovani adulti su 100.  Secondo Andersen (2000) il sotto utilizzo della forza lavoro giovanile è da ricondursi nella scarsa occupabilità dei giovani ossia alla loro capacità ridotta di trovare un impiego e di mantenerlo. In un mercato sempre più globalizzato caratterizzato da uno sviluppo economico e tecnologico sempre più rapido, la flessibilità dovrebbe essere accompagnata da incentivi e da vincoli nella ricerca attiva del lavoro. La rigidità del mercato del lavoro è riconducibile all’eccessiva regolamentazione normativa che oltre a non incentivare l’iniziativa individuale, favorirebbe la creazione di trappole della dipendenza dei benefici del Welfare (De luigi, Rizza, 2011 p. 119). Il paradigma dell’occupabilità prevede, dunque, la liberalizzazione degli impieghi temporanei, che annulla i costi di licenziamento e del turn-over e fa diminuire le forme di protezione sociale,  scoraggiando il ricorso al sostegno del welfare e incentivando, infine, la tendenza ad  accettare qualsiasi posto di lavoro. La deregolamentazione del mercato del lavoro dovrebbe produrre, secondo studiosi più autorevoli come Spencer (1973) e Stiglizt, (1975) un incremento di assunzioni temporanee e quindi permetterebbe ai lavoratori di essere segnalati per la loro produttività. Alcuni studiosi, invece, come Piore (1970), lo stesso Anderson (2000), Cimaglia (2009), Rizza (2003), Bertolini (2002), Barbieri (2005), sostengono il contrario ovvero che in Italia, i due interventi legislativi, uno del 1997 e l’altro del 2003[2] hanno investito principalmente i giovani, in particolare quelli in cerca di prima occupazione, perché di fatto gli stessi si troverebbero intrappolati nel sistema dei lavori temporanei, accompagnati da carriere precarie, con il rischio di passare facilmente a periodi di occupazione a periodi disoccupazione non protetta.

Secondo Reyneri e Pintaldi (2013) nei periodi di crisi, sono proprio i giovani ad essere più colpiti rispetto agli adulti, agli anziani, al capofamiglia, e sono non soltanto meno occupati ma anche meno disoccupati. I giovani più istruiti non riescono ad impiegare il loro potenziale e di fatto vengono esclusi dal circuito dell’innovazione e della flessibilità. In questo scenario bisogna riconoscere un peso all’ assetto familistico che caratterizza ancora il sistema dell’occupazione in Italia: si è riscontrata una minore esposizione al rischio di disoccupazione dei capofamiglia italiani rispetto a quelli degli altri paesi europei. Il tasso di occupazione dei capofamiglia maschi supera l’80%, un tasso ben più alto della stessa Germania, che si aggira intorno al 78%, all’Olanda che si aggira intorno al 74% e addirittura alla Francia che si aggira intorno al 70%. Questo denota il fatto che la distribuzione di quel poco di lavoro che c’è viene distribuita tra i capofamiglia, a discapito dei figli e degli altri componenti della famiglia. Purtroppo c’è da dire che anche le politiche al reddito sono meno generose rispetto al resto dei paesi europei occidentali, fermandosi all’1,5% della spesa pubblica. Questo fa sì che  i giovani non vengono protetti in maniera consistente dal sostegno pubblico ma sono assicurati dal criterio dell’assegnazione di almeno un lavoro per ogni capofamiglia. Comunque sia, la crisi ha colpito meno il breadwinner – al 3,3 si è passato al 6,1% dei maschi e dal 5,7% al 8,1% delle donne – ma ha visto crescere enormemente quello degli altri componenti familiari ovvero dal 9,9% al 15%.

