La convivenza more uxorio ed il contratto di convivenza

La convivenza more uxorio ed il contratto di convivenza

Con la l. n. 76 del 2016 il legislatore ha provveduto per la prima volta a fornire una definizione specifica del concetto di “convivenza”, la quale – secondo quanto previsto dal comma 36 della legge citata – deve intendersi come quella relazione stabile, caratterizzata da legami affettivi di coppia e da reciproca assistenza, tra due persone maggiorenni non legate da rapporti di parentela, affinità o adozione, ovvero da matrimonio od unione civile.

La convivenza, in realtà, aveva già in precedenza ricevuto qualche riconoscimento legislativo, ma mai si era provveduto all’emanazione di un testo normativo capace di contenerne per intero la relativa disciplina.

A conferma di quanto detto si pensi, per esempio, all’art. 337 sexies c.c., in tema di assegnazione della casa coniugale in caso di affidamento dei figli; all’art. 342 bis c.c., in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari; all’art. 408 c.c., in tema di amministrazione di sostegno; all’art. 417 c.c., in materia di interdizione ed inabilitazione o all’art. 199 c.p.p. sulla facoltà dei congiunti di astenersi dalla deposizione.

Quanto alle leggi speciali, invece, si deve a tal proposito menzionare l’art. 30 l. n. 354/1975, in materia di ordinamento penitenziario e di esecuzione delle misure privative della libertà personale; l’art. 3 l. n. 91/1999 sui trapianti e prelievi di ogni e tessuti e l’art. 1 l. n. 266/05 in materia di alienazioni degli immobili di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari.

Il riconoscimento giuridico della convivenza trae spunto dall’art. 2 della Carta fondamentale, avendo la Consulta attribuito ad essa il ruolo di formazione sociale nella quale l’individuo esplica la propria personalità.

La Corte, tuttavia, sottolinea l’impossibilità di procedere ad una totale equiparazione giuridica tra la convivenza e la famiglia legittima, le quali, nonostante siano ambedue formazioni sociali riconosciute e tutelate dalla legge, non possono che ritenersi come due fattispecie diverse e come tali sottoposte a disciplina in parte differente.

Sulla base di quanto affermato dalla legge menzionata, posto che tra gli elementi costitutivi del rapporto di convivenza non rientra la coabitazione – ovvero la necessità che i soggetti interessati condividano la medesima abitazione, imprescindibile invece per la costituzione di una famiglia anagrafica di fatto – deve ritenersi che la dichiarazione anagrafica alla quale fa riferimento il successivo comma 37 assuma una valenza meramente dichiarativa del rapporto di convivenza, nel senso di ritenersi utile al solo fine di accertarne la stabilità, la quale può tuttavia desumersi aliunde.

Secondo l’opinione dominante, pertanto, la disciplina contenuta nella l. n. 76/16 deve  certamente trovare applicazione a qualsiasi rapporto di convivenza che possieda i requisiti di cui al comma 36, a prescindere dalle modalità di accertamento della stabile convivenza, e quindi indipendentemente dal fatto che questa risulti dalla certificazione anagrafica ovvero venga verificata con strumenti differenti.

Come sostenuto da attenta dottrina, infatti, ragionando diversamente si finirebbe per porsi in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Carta fondamentale, in quanto si creerebbero due diverse categorie di conviventi, l’una, quella dei conviventi registrati e aventi come tali residenza anagrafica comune e costituenti pertanto “famiglia anagrafica”, alla quale sarebbe applicabile la nuova disciplina, l’altra, quella dei conviventi non registrati, il cui rapporto si conforma ai requisiti di cui al comma 36 ma per i quali non sussistono le condizioni per l’accertamento anagrafico, che rimarrebbe invece fuori dal perimetro applicativo della legge in parola, potendo godere solamente di quei diritti che le norme precedenti e la giurisprudenza avevano già in passato riconosciuto ai conviventi.

Tanto premesso, se da un lato la coabitazione non è imprescindibile per la costituzione di un rapporto di convivenza, dall’altro, però, è il presupposto necessario per l’operatività di alcune facoltà riconosciute ai conviventi quale, in particolare, il diritto di abitazione del convivente superstite, esercitabile esclusivamente nell’ipotesi in cui i conviventi condividano la medesima abitazione ed abbiano la medesima residenza anagrafica. Secondo l’opinione prevalente il diritto in questione avrebbe natura di legato ex lege, trattandosi dell’unico diritto mortis causa previsto dalla nuova normativa, nonché carattere personale.

A differenza di quanto previsto con riferimento al coniuge o all’unito civilmente, tuttavia, il diritto di abitazione del convivente superstite ha carattere temporaneo; la sua durata, inoltre, è influenzata da quella della convivenza nonché dalla coabitazione con l’interessato di figli minori o disabili.

