La Consulta si pronuncia sul principio di proporzionalità della pena

La Consulta si pronuncia sul principio di proporzionalità della pena

La Corte Costituzionale, con la sentenza del 21 settembre 2016 n. 236, è tornata a pronunciarsi sulla spinosa questione della proporzionalità della pena con riguardo al trattamento sanzionatorio di cui all’art. 567 comma 2 c.p., a seguito della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Varese per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost..

Il legislatore, attraverso la norma oggetto dello scrutinio di legittimità, intende perseguire chiunque commette un’alterazione di stato, realizzata per mezzo di false certificazioni o attestazioni finalizzate alla formazione di un atto di nascita, con una pena compresa tra i cinque e i quindici anni di reclusione.

Tuttavia, secondo il giudice remittente, il trattamento sanzionatorio pecca di un eccessivo rigore, come emerge anche dal raffronto con le pene previste per altri reati contro la famiglia previsti nel medesimo capo del codice.

In particolare, nel caso di specie, il giudice rileva come, pur volendo applicare il minimo edittale e volendo riconoscere l’attenuante di cui all’art. 62 n.1 c.p., ossia l’aver agito per motivi di particolare valore sociale (aver voluto dare una famiglia al minore), la sanzione risulta sproporzionata rispetto all’effettivo disvalore del fatto, non permettendo all’imputato di beneficiare della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna.

Nell’affrontare la questione, non si può prescindere dalla ratio della norma, individuata dal legislatore del codice Rocco nella necessità di garantire al neonato una corretta e veridica attribuzione della propria ascendenza. Per tale ragione era stato ritenuto opportuno sottoporre la condotta di cui al secondo comma ad una pena compresa entro limiti edittali ben più severi rispetto a quelli previsti per la condotta di sostituzione materiale di un neonato, sanzionata dal primo comma dell’art. 567 c.p. con una pena  compresa tra i tre e i dieci anni di reclusione. La ragione -sia pure opinabile- di tale differenziazione era stata rinvenuta nella circostanza che, nell’ipotesi di cui al primo comma, la sostituzione dei neonati avviene a seguito della formazione di un atto di nascita corretto.

Per di più, nell’ordinanza, il giudice a quo non manca di sottolineare che, a fronte del progresso scientifico e all’evoluzione sociale e normativa, appare quanto mai anacronistica la scelta del legislatore del 1930.

Oggigiorno, difatti, se da un lato la scienza permette di accertare il legame genetico che sussiste tra due soggetti attraverso degli esami di laboratorio, dall’altro, invece, è la stesso legislatore a ridimensionare l’importanza dell’atto di nascita, come sarebbe dimostrato dalla riforma della filiazione attuata per mezzo del D.Lgs. n. 154/2013.

La riforma, tra l’altro, avrebbe colmato un gap esistente rispetto a numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, in diverse occasioni, hanno svilito il ruolo dell’atto di nascita e, contestualmente, delle sue alterazioni.

Rimanendo sempre in un’ottica sovranazionale, l’art. 8 CEDU, richiede una proporzionalità per l’intervento statuale nei rapporti familiari che verrebbe meno laddove si permettesse al legislatore di prevede un trattamento sanzionatorio eccessivamente aspro per questo genere di delitti.

Infine, si censura la coerenza del sistema stesso laddove, a fronte di condotte dotate di un ugual – se non maggiore – disvalore, siano previsti trattamenti mitigati rispetto a quello previsto per la norma oggetto di censura.

Quanto detto, inevitabilmente, è destinato a ripercuotersi sull’efficacia del trattamento sanzionatorio in termini di rieducazione del reo il quale, soprattutto alla luce dei motivi che lo hanno spinto ad agire, non potrà che avvertire un senso di ingiustizia.

La Consulta, nel ritenere fondate le censure alla luce di entrambi i parametri costituzionali richiamati, opera, tuttavia, alcune precisazioni.

Pur essendo vero che l’atto di nascita non può essere più considerato l’unico strumento idoneo ad accertare lo status filiationis, tale circostanza non è di per se idonea ad incidere sul concreto disvalore della condotta, dal momento che il ricorso agli esami del DNA potrebbe non rendersi mai necessario, non essendo del tutto inconcepibile che la vittima del reato non abbia mai motivo di dubitare delle proprie origini.

L’altra critica viene mossa all’argomento civilistico della riforma del diritto di famiglia, dal momento che questa non è idonea ad incidere sul disvalore della condotta di cui all’art. 567 comma 2 c.p..

Ciò non toglie che, come correttamente ritenuto dal giudice a quo, la pena sia effettivamente sproporzionata rispetto alla condotta posta in essere e ad appaia chiaramente inidonea a perseguire le istanze di rieducazione alla base del sistema sanzionatorio.

Difatti, non è illogico ritenere che il reo possa essere refrattario ad un siffatto processo di rieducazione, a maggior ragione alla luce delle nobili motivazioni, sia pure portate ad attuazione in modo non ortodosso, che lo hanno spinto ad agire nel migliore interesse del minore.

Né si può ammettere che, al fine di raggiungere preminenti fini statuali, sia strumentalizzato l’individuo, come d’altronde sancito anche dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Tuttavia, la vera novità della sentenza – e da qui la sua importanza – è da rinvenirsi nell’assenza di un tertium comparationis. Il richiamo ad altre norme dotate di uguale o addirittura maggiore disvalore, difatti, è effettuato solo per sostenere i motivi su cui si fonda l’ordinanza, per il resto imperniata sull’irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all’art. 567 comma 2 c.p..

È così cura della Corte sottolineare che il suo intervento può essere invocato solo a determinate condizioni, tra cui rientra certamente l’individuazione di parametri presenti nell’ordinamento statuale con cui operare un raffronto.

Se così non fosse, la discrezionalità della Consulta sarebbe massima e, inevitabilmente, in contrasto con la riserva di legge in materia penale a favore del Parlamento prevista dall’art. 25 della Costituzione.

Il giudizio di legittimità costituzionale, infatti, è volto ad eliminare le incongruenze del sistema “giacché obiettivo del controllo sulla manifesta irragionevolezza delle scelte sanzionatorie non è alterare le opzioni discrezionali del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze“.

Il rispetto delle condizioni del giudizio di legittimità può essere però garantito, come la Consulta non manca di sottolineare, per “vie interne”, attraverso il raffronto con la fattispecie di reato di cui al primo comma della norma in esame.

Non si può ignorare che, sebbene attraverso differenti modalità, le due condotte descritte dall’art. 567 sono tese a tutelare il medesimo bene giuridico e, per tale motivo, non appare irragionevole uniformare il trattamento sanzionatorio, dal momento che non è possibile ravvisare, sotto il profilo della condotta, delle divergenze tali da giustificare un’inasprimento del trattamento sanzionatorio per la previsione di cui al secondo comma.

La Corte Costituzionale in tal modo percorre l’unica via praticabile per ricondurre a ragionevolezza il sistema, pur invitando il legislatore ad un ripensamento complessivo del trattamento sanzionatorio previsto per i delitti contro lo stato di famiglia, anche alla luce del mutato contesto sociale.


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