Questo tradizionale assetto familistico si è mantenuto, durante la crisi, principalmente nelle Regioni del Centro-Nord mentre nel Mezzogiorno, oltre che ad una maggiore concentrazione di giovani senza lavoro, si registra una caduta delle occupazione sulle famiglie (dal 75,3% dei maschi del 2004 al 69% del 2012). Inoltre è da notare come questo sistema vada a svantaggio delle donne e della loro partecipazione al mercato del lavoro; pur se negli ultimi 15 anni è aumentata la presenza delle donne grazie allo sviluppo del terziario teso ad assorbire maggiormente la domanda di manodopera femminile, nel 2009 si è notevolmente arrestata e la diseguaglianza tra maschi e femmine rimane sempre la più alta rispetto a quella registrata dagli altri paesi europei. L’Italia sconta i limiti di un regime di welfare familista che tende a disincentivare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, perché fortemente carente sul versante dei servizi sociali, delegando la responsabilità di cura prevalentemente alla sfera domestica e alle solidarietà intergenerazionali (Addis, 2000; Esping, Andersen, 2002; Naldini e Saraceno, 2011). Dunque, da questi dati si può ritenere che l’assetto familistico del lavoro- specie del settore pubblico- funge da ammortizzatore sociale in un periodo di stagnazione e di disoccupazione giovanile cronica. La famiglia, per i giovani, ricopre una funzione fondamentale e strategica per affrontare la fase di transizione al lavoro. Le donne in particolare sono quelle che prolungano la permanenza nella famiglia, facendo registrare un calo notevole dei tassi di fecondità (Pugliese, 1997), tant’è che si parla di emancipazione delle donne nella famiglia, a differenza di quanto avviene nei paesi del nord Europa dove si registrano fenomeni più classici di emancipazione dalla famiglia (Pugliese, 1997).

Altra questione ancora è la condizione dei giovani della cosiddetta  neet generation ovvero i giovani tra i 15 e 34 anni che non studiano e non cercano un lavoro: i neet italiani si aggirano intorni al 21,9% contro il 15,8% dell’Ue a 27. Rispetto ai paesi come la Francia, la Germania e il Regno Unito che rispettivamente conservano un tasso neet pari al 12,2%, 15,1% e 15% l’Italia supera dai 10 ai 7 punti percentuali. A raggiungere l’Italia è la Spagna che tra il 2008 e il 2009 registra un tasso del 21,3%. Un differenziale quello italiano già registrato dal 2000 ma con la crisi si vede ulteriormente accresciuto. L’Istat (2013) informa che gli inattivi disponibili a lavorare sono più numerosi dei disoccupati in senso stretto: sono 78 mila in più rispetto al 2011 ed è una quota superiore di oltre tre volte alla media europea (11,6% contro 3,6%). Mentre in Europa i disoccupati sono più del doppio degli inattivi, in Italia gli inattivi disponibili a lavorare sono più numerosi dei disoccupati in senso stretto (Istat, 2012). Il 43% del totale degli inattivi dichiara di non aver cercato un lavoro perché convinti di non trovarlo; le donne inattive disponibili a lavorare sono più numerose degli uomini (17,2% delle donne contro il 7,6% degli uomini).