Nonostante la legge non ne preveda la possibilità di trascrizione, l’orientamento prevalente ritiene che il diritto di abitazione sia comunque opponibile ai terzi acquirenti dell’immobile, i quali abbiano acquistato dagli eredi del defunto, entro il termine massimo di durata del diritto stesso, pari a cinque anni.

Si richiama a riguardo l’art. 1599 c.c., in base al quale il diritto di godimento del conduttore è opponibile al terzo acquirente se il contratto di locazione stipulato ha data certa anteriore all’alienazione della cosa; anche nella fattispecie in parola, infatti, il diritto di continuare ad abitare nella casa di residenza comune si ricollega ad un evento avente data certa (ovvero la morte) e come tale può certamente ritenersi opponile al terzo acquirente che abbia acquistato il suo diritto successivamente alla morte dell’originario proprietario.

Come osservato da attenta dottrina, tuttavia, la mancanza di trascrizione rende difficile per il terzo acquirente acquisire la consapevolezza di tale vincolo e, per tale ragione, è onere degli eredi, in ossequio al principio di buonafede, informarlo della sussistenza di tale diritto a favore del convivente superstite, pena la possibilità per il compratore di ottenere la risoluzione del contratto di vendita ovvero una riduzione del prezzo, oltre al risarcimento del danno.

Tra le prerogative riconosciute al convivente dalla nuova normativa vi è anche il diritto di subentrare nel contratto di locazione intestato al convivente defunto: con il comma 44, in particolare, la l. n. 76/16 recepisce l’orientamento della Consulta, la quale aveva dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, l. n. 392/78 nella parte in cui non prevede, in caso di morte del conduttore, il subentro nel contratto di locazione, oltreché del coniuge, del convivente more uxorio.

Particolare rilevanza assume anche il diritto agli alimenti, i quale devono essere attribuiti in proporzione al bisogno dell’avente diritto e delle condizioni economiche del soggetto obbligato, non potendo in ogni caso eccedere quanto necessario per la vita dell’alimentando, avuto riguardo alla sua posizione sociale, e dovendo essere attribuiti in proporzione alla durata della convivenza.

In tema di impresa familiare, invece, desta qualche perplessità la mancata parificazione del convivente al coniuge, in quanto non si vede la ragione per la quale lo stesso debba ricevere un trattamento peggiore rispetto all’affine, al quale vengono invece riconosciuti gli stessi diritti del coniuge.

Secondo quanto previsto dal nuovo art. 230 ter c.c., così come introdotto nel testo del codice civile dalla l. n. 76/16, al convivente è riconosciuto solo il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, ma non anche il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e neppure il diritto di partecipare all’adozione delle decisioni concernenti l’amministrazione dell’impresa, quali quelle inerenti all’impiego di utili o incrementi, nonché concernenti la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell’attività. D’altra parte, al convivente non è riconosciuto alcun diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o trasferimento dell’azienda.

I diritti patrimoniali del convivente in tema di impresa familiare, inoltre, sono subordinati alla prestazione di lavoro all’interno dell’azienda, diversamente da quanto previsto per il coniuge e gli altri familiari, per i quali si fa invece riferimento anche a quello prestato all’interno della famiglia.

La l. n. 76/16, d’altra parte, attribuisce ai conviventi una serie di prerogative che costituiscono una mera riproposizione di facoltà già in passato loro attribuite: si pensi, per esempio, alla parificazione dei conviventi ai coniugi nell’ambito dell’ordinamento penitenziario ovvero al diritto di assistenza e di visita, nonché di accesso alle informazioni personali, i quali sono esercitabili sulla base del solo rapporto di convivenza.

Al contrario, tale rapporto non è dalla legge ritenuto sufficiente per l’adozione delle decisioni inerenti alla salute del convivente in stato di incapacità di intendere e volere, ovvero quando sia necessario adottare una decisione in ordine alla donazione di organi o alle modalità di trattamento del corpo e alle celebrazioni funerarie del convivente defunto. In questi casi, infatti, il legislatore ritiene necessario un apposito atto di designazione,  redatto in forma scritta o comunque alla presenza di un testimone, attraverso cui sia attribuito al convivente lo specifico potere di adottare le suddette decisioni.

Tra le facoltà più importanti che la legge in parola attribuisce ai conviventi vi è sicuramente la possibilità di stipulare un contratto di convivenza, attraverso il quale disciplinare i rapporti patrimoniali della famiglia.

In realtà, la possibilità per i conviventi di usufruire di un simile negozio era stata già in passato riconosciuta loro, sul presupposto che si trattasse di una fattispecie suscettibile di tutela da parte dell’ordinamento in ragione della meritevolezza dell’interesse perseguito, coincidente appunto con la necessità di regolamentare gli aspetti patrimoniali della convivenza.