Arrivati sin qui, si può ritenere che nel panorama europeo l‘Italia si distingue per le considerevoli differenze di genere, per il forte dualismo territoriale e per un mercato del lavoro poco inclusivo per i giovani (Reyneri, 2005) confermando ancora, per utilizzare sempre un termine di Pugliese (1998), un modello di disoccupazione di tipo mediterraneo. Come ha evidenziato Theborn già negli anni ’90, l’Italia si presenta come “un paese a forte carattere punitivo ed escludente rispetto ad alcune categorie di soggetti, i giovani e le donne (Giannelli, et al. 2000). Ciò che caratterizza il mercato del lavoro giovanile è la forma atipica del lavoro. L’indeterminatezza delle prospettive di lavoro e il diffuso senso di insicurezza e di precarietà pervadono le giovani generazioni che posticipano, di fatto, a tempo indefinito, i progetti familiari. I giovani sono esposti maggiormente al rischio dell’instabilità lavorativa, infatti coloro che hanno un contratto atipico sono 4 su 10 tra chi ha meno di 25 anni e 1 su 6 nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni (rapporto annuale Istat 2009). Inoltre i giovani sono quelli che scontano maggiormente la mancata copertura delle tutele del welfare. Si conferma una forte discrepanza tra nord e sud Italia – il livello di temporaneità al sud è del 13,9% contro il 9,5% del settentrione- per cui la probabilità di avere un lavoro instabile è più alta al Sud. Inoltre i giovani adulti hanno una probabilità più del doppio di essere occupati con lavori atipici, le donne hanno più difficoltà, rispetto agli uomini, di uscire dalla precarietà (Blossfeld, Hofacher, Rizza, Bertolini, 2013). In particolare, le giovani donne sono quelle più colpite del fenomeno dei contratti atipici (21,3% delle donne a fronte del 12,6% degli uomini) e hanno maggiori probabilità di trovare un impiego temporaneo (14,3% contro 8,9% degli uomini). Tuttavia queste discrepanze non si verificano per i giovani adulti: al nord c’è una differenza più significativa di tassi di atipicità tra chi ha meno di 25 anni e tra chi ha più di 25 anni rispetto al Sud dove il gap è più contenuto. Ciò denota il fatto che per i giovani dai 15 ai 24 anni, le differenze territoriali si accentuano. Un rischio possibile di questi contratti atipici è la tendenza a rimanere intrappolati in carriere discontinue alternando periodi di occupazione a periodi di disoccupazione, senza adeguati livelli di protezione sociale. Inoltre, per chi riesce ad inserirsi nel mercato del lavoro, l’Istat stima un periodo medio non meno di 5 anni affinché si possa transitare verso un impiego stabile. Tra i maschi la probabilità di transitare verso una posizione più stabile è maggiore rispetto alle donne – 51% circa per gli uomini, 41% circa per le donne. In una fase di primo inserimento nel mercato del lavoro un giovane su due sperimenta una forma di lavoro atipica; mentre il 47% di questi riesce a transitare in occupazione stabile, due su dieci continuano ad avere percorsi instabili. Secondo le indagini Istat nel mezzogiorno è molto più probabile che ad un lavoro atipico segua la disoccupazione e l’inattività (48% contro il 20% del nord). Lo studio di Bertolini, incentrato sulla connessione tra flessibilità del lavoro e la tarda uscita dalla famiglia di origine, evidenzia che chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato ha lasciato la famiglia di origine, ossia il 61,9% contro il 39,3% che ha un contratto a tempo determinato e non ha lasciato la famiglia di origine. E’ interessante vedere che il 62,1% dei lavoratori autonomi ha effettuato la transizione: questo è spiegato dal fatto che il lavoro autonomo è considerato un lavoro alternativo a quello subordinato, giacché consente una maggiore gestione del rischio e dell’incertezza. Se le ricerche sui giovani dell’istituto IARD degli anni ‘90 sottolineano quanto, in particolare nel mezzogiorno, il reddito e la stabilità lavorativa siano considerati di gran lunga più importanti, su una scala di valori, rispetto all’autonomia e alla possibilità di esprimere le proprie capacità, oggi l’ultima ricerca mette in evidenza di quanto invece è cresciuto il valore attribuito all’autonomia professionale. Specie nelle coorti più giovani si registra un’accentuata propensione al lavoro autonomo, percepito come meno sottoposto a vincoli e più rispondente ai bisogni di espressività e di creatività individuale e per di più maggiormente remunerativo rispetto ai tradizionali lavori offerti dalle imprese attraverso un contratto dipendente (Buzzi, De Lillo, Cavalli, 2006 pp.102). C’è anche un differenziale tra le coorti giovanili e un differenziale tra chi possiede un titolo di studio elevato e non. Innanzitutto i giovani a bassa scolarità hanno più probabilità di essere precari, di non avere un lavoro stabile, di avere tassi di attività più bassi e di essere coinvolti nel lavoro informale (Pugliese, 1997). Chi, invece, possiede un titolo di studio tra il diploma e la laurea ha più probabilità di rimanere alla ricerca di un lavoro e quindi di restare nella condizione di disoccupato. L’Istat (2013) conferma questo dato, evidenziando che i giovani meno istruiti sono i più svantaggiati nel perseguire una carriera lavorativa significativa. Questo perché, molto probabilmente, chi ha una bassa scolarità proviene da condizioni economiche molto più svantaggiate e dunque, necessitando di un lavoro estemporaneo, sono costretti ad accettare condizione di lavoro ben peggiori, e senza una reale opportunità di qualificarsi in un settore specifico. Però anche qui si registra un differenziale quando si parla di donne: hanno più difficoltà ad accedere al mercato del lavoro rispetto agli uomini con il risultato che molte abbandonano l’aspettativa rifugiandosi nel ruolo casalingo. Inoltre si registra differenze anche tra le coorti giovanili nel senso che i più giovani sono inclini al lavoro più dinamico mentre i più adulti hanno preferenze per lavori più stabili. Ciò riflette il carattere dicotomico dell’occupazione diviso tra il lavoro nel settore pubblico e quello più flessibile. Anche da punto di vista della condizione professionale, le donne conoscono uno svantaggio maggiore, sia per quanto riguarda la situazione reddituale, sia per quanto riguarda le posizioni lavorative. Il rapporto annuale Istat (2013) in “livelli e dinamica dell’occupazione femminile”, afferma che il lavoro atipico è molto più diffuso tra le donne, nelle regioni meridionali e tra i più giovani (di età compresa tra i 15 e 29 anni), e molti di questi hanno responsabilità familiari. Ne consegue che la probabilità di trasformare un lavoro temporaneo in uno standard è particolarmente ridotta per le donne (11,9%) e per chi risiede nel mezzogiorno (9,7%). In questi anni si assiste ad una riduzione del differenziale retributivo ma è dovuto sostanzialmente alla crisi economica la quale produce un aumento della domanda di lavoro da parte delle donne chiedono di lavorare in corrispondenza di una caduta generale dei salari dei capofamiglia. Secondo Banca d’Italia, negli anni ottanta il reddito dei lavoratori nella fascia 19-30 anni era inferiore del 20% rispetto a quello dei lavoratori nella fascia 31-60 anni, mentre ora il gap è del 35%. La bassa valorizzazione delle competenze, la segregazione occupazionale, e la maggiore presenza del lavoro non standard sono elementi che concorrono a spiegare le differenze salariali femminili. Da dipendenti, la retribuzione delle donne resta inferiore di circa 20% rispetto a quella degli uomini (1.306 euro contro 1.396 euro) e se mentre per da lavoratori a tempo pieno il differenziale si dimezza (11,5%, rispettivamente 1.279 euro contro 1.444 euro) le differenze si mantengono rilevanti per le donne più istruite (laureate). Inoltre le donne hanno accesso ad incentivi e straordinario in misura molto minore rispetto agli uomini. Laddove si accumulano più elementi- sovra istruzione da una parte e discontinuità dall’altra dovuta alla nascita di un figlio- il differenziale salariale è più elevato all’aumentare dell’età, confermando l’effetto “soffitto di cristallo” (Istat 2013). Tale svantaggio, comunque, si riduce, solo in caso di istruzione post laurea. Dunque, per concludere emerge che il più alto livello di istruzione è premiante, in media, più per gli uomini che per le donne.