Solo con l’emanazione della nuova normativa, tuttavia, si perviene a disciplinare in maniera specifica il contenuto, la forma e l’efficacia del negozio, il quale diventa in tal modo un contratto tipico.

Secondo quanto espressamente previsto, in particolare, non possono costituire oggetto del contratto in parola i rapporti personali, nonché quelli aventi carattere successorio: i primi, infatti, sono per loro stessa natura esclusi da qualsivoglia contrattazione, avendo carattere indisponibile, mentre gli altri, in ossequio al divieto di patti successori ex art. 458 c.c., non possono costituire oggetto di atti di disposizione diversi dal testamento, il quale è l’unico negozio previsto nel nostro ordinamento capace di attribuire diritti a causa di morte.

Quanto alla forma, si prevede che il contratto di convivenza possa essere stipulato mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata da un pubblico ufficiale all’uopo autorizzato, quale un notaio o un avvocato, i quali sono chiamati ad attestare la conformità del negozio alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.

La scelta della forma dipende dal contenuto del contratto: nel caso in cui, infatti, da esso discendano obblighi di fare o di consegnare cose specifiche, è chiaro che la forma prescelta dalle parti per il negozio dovrebbe essere l’atto pubblico, in quanto diversamente lo stesso non potrebbe assumere la valenza di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., posto che l’esecuzione forzata di tali obblighi può avvenire esclusivamente sulla base di un atto pubblico.

Nel caso in cui, poi, nel contratto siano previsti dei trasferimenti di beni a titolo di liberalità o sia con esso imposto un vincolo di destinazione, è evidente allora che la forma del negozio deve essere quella prevista dalla legge in materia di donazione e proprietà fiduciaria, ovvero l’atto pubblico in presenza di due testimoni.

Con l’introduzione della nuova normativa, d’altra parte, si attribuisce al contratto di convivenza efficacia reale: ai fini dell’opponibilità ai terzi del negozio, in particolare, s’impone al notaio che ha ricevuto l’atto, o all’avvocato che ne ha autenticato la sottoscrizione, di trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe, la quale assume così la funzione di pubblicità dichiarativa.

Tanto premesso, un primo dubbio interpretativo è sorto nell’individuazione dei soggetti legittimati a stipulare un contratto di convivenza: ci si è chiesti, infatti, se tale facoltà possa essere riconosciuta esclusivamente ai conviventi “registrati”, ovvero se spetti a tutti i conviventi indipendentemente dalla registrazione all’anagrafe della convivenza.

Posto che la coabitazione è, da un lato, un presupposto necessario per l’iscrizione all’anagrafe ma, dall’altro, non è un requisito imprescindibile per la costituzione della convivenza, è chiaro come l’intera disciplina contenuta nella l. n. 76/16, compresa la facoltà di stipulare il contratto di convivenza, non possa che essere applicata a prescindere dalla predetta registrazione, la quale non assurge ad elemento costituivo della convivenza.

D’altronde, si osserva, è la stessa legge in parola a prevedere che le parti del rapporto di convivenza possano avere indirizzi differenti, nonché a stabilire che il contratto di convivenza può (e non deve) contenere l’indicazione della residenza comune.

Come osservato da attenta dottrina, inoltre, escludere la possibilità per i conviventi non registrati di stipulare il contratto di convivenza comporterebbe rilevanti dubbi in merito alla sorte del negozio qualora cessi la coabitazione, posto che tale circostanza non è annoverata tra quelle che ne legittimano la risoluzione.

Infine, si osserva, non può certo condividersi l’opinione di chi ritiene che per la registrazione del contratto di convivenza, e dunque per la sua opponibilità ai terzi, sia necessaria la previa registrazione della convivenza all’anagrafe.

Ulteriori questioni ermeneutiche concernono il contenuto del contratto, nel quale ci si chiede se possano essere inserite anche pattuizioni atipiche, diverse da quelle previste espressamente dalla legge.

Secondo l’opinione dominante il tenore letterale della legge, la quale utilizza l’espressione “può contenere” e nello stesso tempo non stabilisce alcuna limitazione di sorta, lascia chiaramente intendere che l’elencazione contenuta nel comma 53 non possa considerarsi esaustiva, bensì meramente esemplificativa, derivando così per le parti la possibilità di inserire all’interno del negozio, nei limiti della meritevolezza dell’interesse perseguito, anche prescrizioni differenti da quelle specificamente indicate.

Si ritiene, ad esempio, che nel contratto di convivenza si possa disciplinare l’uso della casa adibita a residenza comune, costituire un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. ovvero formalizzare veri e propri trasferimenti di beni e diritti a titolo di donazione ovvero di adempimento di un’obbligazione naturale.

Con riferimento al contenuto del negozio in parola, un’altra problematica ha riguardato la possibilità per i conviventi di disciplinare il rapporto per l’ipotesi della sua cessazione, posto che per espressa affermazione legislativa il contratto di convivenza non può essere sottoposto a condizioni o termini.