1.3 Diseguaglianze e disparità contrattuali: il sottoinquadramento dei giovani laureati

Nel paragrafo precedente ci i è soffermati sulla difficoltà che i giovani vivono nell’affrontare l’inserimento nel mercato del lavoro, e di quanto l’insicurezza lavorativa e l’instabilità economica sono concentrati maggiormente al Sud. L’ottica di genere, e in particolare, le difficoltà che incontrano le donne nell’inserimento lavorativo, la segregazione professionale soprattutto in corrispondenza di un più alto livello di studi, ha fatto emergere la necessità di approfondire la problematica riguardante il difficile inserimento dei giovani più istruiti, in particolare i laureati. In un mercato sempre più specializzato e basato sulla conoscenza, sono richieste principalmente le professioni qualificate. Negrelli (2012) nel suo studio incentrato sulle trasformazioni del lavoro, evidenzia il cambiamento di paradigma del lavoro: un passaggio dal saper fare del periodo fordista al saper essere nel lavoro che esprime il bisogno e la richiesta di particolari skills individuali, capacità e competenze sempre più specifiche e competitive. Il passaggio dalla società del lavoro a quella dei lavori è basato sull’innovazione, sulla creatività, sulla flessibilità, sulla tecnologia. Eppure i giovani laureati, e quindi quelli più qualificati, si confermano l’anello debole dell’offerta di lavoro. I giovani laureati sono penalizzati sia dal punto di vista economico, con retribuzioni più bassi, sia dal punto di vista della stabilità lavorativa rispetto agli altri paesi europei. Già Pugliese (1997) evidenziava che la laurea non garantiva un reddito superiore rispetto a chi possedeva un diploma. Secondo l’indagine europea Reflex (2013) il tasso di disoccupazione dei giovani dei laureati italiani a cinque anni dalla laurea è del 7,5% (5,5% per Alma Laurea) superiore alla media europea. Nei primi 5-6 anni dopo la laurea il 64% circa dei giovani svolge lavori temporanei (Ue 47%), solo il 39% dichiara di svolgere lavori al alto contenuto di innovazione contro la media europea del 48%.