Proprio sulla base di tale prescrizione, infatti, considerando la cessazione della convivenza quale condizione di efficacia della clausola contrattuale, un’impostazione minoritaria ha ritenuto preclusa per le parti la suddetta facoltà.

Di diverso avviso è invece l’interpretazione prevalente, per la quale il divieto di apporre condizioni o termini al contratto di convivenza non è certo finalizzato ad impedire alle parti di disciplinare con esso anche la fine del rapporto, essendo al contrario rivolto a precludere alle stesse la possibilità di subordinare l’efficacia del negozio ad eventi futuri ed incerti ad esso estranei, tra i quali non possono sicuramente rientrare quelle pattuizioni formulate con riferimento alla dinamica normale del rapporto di convivenza, come appunto quelle concernenti la fase successiva alla sua cessazione.

D’altra parte, si osserva, ragionando diversamente si finirebbe per privare il negozio di una parte rilevante del suo contenuto, essendo evidente l’interesse delle parti di provvedere a disciplinare il rapporto per l’eventualità in cui lo stesso dovesse cessare.

Dovendo ritenersi, dunque, che anche quello della cessazione sia in realtà un momento del rapporto che il contratto di convivenza si propone di regolamentare, ne deriva di conseguenza la possibilità per lo stesso di costituire in capo alle parti degli obblighi patrimoniali valevoli nell’ipotesi in cui la convivenza dovesse finire.

Il contratto di convivenza si scioglie in caso di risoluzione consensuale delle parti, recesso unilaterale, matrimonio od unione civile tra i conviventi o tra uno dei conviventi ed un’altra persona, nonché per la morte di uno dei contraenti.

La possibilità di recedere ad nutum ed in ogni momento dal contratto di convivenza è certamente un corollario logico della natura stessa della relazione, la cui sussistenza e continuazione è subordinata alla permanenza della volontà delle parti, alle quali, pertanto, deve essere garantita la possibilità di sciogliersi liberamente dal rapporto, recedendo dal negozio.

Nel caso di recesso unilaterale, in particolare, il professionista che riceve o autentica l’atto è tenuto a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto.

Non si comprende invece la ragione per la quale, nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, quest’ultimo sia tenuto, a pena di nullità, ad indicare un termine entro il quale l’altro convivente deve lasciare l’abitazione. Tale prescrizione, infatti, presuppone che ogni qualvolta in cui il convivente si avvalga della facoltà di recedere unilateralmente dal contratto di convivenza si verificherebbe inevitabilmente anche la cessazione della convivenza, mentre in realtà è certamente possibile che il convivente intenda recedere dal contratto senza tuttavia porre fine alla relazione.

La risoluzione del contratto per accordo tra le parti o il recesso unilaterale devono  rivestire la forma richiesta per il negozio di convivenza, ossia risultare da atto pubblico o da scrittura privata autenticata ed essere regolarmente iscritte all’anagrafe del comune di residenza dei conviventi.

Il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi o tra questi ed un’altra persona, invece, più che una causa di risoluzione del contratto di convivenza, deve considerarsi come una causa di cessazione del rapporto, dal quale deriva inevitabilmente, quale logica conseguenza, lo scioglimento del negozio. In tale ipotesi, il contraente che ha contratto matrimonio od unione civile deve notificare all’altro e al professionista l’estratto di matrimonio od unione civile, affinché quest’ultimo provveda all’annotazione della risoluzione a margine del contratto di convivenza.

Nel caso di risoluzione a seguito della morte di uno dei conviventi, invece, il contraente superstite o gli eredi di quello deceduto sono tenuti a notificare al professionista, che ha ricevuto l’atto o l’ha autenticato, l’estratto di morte affinché provveda alla relativa annotazione e a comunicarla all’anagrafe del comune di residenza. In questo caso, dunque, a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di risoluzione per matrimonio od unione civile, al professionista è imposta anche la comunicazione all’anagrafe, nonostante tale onere appaia in realtà superfluo, posto che l’informativa circa la morte del convivente già dovrebbe provenire dall’ufficio dello stato civile.

Rimanendo nell’ambito delle vicende del contratto, la legge ne prevede invece la nullità nelle ipotesi in cui non sussistono i requisiti richiesti per la costituzione della convivenza, nonché nel caso in cui lo stesso sia stato redatto dall’interdetto giudiziale ovvero da persona condannata per il delitto di cui all’art. 88 c.c.

In pendenza di un procedimento di interdizione giudiziale ovvero in caso di rinvio a giudizio per il delitto di cui all’art. 88 c.c., infine, gli effetti del contratto di convivenza rimangono sospesi sino a quando non sia eventualmente pronunciata la sentenza di proscioglimento.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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