Una ricerca di Alma laurea Piemonte incentrata sulla condizione occupazionale dei laureati, informa che se nel 2001 su 100 laureati pre-riforma (tre più due), 71 dichiarano di lavorare. Inoltre il numero dei laureati è andato diminuendo, infatti i laureati magistrali del 2009 sono poco meno di 60. Tra il 2008 e il 2010 la disoccupazione dei laureati magistrali passa dal 7% al 11% mentre per i laureati triennali passa dal 7,3% al 12,5%. Il gruppo di ricerca si è interrogato se la tendenza al ribasso delle opportunità di impiego dipendesse dalla transizione laurea-lavoro confrontando la situazione dei giovani ad un anno dalla laurea e i giovani dopo tre anni dalla laurea. Ne consegue che la differenza è di sette punti percentuali (Ires Cgil, 2012). Il rapporto annuale dell’Istat 2013 evidenzia che le opportunità per i giovani diplomati e laureati (tra i 20 e 34 anni) rimangono poche. Tuttavia c’è da dire che i laureati triennali- coloro che sono meno presenti sul mercato del lavoro- decidono di prolungare i loro tempi di studio e dunque questo spiegherebbe il maggiore tasso di disoccupazione. Per quanto riguarda i salari sempre l’indagine Reflex informa che il salario medio di un giovane a 5 anni dalla laurea ammonta a 1.600 euro contro i 3.700 in Germania, i 2.200 euro della Francia, contro i 2.700 del Regno Unito. Solo in Spagna il salario medio è inferiore a quello italiano (1.500 euro). Secondo la Banca di Italia se negli anni ottanta il reddito dei lavoratori 19-30 anni era inferiore del 20% della coorte 31-60 anni, oggi il gap ammonta al 35%. Si registra che il salario di ingresso degli ultimi dieci anni è diminuito di circa l’11% nonostante il più elevato livello di istruzione. Dunque il tasso di rendimento universitario, in Italia, è molto basso. Inoltre come quota laureati, circa il 12%sul totale, l’Italia è ultima in Europa. Ma il gap non è riconducibile soltanto a considerazioni di tipo quantitativo, bensì è proprio la formazione- specie delle imprese- che registra un differenziale significativo rispetto alle skills richieste. Infatti, sempre il recente studio di AlmaLaurea evidenzia che mentre negli altri paesi Europei al contrarsi delle occupazioni è corrisposto un aumento di occupati nel settore più qualificato, in Italia si registra, invece, una significativa riduzione, probabilmente in seguito all’emigrazione di molti giovani nei paesi esteri (AlmaLaurea, 2010).

Per riassumere, i giovani italiani vivono una flessibilità lavorativa che porta all’instabilità occupazionale e, a parità di lavoro e di istruzione, ad un reddito più basso rispetto agli altri paesi Europei. L’attuale mercato del lavoro comporta una frammentazione dei percorsi professionali, una responsabilità maggiore nell’organizzarsi il lavoro e dunque un’assunzione totale dei rischi. Di fronte all’incertezza i giovani vivono costantemente il timore di non riuscire a costruire una biografia segnata dal successo e non dal fallimento, avendo come unica risorsa soltanto le proprie capacità e competenze. Il mercato chiede enormi sforzi adattivi attraverso un’autonomia e un’auto organizzazione del lavoro che, però, di fatto, non sono adeguatamente valorizzati. La flessibilità, lungi dall’essere uno strumento utile per progettare il proprio percorso di vita, per crescere professionalmente e socialmente, di fatto, si trasforma in precarietà, in un senso d’insicurezza. Scrive Di Nunzio (2013):

“[…] La flessibilità, intesa come spazio di auto-organizzazione da parte del lavoratore, per poter coniugare il lavoro alle esigenze non solo delle imprese ma anche della propria vita personale, è oggi tradita da un mercato del lavoro che la neutralizza, rendendola uno strumento di coercizione con cui controllare i propri non-dipendenti. La flessibilità ha acquisito ormai il significato di precarietà, di subordinazione alle politiche aziendali, perdendo quel valore positivo di adeguamento del ruolo del lavoro ai cambiamenti sociali, in particolare in riferimento alla destrutturazione dei tempi di vita quotidiana, alle esigenze di mobilità e formazione […]”.

La disoccupazione e la precarietà limitano lo spazio dell’agire dei giovani i quali o sono spinti ad accettare ogni forma di lavoro, anche mal pagato, o invece sono costretti a cambiare spesso lavoro, non riuscendo così ad accumulare un bagaglio di esperienze personali e professionali in un campo specifico. Infine l’aspetto da non sottovalutare, quando invece ci si riferisce alle nuove forme di occupazione, è l’estensione del tempo di lavoro dettata proprio dalla tecnologia e dall’informatica: da un lato il gap esistente tra l’Italia e l’Europa nel settore dell’ICT, della comunicazione del digitale ma dall’altro l’incertezza giovanile relativa proprio alle difficoltà vissute, sia se esse riguardano il digital divide, sia se esse riguardano, invece, il raggiungere vanamente una preparazione scientifica e professionale sempre più qualificata ma che probabilmente trova enormi difficoltà di tradursi in certezza lavorativa e in stabilità occupazionale.

Conclusioni

Questa breve analisi ha voluto mettere in evidenza lo svantaggio delle giovani generazioni, in Italia, principalmente in riferimento al lavoro. Il contesto italiano è caratterizzato da profonde questioni ancora irrisolte come le differenze contrattuali, il divario socio-economico tra Nord e Sud, la segregazione professionale di genere, i prolungati percorsi di inoccupazione e di precarietà, tutti elementi che derivano sostanzialmente da una debolezza strutturale del nostro paese, che non riesce ad investire nella forza lavoro giovanile. I retaggi culturali derivanti dal modello familistico di occupazione, la poca propensione all’innovazione e la mancanza di investimenti strutturali, rendono le politiche della flessibilità ancora più invasive di quelle che poi realmente sono. C’è un dibattito aperto tra studiosi, come si è discusso precedentemente, su quali possano essere le cause della fragilità occupazionale dei giovani italiani. Non è possibile, a conti fatti, rifarsi a forme dirette di responsabilità di tipo causali, si debbono tener conto di tanti fattori come quelli sociali, economici, relazionali, emotivi. Insomma la pretesa di spiegare le difficili condizioni in cui versano i giovani soltanto attraverso il lavoro, è fallimentare. Tuttavia è stato interessante far emergere il “caso italiano” che, diversamente dagli altri paesi europei, non riesce ad assorbire i giovani, a dare loro un futuro certo, ad assicurare adeguate politiche di protezione sociale, proprio a causa della sua struttura economica e sociale italiana che non si è mai liberata della logica di “un lavoro a capofamiglia”. Una posizione di svantaggio aggravata anche dalla congiuntura economica che non ha favorito l’occupazione, e che fatto perdere migliaia di posti di lavoro, con il conseguente blocco del turn over. Ma c’è da dire anche che i giovani, differentemente dai loro padri, non hanno ricevuto strumenti per fronteggiare le incertezze e per acquisire una piena autonomia nella realizzazione personale e professionale. In questo vortice negativo, non coadiuvati da un forte welfare, i giovani trovano conforto nei legami solidaristici con la famiglia di origine, trascurando quasi del tutto il transito alla vita adulta. E quindi rimangono sospesi in un eterno presente, aspettando che passi la burrasca, non riuscendo ad esprimere fino in fondo il proprio talento e le proprie capacità. Schiacciati dalla flessibilità, i giovani italiani sono sottoinquadrati, declassati e precari. 

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[1] La nascita del modello di flexcurity è solitamente associata alla riforma del mercato del lavoro introdotta in Danimarca nel 1993 incentrata sulla strategia che tenta in maniera sincronica di aumentare da un lato la flessibilità e dall’altro la sicurezza sociale e dell’occupabilità dei lavorativi evitato la segmentazione del mercato del lavoro.

[2] Si fa riferimento al Pacchetto Trew e alla Legge 30: modificazione ed estensione dei contratti con finalità formative, liberalizzazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato, introduzione del lavoro ad interim.


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On. Flora Frate

Nata il 03/07/1983 a Napoli. Docente di scienze umane, Idonea al dottorato di ricerca di Scienze Sociali e Statistiche all’ Università Federico II di Napoli e laureata con lode in Politiche sociali e del Territorio presso la medesima Università. Presidentessa dell’ass.ne socio-culturale giovanile ”Medea-Fattoria sociale”; nel 2013 ha partecipato come relatore al Convegno Internazionale sulla Disabilità svoltosi al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Componente della Commissione VII (Cultura, Scienza, Istruzione, Sport).

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